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Home Saggi e Prose Critica dantesca Inferno XIII: un orizzonte di negazione
Inferno XIII: un orizzonte di negazione PDF Stampa E-mail
Critica dantesca
Domenica 17 Ottobre 2010 13:39

[in "Deutsches Dante Jahrbuch, 73, 1998, pp. 99-118 (poi in Il Dante fascista / Saggi, letture, note dantesche, Longo Editore, Ravenna, 2001, pp. 9-28)].

 

L’apertura del canto XIII dell’Inferno colpisce per l’orizzonte di negazione che profila con forza inusitata. Un orizzonte di negazione è comune nella realtà dell’inferno, ma qui trova la sua espressione più intensa, perché nell’anima dei peccatori qui presenti la negazione si esercitò sia sulla vita sia sulla libertà, entrambe doni inestimabili di Dio. La vita la si nega recidendola, rifiutando il dono divino. La libertà del volere la si offende irreparabilmente decidendo di cancellarla con la vita stessa, e anche qui negando e respingendo il fondamento del rapporto tra l’uomo e Dio.

A tempo Dante chiarirà:

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse creando ed alla sua bontate

più conformato e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate…    (Par. V 19-22).

Nel caso di Pier della Vigna, la figura che più delle altre campeggia in questo canto, la ‘libertà’ è presunta; esercitata nell’atto suicida, si risolve nell’obbedienza a un condizionamento psicologico non ad un imperativo etico. La motivazione per disdegnoso gusto, alla radice del gesto, fa di Pier della Vigna l’anti-Catone; è una motivazione circoscritta e sostanzialmente egoistica, non potrebbe mai  - come in Catone il rifiuto della vita in nome di una suprema difesa della libertà -  costituire un modello morale, un exemplum. Col suo gesto di libertà presunta, un gesto di disperazione però, Pier della Vigna si è condannato alla perdita perpetua della libertà: lo spirito del suicida è incarcerato per sempre nei nocchi del suo pruno.

 

L’orizzonte di negazione è espresso per via linguistica e stilistica fin dalle prime battute. Il XIII dell’Inferno è l’unico canto in tutta la cantica che cominci in forma negativa («Non era ancor di là Nesso arrivato», v. 1) e quasi l’unico in tutto il poema, se si escluda il XXIV del Purgatorio anch’esso aperto da una negazione (« il dir l’andar, l’andar lui più lento / facea..», vv. 1-2) ma in un clima morale ben diverso e in una dimensione di fervore intellettuale lungo l’iter di speranza esemplato dall’ascesa del monte dell’espiazione.

La cellula narrativa del primo verso  - «Non era ancor di là Nesso arrivato» -  offre una voce caratterizzante del canto, quell’avverbio negativo non, che diventa la sigla della negatività dalla quale il canto è contrassegnato. Ne saranno pervasi la seconda terzina e l’inizio della terza, in cui il non si accampa ossessivo ad apertura di verso, e batte e ribatte il chiodo di un’idea sottostante a quello che sembra un puro referto ambientale: l’idea dell’universo di negazione costituente l’essenza dell’inferno e qui, in particolare, la negazione massima nella prospettiva cristiana, il rifiuto del dono della vita.

Il bosco nel quale i due poeti entrano mentre, alle loro spalle, Nesso si allontana, ha un aspetto singolare: «ci mettemmo per un bosco / che da neun sentiero era segnato» (vv. 2-3). È stata rilevata una qualche affinità tra questo bosco senza traccia di sentiero e la selva oscura del primo canto dell’Inferno. Ma se giova cogliere affinità di luoghi e di situazioni, giova maggiormente cogliere la specificità con cui elementi affini sono adoperati in luoghi diversi del poema.

Nella selva oscura la coscienza dello smarrito viaggiatore conservava netta l’immagine di una diritta via, smarrita sì, ma recuperabile. E la possibilità del recupero veniva garantita, appunto, dalla risvegliata coscienza dell’esser finito fuori strada rispetto all'itinerario da seguire. Qui il bosco è senza nessun sentiero non che all’occhio dei due viaggiatori oltremondani alla coscienza dei suoi tristi abitatori, come il seguito del canto chiarirà.

I dannati la via l’hanno non smarrita, ma definitivamente perduta; il loro smarrimento non è stato inconsapevole («I’ non so ben ridir com’i’ v’intrai» dice di sé il pellegrino raccontando il proprio smarrimento nella selva oscura). I “disperati” (Muresu) del secondo girone del settimo cerchio hanno compiuto in piena consapevolezza l’atto violento contro se stessi o contro i propri beni, l’atto col quale si sono sottratti al dovere di vivere o a quello di usare saggiamente dei loro averi: in ogni caso, si sono sottratti al disegno divino e al dovere di vivere secondo questo disegno nella società umana.

La descrizione della selva è condensata in una terzina: nei primi due versi la cesura tra gli emistichi è netta e tagliente, nel terzo appena attenuata dall’apparizione del verbo:

Non fronda verde, ma di color fosco;

non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;

non pomi v’eran, ma stecchi con tosco (vv. 4-6).

L’emistichio contenente la negazione aggetta fortemente sull’altra metà della struttura versale, in parte debilitando la vigoria dell’avversativa. Il ma, che introduce all’elemento in contrapposizione, scolora rispetto alla prepotente evidenza delle tre negazioni. Può sembrare singolare questo dare un così forte rilievo agli aspetti positivi (fronda verde, rami schietti, pomi) rispetto a quelli destinati a configurare alla mente del lettore il desolato paesaggio della selva. Ma è proprio quel non, che rintocca fin dal primo verso del canto, a costituire il segno forte del discorso, sì che la visione squallida della selva ha già in esso la sua cifra veramente significativa. Il color fosco delle fronde, i rami nodosi e ‘nvolti, gli stecchi con tosco inverano in immagini ciò che la negazione ha già, per la sua forza stessa, comunicato.

Contribuiscono a rafforzare l’orizzonte di negazione le forme verbali in costruzione negativa che dominano gran parte del canto: non vedea, v. 23; non hai, v. 36; non averebbe, v. 49; non posso tacere e voi non gravi, v. 56; non torse, v. 65; non ruppi fede, v. 74; non perder l’ora, v. 80; non potrei, v. 84, e così via. Vi contribuiscono verbi che esprimono sottrazione o assenza: torrìen, v. 21; si nascondesse, v. 27; tronchi, v. 28; colsi, v. 32; scerpi, v. 35; e così di seguito.

Il luogo penale è nel segno del groviglio e del disordine. L’intrico vegetale, però, molesto ai dannati, non sembra ostacolare il cammino dei pellegrini. Dante in varie occasioni sottolinea difficoltà e asperità del percorso. A rimanere nell’ambito dei canti dal primo al tredicesimo basterà ricordare l’attraversamento dell’Acheronte, che resta misterioso, e poi il passaggio tra i golosi superata l’opposizione di Cerbero; e, ancora, le minacce di Flegiàs, il contrastato ingresso nella città di Dite dopo l’opposizione di Furie e demoni; la difficile discesa verso il  settimo cerchio su un terreno malagevole e franoso. Qui, nell’irto bosco dei suicidi, Dante non spende una sola parola sull’eventuale difficoltà del cammino. Forse una ragione c’è. Il poeta avrà voluto suggerire il suo distacco completo dalle colpe punite in questo girone, soprattutto il suo distacco da ogni tentazione suicida.

Inquietante nell’aspetto immediato di intrico vegetale senza passaggi certi, così irto da essere accostato, vincendo il confronto, al tratto di Maremma gradito a «quelle fiere selvagge che in odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi colti», la selva schiude altri paurosi segreti; rivela, prima ancora del suo vero mistero doloroso, una presenza angosciante: quella delle Arpie.

Quanto Virgilio entri, con il suo poema, in questo canto è stato ampiamente e continuamente ricordato da schiere di lettori. Un fine intenditore di poesia quale fu Cesare Angelini scrisse, a proposito dell’entrata in scena delle Arpie: «L’Eneide comincia […] a invadere il canto». Con dovizia di osservazioni si sono rilevate le differenze introdotte dal poeta nel rifare i suoi modelli. È certo che le virgiliane Arpie non sono soltanto un particolare aggiunto alla macchina dell’orrore; assolvono a una funzione loro assegnata, poiché «pascendo de le foglie» tormentano le piante-anime, «fanno dolore, e al dolor fenestra» (v. 102). Dante, nell’offrircene il ritratto con efficace precisione descrittiva, incornicia l’elemento umano («colli e visi umani», v. 13) tra gli elementi bestiali: ali late, piè con artigli, gran ventre pennuto. Gli antichi interpreti cercarono di spiegare la funzione allegorica delle Arpie; ma, interpretato tenendo conto dell’insieme o di singole parti della rappresentazione, il loro significato allegorico resta piuttosto chiuso.

Si guardi al particolare sul quale per primo Dante porta l’attenzione: «Ali hanno late…». Le ali, nella tradizione biblica e cristiana, sono simbolo dell’amorosa protezione divina. Il credente si rifugia sotto di esse, e il salmista esprime questo atto di fiducia: «Sub umbra alarum tuarum protege me» (Ps 17, 8) [“proteggimi sotto l’ombra delle tue ali”]; «quia fuisti adiutor meus, / et in velamento alarum tuarum esultabo» (Ps 63, 8) [«…poiché tu sei il mio aiuto, esulto all’ombra delle tue ali»]. Nel testo dantesco le ali delle Arpie sono late, ampie, quasi ad assicurare una eccezionale capacità di copertura. Ma il semplice dato descrittivo, o quel che sembra tale e che pure ha il suo diretto precedente nell’Eneide [“magnus… clangoribus alas”] s’intreccia con la metafora biblica dell’ala protettrice della divinità a introdurre un segnale angoscioso. Le Arpie, nell’orizzonte di negazione costituito dalla selva, non solo non assicurano protezione ai dannati (e le loro grandi ali hanno, per questo aspetto, un sentore di parodia), ma li tormentano.

«… fanno lamenti» : discussa espressione in un verso molto discusso dagli interpreti! Le Arpie emettono lamenti? O, con la loro azione, provocano i lamenti delle piante-anime? C’è chi ha osservato che le Arpie non hanno alcun motivo per lamentarsi. E questo può apparir vero se si vedono le Arpie nella loro qualità di esecutrici della giustizia divina, come accade per tanti esseri della mitologia classica trapiantati, non senza ibridazioni, nel poema. Di fatto, di tutti questi personaggi nessuno emette lamenti. Caronte si cruccia e grida minacciando; Minòs è ringhioso, oltre che minacciante e vociferante; Cerbero, «caninamente latra» (Inf. VI 14 ss.), ma poiché è un cane il latrare gli compete… Si tratta di personaggi ai quali Dante attribuisce funzione di custodi, di vigilanti (sotto questo aspetto le Arpie potrebbero essere considerate le custodi della selva dei suicidi); essi appaiono, più o meno visibilmente, esecutori di funzioni loro assegnate. Non si attribuisce loro il “lamento” che, per giunta, sarebbe riferito  - in Dante -  sempre ad esseri umani (come ha notato un lettore del canto, Pier Paolo Fornaro). Poiché tratti umani, oltre quelli bestiali ben evidenti, connotano le Arpie, esse ben possono essere produttrici di lamenti, per quanto sia più piano intendere quei lamenti come strida di suono lamentoso (e si può cogliervi un’eco della dira vox virgiliana: Aen. III 228). Ma proprio l’ibridismo di tanti custodi infernali di ascendenza mitologica consente al poeta di conservare alle loro espressioni foniche una fondamentale ambiguità. Cerbero, che «caninamente latra» ed è il cane dell’Averno virgiliano, è anche uomo, ha barba occhi ventre mani e facce: elementi umani per quanto degradati. E Minòs, che conserva non solo aspetto di persona (salvo la lunga coda) ed ha ufficio di giudice, “ringhia” come un animale.

I lamenti delle Arpie annunciano, in sede narrativa, i guai da cui la selva è pervasa. La successione con cui son disposti lamenti e guai caratterizza anch’essa lo svolgimento progressivo dell’orrore della selva. Le Arpie sono ricordate come annunciatrici di «futuro danno» (v. 12) ai Troiani; qui esse annunciano quei “guai” che saranno per Dante, con la visione della selva, il dato sensoriale più immediato a misurare l’orrore della situazione in cui è immerso.

L’immagine complessiva del bosco trascina con sé quella della vegetazione arborea: alberi, unica occorrenza nel canto, è voce registrata al v. 15. Solo in seguito subentreranno più specifiche distinzioni: pruno, cespuglio. Ma l’immagine dell’albero, apparsa sul limitare del canto, resta come sottesa ad altre determinazioni vegetali: dal tronco del v. 33 al legno del v. 73; e occorre tener presente la consistenza arborea del pruno che dovrà reggere, dopo il giudizio universale, il corpo del suicida. La parola bosco evoca una vegetazione variegata: da quella bassa del sottobosco agli alberi d’alto fusto. Dante usa alberi, al v. 15, in senso generale; le specificazioni riguardano precise tipologie di vegetazione. Forse  - interpretiamo un parziale silenzio – egli volle esemplare in pruni e cespugli, avendoli indicati dapprima genericamente come alberi, gli alberi che non furono, le vite strozzate che non giunsero al loro naturale compimento. Ma è sempre azzardato valutare una possibile intenzione, e perciò basta averne accennato.

Se mai, l’albero  - e gli esempi non mancano nel poema – ci riporta a quella tradizione biblica e cristiana che ne dà, a seconda delle situazioni, immagini positive o negative: dall’albero piantato da Dio nell’Eden e i cui frutti sono negati ai progenitori, al fico sterile, all’albero (legno) della Croce dal quale pende Cristo, il frutto della redenzione. Il giusto è come un albero piantato lungo le acque, destinato a fruttificare, e a mantenere intatto e verdeggiante il proprio fogliame. Così nei Salmi: «Egli [il giusto] è simile ad un albero piantato all’orlo d’un corso d’acqua, / che fruttifica nella sua stagione, / e il suo fogliame non appassisce, / e qualunque cosa faccia ha buon risultato. / Non così, non così gli empi» (Ps I 3-4).

Nella selva dei suicidi gli alberi  - pruni e cespugli -  non sono piantati lungo acque fresche e vivificatrici ma nei pressi del Flegetonte, il fiume di sangue bollente non portatore di vita ma procuratore di tormento nella condizione d’eterna morte spirituale dell’inferno.

La positività dell’albero è presente nel Libro di Giobbe. Anche assoggettato al taglio o ad altre forme di mutilazione o distruzione, esso risorge: «Anche l’albero spera; / se tagliato, si rinnova / e mette numerosi germogli. / Se le sue radici invecchiano nel terreno, / ed il suo tronco muore nella polvere; / germina al sentore dell’acqua, / e rinnova la sua chioma come un albero da poco piantato» (Job, 14, 7-9). Anche il suicida  - albero umano morto alla grazia – germina; non ad odorem aquae ma, se si vuol dare ancora peso alla locazione della selva nei pressi del Flegetonte, all’odore maligno di un fiume infernale.

Dante è smarrito «et stupore et timore», come dice Benvenuto da Imola. Intorno a lui il bosco risuona di gemiti dolorosi. Cerca d’interpretare il pensiero del maestro nel tentativo di riportare a razionalità la propria confusione: «Cred’io ch’ei credette ch’i’ credesse…» (v. 25). La locuzione artificiosa parve uno scherzo a vari interpreti. Jacopo della Lana affermava che qui «Dante bistiza per indurre diletto al studente»; il Venturi giudicava il verso «uno scherzo poco degno d’imitazione». L’Andreoli trovava che «così fatti giuochi di parole distraggono lo spirito e raffreddano il sentimento». Anche, tra più recenti interpreti, il Petrocchi: «chi bisticcia entro di sé un po’ più del lecito, è il nostro poeta». L’espressione dantesca scherzo non è; né qui il bisticcio serve ad intonare sulla lunghezza d’onda della retorica di Pier della Vigna la riflessione del poeta. C’è un pensiero avviluppato, e Dante cerca di dare adeguata forma a quel viluppo; l’espressione traduce verbalmente pensieri che sono anch’essi, come i rami della vegetazione strana, nodosi e involti. L’unico modo per disvilupparli è intervenire con decisione. Non c’è nodo da sciogliere pazientemente. Occorre tagliarlo, troncarlo di netto. Virgilio lo sa, e trova il modo per rimuovere quel nodo d’impressioni ed agitazioni ponendo il suo discepolo bruscamente di fronte ad una realtà inimmaginabile. «Vederai», lo aveva messo in guardia, «cose che torrien fede al mio sermone» (vv. 20-21). E leggendo nella mente del discepolo suggerisce l’azione.

Dante coglie «un ramicel da un gran pruno» (v. 32) e il grido di protesta che risponde al suo gesto, «Perché mi schiante?», schianta lui. Ramicello e gran pruno sono disegnati a contrasto: un ramicello spezzato da un  gran pruno è poca cosa. Una considerazione ovvia! Ma è la realtà sottostante a quella pur strana vegetazione che è immane. Grande, detto del pruno, non è necessariamente un riferimento all’eminenza del personaggio offeso dal gesto del poeta, come tanti hanno pensato (Benvenuto da Imola, ad esempio e, sulla sua traccia, il Sapegno; e, ancora, Francesco D’Ovidio, Mattalia e Bosco Reggio). È là a far da contrasto al ramicello, a dare spessore alla drammaticità del gesto esitante ed innocente, peraltro suggerito dal savio duca. Si arriva allo strappo attraverso parole e gesti in cui esitazione ed intimorita delicatezza si alternano: dalla fraschetta al ramicel il vocabolario tende al diminutivo, e l’azione procede a ritmo rallentato: «Allor porsi la mano un poco avante, / e colsi un ramicel…» (vv. 31-32), e subito dopo tutto riprende un ritmo rapido e drammatico con quella doppia domanda gridata, «Perché mi scerpi?»e «Perché mi schiante?», che dà giusto peso al verbo usato da Virgilio, troncare: «Se tu tronchi / qualche fraschetta…» (vv. 28-29).

Nell’intelaiatura drammatica, e sul limitare dell’episodio centrale, Dante sperimenta una gamma cangiante di coloriti espressivi, e poi fissa l’episodio nella dolente sorpresa dello spirito, il quale si aspetterebbe, istintivamente si direbbe, «spirto di pietà» e «man più pia» da parte dell’ignoto feritore. È ad un convinto senso di umanità che il dannato fa appello, dal momento che  - secondo il dettato del Convivio (I 1 18) -  «ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico».

Ma qui dell’uomo c’è, per così dire, la memoria, e non più la parvenza: «Uomini fummo, e or siam fatti sterpi» (v. 37); e la distanza è sottolineata anche dalla posizione chiasmatica di uomini e sterpi. Con che tono è detto? Qualcuno trovò in queste parole «un’altra solenne affermazione della “umanità” del dannato» (Medin, 1925); le parole sembrano modulate su note di dolente riflessione.  Ma c’è, dentro, l’umiliante impotenza di chi è stato degradato e non accetta la propria degradazione; e sa che invano vi si opporrebbe. Certo, il mutamento di condizione, regressivo, non può non essere constatato in modo dolente. Pesa quel passaggio da uomo a sterpo, dalla dignità della ragione allo stadio inferiore della vegetalità, ma d’una straziata vegetalità che sente e pensa. L’innaturale divisione dell’anima dal corpo perpetrata dal suicida si capovolge nella convivenza coatta con un corpo estraneo divenuto prigione dell’anima. L’albero strano è l’atroce smentita, in eterno, della ricerca di un’affermazione di dignità fondata solo sui valori mondani. Da questo scaturisce, intuita dal lettore più che confessata dal poeta, la pietà che questi può tributare a Piero; una pietà, come ha scritto Ettore Paratore, «in cui all’humanitas si mescolano la repugnanza e un senso profondo di condanna dell’orribile trascorso».

Per giustificare il gesto di Dante, Virgilio corre ai ripari, tenta una scusa plausibile:

S’elli avesse potuto creder prima

[…]

ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa.

(vv. 45-49)

ma si tratta d’una giustificazione a metà dal momento che Virgilio non aveva espressamente avvertito Dante di ciò che questi avrebbe provocato spezzando (ma tronchi, al v. 28, è voce verbale forte) il ramicel. Il suo invito al discepolo era stato allusivo ed elusivo insieme:

[…] «Se tu tronchi

qualche fraschetta d’una d’este piante

li pensier c’hai si faran tutti monchi»

(vv. 28-30).

Per distogliere il discepolo dal gesto al quale questi è stato, per così dire, istigato, Virgilio avrebbe potuto invitarlo a ricordare l’episodio di Polidoro come era narrato nel suo poema («la mia rima», com’egli dice). Virgilio è tanto convinto che il discepolo riterrebbe, comunicatagli verbalmente, «la cosa incredibile» (v. 50), da affidarsi alla bruta evidenza del fatto. Ma se richiedeva quel gesto lo sviluppo della situazione psicologica, ancor più lo richiedeva lo sviluppo della situazione narrativa. Lo strappo del ramicel attiva tra il dannato e i pellegrini una comunicazione diretta altrimenti preclusa. Una comunicazione che si avvia irosa e straziata e subito ripiega sulla dolente constatazione riferita dal peccatore non solo più alla  propria condizione individuale, ma ad una condizione comune: «Uomini fummo…» (v. 37). E c’è, in quel passato remoto, un pungente senso di esilio dalla condizione di uomini che amareggia e tormenta.

Al discorso del dannato segue la similitudine dello

stizzo verde ch’arso sia

da l’un de’ capi, che da l’altro geme

e cigola per vento che va via.

(vv. 40-42).

Questa celebre similitudine ha, in sede narrativa, la funzione di propiziare la transizione tra il tono fortemente risentito di Piero e il conciliante discorso di Virgilio. Essa sottolinea la modalità della voce ch’esce dalla scheggia rotta: «parole e sangue» (vv. 43-44). L’evocazione di quella modalità e lo sgomento di quella visione inducono nel discorso, mimeticamente, la necessità della pausa, della cesura tra il binomio terribile, parole e sangue, e il gesto di Dante, lento nel lasciare «la cima / cadere» (e l’enjambement dà a quella caduta un effetto di immagine al rallentatore). Virgilio, suadente, invita il dannato a rivelare a Dante la propria identità: «Dilli chi tu fosti…» (v. 52) Rivendicando la propria identità, pur senza apertamente dichiararla, il dannato risponderà: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo…» (v. 58 ss.). Al passato usato da Virgilio, fosti, in cui si annidano le ragioni della fama che Dante, tornato «nel mondo sù» dovrebbe rinfrescare, risponde, col presente, Piero: «Io son…», opponendo l’affermazione della umana durata, di là dalle ragioni della effimera grandezza trascorsa che nulla più dovrebbe contare (e si ricorderà, per il gioco di passato/presente, almeno, il sintetico-esplicativo «Cesare fui e son Iustinïano» di Par. VI, 10). L’uomo Piero vuole che si faccia attenzione alla sua perdurante seppure stravolta identità ‘umana’ («Io son colui che…») anche se presto egli stesso deve ripiegare sul passato (come dicono le forme verbali tenni, volsi, tolsi, perdei), su quel passato che l’ha esaltato e perduto; che non conta nulla in faccia all’eternità e alla sua condizione presente, ma è ancora in grado di turbare l’animo e di generare un’illusione o procurare un risarcimento  - quale che sia -  a una perdita smisurata.

Prima di presentarsi, Piero si sofferma a riconoscere la qualità di un discorso che ha lenito la sua aspra reazione precedente: «Sì col dolce dir m’adeschi…» (v. 55). Dolce dir: discorso accattivante, quello di Virgilio, sia per l’abile giustificazione sia per la promessa che contiene ma, ancor più, per il decoro formale e per l’eleganza che lo connota, tanto che l’anima ne è presa, e persuasa a rispondere. Un «dolce dir» che è, ancora, la «parola ornata» di Inf. II, 67. Il m’adeschi sembra corrispondere più fortemente alla qualità estetica del dolce dir, ma da questa non si disgiunge la componente suasoria.

Dell’adescare e dell’invescare col dolce dir, con la parola ornata, Piero era stato maestro: la parola ornata fu lo strumento per adescare ed invescare il suo sovrano. Nel colloquio con i poeti la forza della parola ornata riprende il sopravvento, si rivela come uno degli elementi di quel fisso legame del dannato alla sua colpa. Il riconoscimento  - da conoscitore di gusto si direbbe – tributato da Piero a Virgilio («Sì col dolce dir m’adeschi / ch’i’ non posso tacere…»: vv. 55-56) avviene su un piano di parità. Il retore esperto fiuta nell’interlocutore un suo pari; perciò la risposta è pronta, il tono ammansito, la pronuncia addolcita. Perfino l’invito alla sosta, che ha tono di preghiera sotto la levigata urbanità della dizione («e voi non gravi, / perch’io un poco a ragionar m’inveschi») dissimula il desiderio del dannato tra le righe di un discorso ch’è, allo stesso tempo, semplice nel significato e ricercato nella forma.

L’avvio della risposta di Piero si caratterizza sì per quel che dice, ma anche per quel che annunzia. Vi corre già dentro l’ansia di comunicare qualcosa; e il «non posso tacere» non scaturisce solo da un ricambio di cortesia per la promessa d’un rinverdimento della propria fama nel mondo, ma dall’ansia di esprimere, affinché il mondo la conosca, quella verità che Piero si tormenta di non poter altrimenti proclamare. Urge, sotto la smaltata superficie delle formule, la memoria del dramma ch’è costato a Piero la salvezza.

Nella confessione, e nel discorso artificiato, mimetico della personalità del ministro di Federigo, costruito da Dante con  - forse -  l’appoggio di testi dello stesso Piero o del circolo dei suoi vicini, la progressione, abbastanza veloce ma studiata ed attenta all’equilibrato sviluppo delle varie parti, dapprima indugia sul dolce dir che trova il suo riscontro nel soavi del v. 60; poi, nel passaggio verso il centro del dramma, scopre il montare di una passione risvegliata dalla memoria. La passione dell’esercitare un’assoluta padronanza sul «cor di Federigo» in una specie di rapporto gelosamente esclusivo. Federigo appare ‘isolato’ per opera dell’abile e fedelissimo ministro. L’aver avuta tutta per sé, e piena ed incondizionata, la fiducia del sovrano ha provocato la negazione di ogni altro rapporto. E questo in nome di una fede sentita come divorante impegno e pagata con la vita: «ne perde’ li sonni e’ polsi» (v. 63); non indebitamente il Pietrobono osservava che «la parola fede, […], forma […] il motivo dominante della narrazione».

Il ristabilirsi, per Federico, del circuito della comunicazione è  - finalmente -  uscire dal cerchio di isolamento in cui lo ha confinato il suo ministro e negare la sincerità della fede di Piero proprio prestando orecchio all’accusa invidiosa. Attraverso il proprio discorso Piero nega la responsabilità del suo comportamento ammantandola di un colore eroico: il colore di una fedeltà che porta alla morte. L’autocelebrazione mira a rimuovere, o a negare, il fatto che proprio un certo modo di operare ha condotto alla morte. Il suicidio fisico non è se non il coronamento del suicidio politico scaturito proprio da quel rapporto privilegiato ed esclusivo che toglie dal cuore di Federico «quasi ogn’uom». L’aggettivo vano, che il De Sanctis usò nel tracciare il ritratto di Piero quale Dante lo mostrerebbe («un cancelliere in cappa e stola, tutto vano del suo uffizio») può essere utilmente recuperato proprio a connotare un aspetto inconfessato della figura del ministro: un esasperato narcisismo legato al suo sentimento di potenza. Sicché Piero, mentre procede a fornire di sé un ritratto di fedele servitore del suo sovrano, svela la radice occulta del proprio comportamento: una luciferina superbia. Ed ha qualcosa di terribile la fatica di Piero nel togliere «quasi ogn’uom» dalla confidenza del sovrano; ed ha qualcosa di inquietante la costruzione di un rapporto esclusivo. Piero esercita, nell’ambiente intorno al sovrano, un fortissimo potere d’interdizione. Un’opera di innaturale, violenta separazione, che ha il suo riflesso dapprima nel gesto suicida, poi nell’eterno orrore dell’anima che vedrà il corpo in cui fu rinchiusa pendere inerte dai rami del pruno in cui fu imprigionata.

Il discorso di Pier della Vigna non è semplicemente la rivendicazione della propria innocenza recitata ad uso dei due sconosciuti interlocutori, ma un vero e proprio “manifesto” da consegnare a chi, riferendone sulla terra, riscatterà nome ed onore del dannato ancora giacenti sotto il peso del colpo inferto loro dall’invidia. E si capisce allora come, proprio perché si tratta di un “manifesto”, di una comunicazione pubblica su un tema delicato e fondamentale, Piero usi per comporlo tutte le qualità e le astuzie del proprio stile. Questo spiega la differenza d’impostazione e di tono che avrà, rispetto a questa prima, la seconda parte del discorso. Ma qui, nella prima, la rovente denuncia verso l’invidia dei cortigiani è anche la confessione della solitudine di Piero; un contrapasso in vita per chi aveva voluto escludere quasi ogn’uom dalla confidenza del sovrano. Contro gli sono tutti: l’invidia, meretrice dagli occhi putti che abita la casa di Cesare,

infiammò contra me li animi tutti;

e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,

che’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

(vv. 67-69).

L’azione di Piero, volta a togliere dal secreto del suo imperatore quasi ogn’uom, è in parte mancata; il quasi del v. 61 non è casuale. Più efficace è l’azione dell’invidia, tanto che li animi tutti si sono infiammati contro Piero, venuto a mancare persino quel supporto dell’ipocrisia che aveva indotto tanti, prima di far blocco compatto contro il protonotaro imperiale, a mostrarsi ossequienti nei suoi confronti. Quasi ogn’uom e li animi tutti costituiscono ancora un’antitesi che delinea due posizioni di forza, la seconda delle quali destinata alla vittoria.

La progressione infiammò, infiammati, infiammar, se risponde alla necessità di delineare la fisionomia linguistica del personaggio, ancor più contribuisce a metterne in luce lo stato di aggrovigliata confusione dell’anima. Una parola, infiammar, si modula su uno stato d’ansia, sulla volontà di rimuovere -  attribuendola all’invidia, che certo non mancava -  la ragione profonda di quel capovolgimento dei lieti onori in tristi lutti. Piero non può, o non vuole, attribuire al proprio agire la causa della sua rovina. Le parole si accalcano l’una sull’altra: disdegnoso e disdegno, ingiusto e giusto, morir fuggir (con l’esposta evidenza della rima e con i due verbi qui usati in funzione sinonimica), me contra me al v. 72 che ripete il contra me del v. 67. E, ancora, nel prosieguo del discorso, signor e onor (in cui la rima è più che un fatto casuale e rafforza la convinzione che signor e onor costituiscono una sorta di inscindibile binomio); l’allitterazione in esto legno: trucchi retorici di un parlar fiorito che non rasenta affatto il caricaturale ed è, se mai, diventato normale per la forza dell’abitudine. Al culmine di questa progressione, affannata benché l’affanno venga dissimulato sotto una ineccepibile assisa formale, prorompe il giuramento fatto «per le nove radici d’esto legno» (v. 73). È un giuramento solenne oltre che appassionato, fatto su ciò che costituisce l’elemento fondante  - le radici, appunto -  della vita vegetale del dannato; e le radici sono quel che il sangue è per i vivi: il fondamento della vita («il sangue in sul quale io sedea», come dirà Jacopo del Cassero in Purg. V, 74).

Nove, le radici non nel senso di recenti ma, anch’esse, di strane, inconsuete: strane al pari delle forme vegetali, i pruni spinosi, gli irti cespugli che esse annodano al terreno del girone nel luogo in cui l’anima è stata casualmente balestrata. E si può riflettere sul fatto che l’anima, sradicata dal corpo per l’atto violento, si radica altrove, riaffermando il proprio ruolo di realtà fondante dell’uomo: nell’unità col corpo in vita, nella eterna disgiunzione da esso nella trista selva infernale.

Alla seconda parte del discorso di Piero, più piana perché più esplicativa, non più incalzata dalla passione della memoria e dalla necessità di trasmettere al mondo un messaggio forte, appartiene la spiegazione del destino delle anime dei suicidi dopo la morte e dopo il giudizio. Scissa dal corpo, l’anima del suicida

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;

ma là dove fortuna la balestra,

quivi germoglia come gran di spelta.

(vv. 97-99).

L’anima-seme cade, casualmente, in una o in altra parte della selva; s’impianta e si radica là dove cade, e germina velocemente. Ribelle all’ordinato disegno divino, è preda del caso.

Possono non essere estranee alla rappresentazione dantesca sia la parabola evangelica del seminatore sia qualche riflessione che in passi neotestamentari riguarda l’azione del seminare e, soprattutto, il destino del seme. Il grano sparso dal seminatore della parabola solo in parte va a finire in un terreno fertile: parte cade per via ed è beccato dagli uccelli, altro cade tra le pietre e inaridisce appena germogliato, altro cade tra gli spini e gli spini finiscono per soffocarlo. Solo una parte cade «in terram bonam», ed è l’unica parte a fruttificare.

Narrando la parabola e spiegandone partitamente le immagini, Cristo chiarisce che il seme caduto  in spinis «è colui che ascolta la parola, ma le preoccupazioni di questo mondo e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola, che rimane senza frutto» (Matth. 13, 22).

Pier della Vigna è stato, nel mondo, questo seme caduto tra gli spini. Non ignora, in una società cristiana, la parola  - il verbum Dei -  che dà frutto di salvezza. L’inganno delle ricchezze e la cura del mondo (questa soprattutto) nei suoi aspetti più desiderabili (prestigio, realizzazione della propria grandezza al fianco di chi la grandezza rappresenta in sommo grado, esercizio di un potere che di poco si discosta da quello di colui al quale la pienezza di potere nel mondo è riconosciuta dal titolo che lo riveste e lo sacralizza) fanno sì che Piero si allontani sempre più dalla parola che salva, si lasci invischiare  - per invischiare a sua volta – nella fallacia della parola che passa e che in nulla può somigliare a quella che dura.

Nella Prima lettera di Pietro coloro che attestano la loro fedeltà a Dio, l’apostolo li dice «rigenerati non da un seme corruttibile, ma da uno incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva e permanente in eterno» (I Petr., 1, 23). Piero si è affidato alla parola terrena, della vanità e della superbia; in questa ha riposto la propria gloria. Ma ogni cosa che si affida solo alla gloria terrena, alle opere del mondo, perisce. «Poiché», aggiunge l’apostolo nella lettera citata, «ogni carne è come l’erba e ogni sua gloria come il fiore dell’erba: appassì l’erba e il fiore cadde, ma la parola del Signore è per sempre» (Ibid., 23-24). Le immagini, di immediata evidenza, erano già nella tradizione biblica; per es. in Isaia, 40, 6-8: «Ogni carne è come l’erba, tutta la sua gloria come il fiore del campo. Secco il fieno; secco il fieno appassisce il fiore; ma la parola di Dio rimane in eterno».

Vale, tutto questo, nell’orizzonte di una fiducia nella parola che ha esiti diametralmente opposti a seconda che la parola scelta sia quella, umile e spoglia in cui s’incarna la verità, o quella «ornata» e «dolce» maneggiata con tutte le risorse della retorica, ma che non conduce a salvezza.

 

 

Il discorso di Pier della Vigna, nella seconda parte esplicativo e impersonale là dove tratta della sorte dell’anima balestrata nel settimo cerchio, si chiude su una nota meno impersonale in cui il dannato denuncia l’atto definitivo che i suicidi compiranno al momento del giudizio finale. L’io, dominante nella prima parte, si umilia nel noi di una condizione comune e di una comune umiliante situazione: la condanna a non poter più rientrare in possesso del proprio corpo, la condanna alla perpetua negazione dell’unità di anima e corpo che fissa per l’eternità la volontà dissociatrice del suicida. A questa condanna Piero, interprete ora anche dei compagni di pena, si arrende: «ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie» (v. 105). E sulla visione di quei corpi penzolanti dai pruni per l’eternità il discorso di Pier della Vigna si chiude.

Nella sospensione che segue («Noi eravamo ancora al tronco attesi, / credendo ch’altro ne volesse dire», vv. 109-110) s’innesta, con una tecnica della sorpresa che Dante conosce e sfrutta abilmente, l’episodio della caccia infernale. La scena si anima; il rumore di una corsa disperata, lo sfrascare rovinoso per la selva annunciano la visione degli scialacquatori che, passando tra i rami contorti e cercando un varco in quel bosco senza traccia di sentieri, provocano rotture nelle piante e ferite nel proprio corpo. Una «folata di movimento, di nero, di rumore»: così, immaginosamente, l’ha definita Umberto Bosco.

Il dannato che corre davanti all’altro (sono solo due i fuggitivi!) grida: «Or accorri, accorri, morte!», v. 118). Che cosa può significare l’invocazione alla morte da parte di un dannato se non il desiderio di annullamento dell’anima come riparo estremo al continuo tormento al quale e sottoposto? È, però, un’invocazione della cui inutilità il dannato è consapevole. Solo il desiderio di sottrarsi ad un male continuo, come accade nell’esperienza umana quando la morte è invocata come unica possibile sanatrice di mali insopportabili, ne giustifica il grido. E l’irrisione dell’altro aggiunge una nota di atrocità all’episodio. Due dannati in fuga, assoggettati allo stesso pericolo incombente, trovano il modo di beccarsi tra loro, come avviene tra malvagi privi di ogni sentimento di solidarietà. Le parole di Giacomo da Sant’Andrea sferzano il disgraziato compagno di pena; la parola giostre (v. 121), indicatrice di prove di abilità sostenute a mostra della propria valentia, deve suonare molto amara all’orecchio di Lano se gli ricorda, a stare ad una tradizione attestata da antichi interpreti, com’egli avesse cercato volontariamente la morte nella battaglia della Pieve del Toppo. Ma la qualità drammatica della scena non consente indugi al narratore. Lo stesso Giacomo, al quale mancano fiato ed energia per continuare a correre, s’attacca, facendo groppo con esso, ad un cespuglio. Dalla selva, sulle tracce dei due, irrompe una muta di cagne veloci e fameliche:

Di retro a loro era la selva piena

di nere cagne, bramose e correnti

come veltri ch’uscisser di catena.

(vv. 124-126).

Piena, la selva, a sottolineare l’impossibilità dello scampo per i peccatori inseguiti e a dilatare l’impressione d’orrore suscitata dalla torma feroce delle cagne bramose.

La scena orribile, dello sbranamento del peccatore e della dispersione delle sue membra sanguinolente, metaforizza, con chiarezza che non ha bisogno di chiosa, la ferocia con cui in vita gli scialacquatori dilapidarono i propri beni. Il contrapasso qui è di immediata evidenza. Lo sgomento di Dante è profondo se Virgilio deve ricorrere ad un gesto, non insolito in lui, di rassicurazione: «Presemi allor la mia scorta per mano» (v. 130). Un gesto compiuto in situazioni di particolari stati d’ansia del discepolo: nel passaggio della porta dell’inferno («E poi che la sua mano a la mia pose / con lieto volto, ond’io mi confortai, / mi mise dentro a le segrete cose», Inf. III, 19-221) e, ancora un esempio, prima di rivelargli la presenza dei giganti: «Poi caramente mi prese per mano» (Inf. XXXI, 28).

Alla mobilità dell’azione corrisponde la mobile attenzione dei pellegrini, soprattutto di Virgilio, pronto ad interrogare il cespuglio sanguinante e piangente al quale si era invano aggrappato Giacomo da Sant’Andrea. Virgilio chiede: «Chi fosti, che per tante punte / soffi con sangue doloroso sermo?» Il soffi dice l’affanno provocato da quello che il dannato, poco oltre, definirà «lo strazio disonesto» (v. 140) che è stato fatto del suo cespuglio; non indica una particolare difficoltà nell’emissione dei lamenti. Ha, se mai, un valore intensivo, quasi che il poeta volesse rilevare l’impeto dello sgorgo di parole e sangue ancor qui come nell’episodio di Pier della Vigna. Per tante punte sta, genericamente, nel senso di «per tante ferite» anche se il Barbi precisava: «Ma poiché si tratta d’un cespuglio, più naturale intendere le cime rotte dalle cagne». Sono ferite in senso ampio; ferito è il cespuglio in varie parti, non solo nelle cime dei suoi rami, sia dall’azione di Giacomo sia dall’infuriare delle cagne sbrananti il peccatore aggrappato alla pianta. È un corpo intero, straziato in tante sue parti, che si lamenta e sanguina.

Segue la richiesta, da parte del dannato, di un gesto pietoso; Dante lo compirà non per soddisfare a quella richiesta ma per «la carità del natio loco», come dirà all’inizio del canto XIV.

Il dannato, con un procedimento simile a quello di Pier della Vigna, parla di sé senza dire il proprio nome. Il Boccaccio notava che per Piero Dante ricorreva ad una «circunlocuzione»: Piero, infatti, non dice il proprio nome «credendo – sono parole del Boccaccio – per questa circunlocuzione essere assai ben conosciuto». Non è raro che nella Commedia Dante ricorra ad una «circunlocuzione»; questa è, di volta in volta, finalizzata allo svelamento o all’occultamento del personaggio. Nel caso di Piero essa è usata per svelare; nel caso dell’anonimo suicida fiorentino è usata simmetricamente per occultare. Piero era un personaggio di grandissimo rilievo, e Dante voleva proporne la vicenda ‘esemplare’; il suicida fiorentino non interessa tanto per la sua personalità quanto per la sua fine che ne rispecchia altre comuni e altrettanto anonime (il gran numero di suicidi che si sarebbe verificato a Firenze sull’ultimo scorcio del Duecento). Più spazio è dato, sempre in termini di circonlocuzione allusiva, a Firenze, anch’essa innominata ma visibilissima attraverso la trasparente somma degli indicatori proposti: «la città che nel Batista / mutò il primo padrone» e «il passo d’Arno» ad esempio.

Se Marte, l’antico protettore, era divinità pagana, anche il Battista è sentito come tale: alla spada si è sostituita la moneta, al patronato della violenza quello dell’oro. È l’atteggiamento dei fiorentini che è paganeggiante, e dunque non è solo questione di patrono cristiano che sarebbe considerato  - audacemente – sconfitto dal vecchio patrono pagano. Il fiorino non è forse «maladetto» nonostante rechi l’immagine del Battista? E Giovanni XXII, il papa che ha «fermo il disio / […] a colui che volle viver solo / e che per salti fu tratto al martiro» (Par. XVIII, 133-135), pensa forse in termini di patronato spirituale?

Il peccatore sposta l’attenzione dalla propria persona alla propria città; sfugge al riconoscimento. Ma giunge inaspettata la sua dichiarazione finale: «Io fei gibetto a me de le mie case» (v. 151). Dichiarazione secca e potente, che suggella lapidariamente il discorso del suicida e il canto, riproponendo nell’immagine della città «trista» (v. 146), quasi anch’essa una «mesta selva» (vv. 107-108) terrena, quell’orizzonte di negazione che l’inizio del canto, con l’insistente ricorso all’avverbio non, apertamente dichiarava.

 

 


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