Programma maggio 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Maggio 2022 Mercoledì 4 maggio, ore 18:30, Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse: dott. Massimo Graziuso,... Leggi tutto...
Convocazione Assemblea dei Soci 22 aprile 2022
Convocazione Assemblea dei Soci   L’Assemblea dei Soci è convocata nella Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse venerdì 22 aprile alle ore 16,00 in prima convocazione e 17,00 in... Leggi tutto...
Programma Aprile 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Aprile 2022 ●       Venerdì 1 aprile, ore 17:00, Officine di Placetelling - L’Università del Salento... Leggi tutto...
Immagine
Inaugurazione Anno accademico 2021-2022
Venerdì 22 ottobre alle ore 18:00, nell’ex Convento delle Clarisse in piazza Galluccio, avrà luogo l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Popolare “Aldo Vallone”:... Leggi tutto...
A rivederci. In presenza, Forse anche a distanza. Ma sempre attivi. E comunque uniti.
Il nostro Anno Accademico è finito, come sempre, con l'arrivo dell'estate, anche se il contemporaneo "sbiancamento" della nostra Regione e la possibilità, finalmente, di organizzare incontri in... Leggi tutto...
Home Saggi e Prose Storia e Cultura Moderna Maestri del Novecento. Scritti politici e letterari (1974-1998) 1. Gramsci e dintorni
Maestri del Novecento. Scritti politici e letterari (1974-1998) 1. Gramsci e dintorni PDF Stampa E-mail
Storia e Cultura Moderna
Domenica 12 Dicembre 2010 09:29

[Metto a disposizione della comunità studiosa gli scritti di Giuseppe Virgilio. Divido la pubblicazione in varie puntate, per meglio evidenziare gli scrittori, gli interessi e le predilezioni dell'autore, secondo un piano già da lui stesso approvato. (Gianluca Virgilio)]

 

"Purché tutto non finisca in Arcadia!"

P.P. Pasolini


Brescianesimo e lorianesimo negli scritti di Antonio Gramsci

Vogliamo fissare in alcune note la genesi di una categoria culturale diffusa più di quanto si crede nel mondo intellettuale italiano, e tuttavia inosservata o tenuta in non cale da molti o con incoscienza praticata dai più per arroganza di spirito e di mente: il brescianismo. Esso consiste in un processo di assoluta incomprensione della storia contemporanea e in una forma di maramaldismo intellettuale.  Di solito  si manifesta in ogni periodo storico di lotta e di profonda trasformazione sociale, ad opera di coloro che credono di comprendere lo sviluppo storico generale e i sentimenti e le volontà reali che lo sostengono, ed invece non comprendono niente di quanto accade sotto i loro occhi e mirano ad accreditare la propria tesi mediante l'ambigua velleità di rinnovare la vita nazionale senza tener conto delle nuove forze sociali.

Dobbiamo la denominazione di brescianismo ad Antonio Gramsci che, analizzando il saggio di Francesco De Sanctis su L'Ebreo da Verona del gesuita padre Antonio Bresciani (apparso nel febbraio 1855 nel Cimento, V, Torino, pp. 302-323[1]) dal cognome dell'autore ricava l'epigrafico nome che resterà emblematico della sua incessante critica contro la tradizione intellettuale italiana: appunto il brescianismo.

Padre Bresciani nella sua opera L'Ebreo da Verona raccoglie e coordina notizie sulla tradizione liberale italiana  tratte dai giornali dei gesuiti, nemici dei liberali. Digiuno, com'egli è, di storia e di filosofia,  non possiede lo strumento di ricerca che è il metodo storico. E perciò il De Sanctis può scrivere:

"(...) La Rivoluzione egli [cioè padre Bresciani] l'ha studiata per le piazze,  ne' trivii, nei caffé, nelle gazzette, nelle sale degli oziosi (...). Il padre Bresciano qualifica tutti quasi i liberali di settarii, e tutti quasi i settarii di assassini. Eppure non teme egli, no, il pugnale del settario, egli non vi crede; teme il suo riso; è l'Europa liberale che lo sgomenta (...) Adunque, mi chiederà il lettore, che cosa è l'Ebreo da Verona? (...) E' la rivoluzione rappresentata plebeamente, nuda di tutte le sue forze interiori di movimento e di resistenza. E' la rivoluzione nella sola sua corteccia quale apparisce all'uom della plebe (...)[2]. Il lettore si rende conto che ci troviamo di fronte ad una vera e propria diffamazione, da parte di padre Bresciani, dei patrioti liberali del nostro Risorgimento. Ebbene Gramsci, per teorizzare il brescianismo nel suo primo momento di natura squisitamente politica, sviluppa proprio l'analogia tra gli scritti antiliberali di padre Bresciani della seconda metà dell'Ottocento e gli scritti che intorno al 1920 nella stampa occidentale furono di moda per diffamare i rivolzionari russi. Incidentalmente osserviamo che, se Gramsci recupera De Sanctis al di là di Croce, è perché egli considera la critica e la cultura del primo più progressiste, dal momento che il filosofo napoletano, astraendosi dalla lotta politica, risulta elemento riduttivo di vita e di vitalità etica.

Tornando al concetto di brescianismo, invitiamo il lettore a leggere gli articoli di Antonio Gramsci La Compagnia di Gesù e Viltà e leggerezza[3], e soprattutto Cronache, storie e false storie[4] e Muli bendati[5]. E' significativo che questi scritti abbiano visto la luce nel 1920, l'anno in cui venne definita l'applicazione delle clausole del Trattato di pace dopo la prima guerra mondiale, quando l'Europa trovò un assetto politico diverso rispetto all'inizio del secolo, ed ogni nazione del nostro continente consolidò al suo interno nuove stratificazioni sociali. Questi scritti, difatti, sono tutti traversati da una sola idea, da una sola verità: nei momenti decisivi, allorché nella realtà effettiva prima che nel diritto avviene il trasferimento del potere sociale da una classe all'altra, appaiono categorie umane che hanno come tipi il padre Bresciani, il quale vede nei liberali dei briganti libertini. La casistica presenta l'imbarazzo della scelta. Un nuovo padre Bresciani, per esempio, può essere considerato Filippo Turati che scrive una prefazione denigratoria del potere sovietico al volume La Russia com'è di Gregorio Nofri e Fernando Pozzani, i quali hanno fatto parte a Mosca della delegazione socialista italiana al II congresso dell'Internazionale comunista, ed al ritorno hanno iniziato, in coerenza col riformismo italiano di tutti i tempi, una campagna violentemente diffamatoria della Russia ed antisovietica. Per continuare l'esemplificazione, sulla stessa linea ancora si muove l'anonimno scrittore de La Stampa (forse Arturo Cappa?) il quale nel 1920 raccoglie e coordina da fonti ufficiali bolsceviche singole notizie vere e ne confeziona una falsa, dalla quale deve risultare rovina, miseria ed arretramento della classe operaia in Russia e sfacelo di quell'apparato industriale, ma si fa di tutto per non parlare del "sabato comunista", cioè della istituzione in virtù della quale la classe operaia si impone spontaneamente una giornata senza lavoro, al fine di rafforzare lo Stato e il governo bolscevici.

Intanto dal 1928 al 1933, come si deduce dai Quaderni del carcere nella ricostruzione filologica di Valentino Gerratana[6], Gramsci ripensa con maggiore distacco nella solitudine della cella alla categoria del brescianismo e la estende alla sfera della letteratura mediante spunti, idee ed avviamenti che sin dalla prima edizione einaudiana delle sue opere sono stati sistemati in una sezione intitolata I nipotini di padre Bresciani[7].

Le sparse note gramsciane danno così vita ad un brescianismo che ci sembra giusto qualificare letterario. Esso rivela il carattere tendenzioso e propagandistico di una certa letteratura del nostro Novecento, e precisamente di quella conosciuta come buona stampa, fatta dalla schiuma del perbenismo e del benpensantismo nazionali. E una letteratura che non aiuta l'uomo a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri, perché non è stata preceduta da un intenso lavorio di critica e di penetrazione culturale e di permeazione di idee. Il suo carattere più spiccato è un'appariscente vena tra gesuitica e retorica.

Il paradigma più rappresentativo di essa è Ugo Oietti, il quale, subito dopo il Concordato dell'11 febbraio 1929 ed i Patti Lateranensi, e precisamente il 9 marzo di quell'anno, scrive una Lettera al rev. padre Enrico Rosa, riportata il 6 aprile su "Civiltà Cattolica" di cui il Rosa medesimo è il direttore, al fine di riconfermare la propria "appartenenza a famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l'educazione gesuitica, l'idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della "Civiltà Cattolica" ed il padre Rosa come vecchia e propria guida spirituale". Non manca insomma niente del tradizionale gesuitismo seicentesco del padre Segneri. La vita di Ugo Oietti diventa davvero un esempio predicabile.

Ed ecco Alfredo Panzini, i cui scritti fra nazionali a patriottici e specialmente La vita di Cavour, si possono qualificare come modello di brescianismo laico. Nell'opera citata viene esaltata la tradizione militare del Piemonte e della sua aristocrazia. E Gramsci annota rapidamente: "(...) in Piemonte esisteva una tradizione militare "popolare", dalla sua popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito, apparvero di tanto in tanto capacità militari di prim'ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele, ecc., ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell'aristocrazia, nell'ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla restaurazione e la prova se ne ebbe nel '48 quando non si sapeva dove mettere le mani per dare un capo all'esercito e dopo aver domandato invano un generale alla Francia si finì con l'assumere un minchione qualsiasi di polacco (...)"[8]. E' chiara l'allusione al generale Chzarnowsky, capo dell'esercito sardo, la cui sconfitta a Novara il 23 marzo 1849 è stata dalla storiografia ufficiale giustificata in modo ed a scopo accomodante col pretesto della incomprensione della lingua. E dopo Panzini, Giovanni Papini.

Le osservazioni rapide ed acute di Gramsci riguardano il libro papiniano su Sant'Agostino. Vi si riscontra un'untuosa tendenza al seicentismo che ha fatto parlare di una conversione di Papini non al cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo. Gramsci postilla così: "(...) (si può dire, del resto, che il gesuitismo, col suo culto del Papa e l'organizzazione di un impero assoluto spirituale è la fase più recente del cristianesimo cattolico) (...)"[9].

Lo scrittore con cui il brescianismo diventa veramente una forma pedantesca di ipocrisia intellettuale è Giuseppe Prezzolini. Questi nel settembre 1922, quando ancora il fascismo non è giunto al potere, ma non vi è dubbio che vi giungerà, perseverando nel compito di moralista volto a rinnovare la cultura italiana, scrive a Piero Gobetti una lettera Per una società degli Apoti, cioè di coloro che non la bevono, prospettando il compito dell'intellettuale "(...) di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dar frutti nei tempi futuri (...). Prezzolini, in altri termini, delega all'intellettuale il compito di farsi storico del presente[10]. Gobetti gli risponde da par suo: "(...) di fronte ad un fascismo che con la abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione, formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la Compagnia della Morte (...)[11]".

Oltre a quello di Gobetti, registriamo ancora un intervento di Augusto Monti, il maestro dell'antifascismo torinese, il quale propone anch'egli una società, in risposta a Prezzolini, e precisamente l'ordine dei nuovi Scolopi, che debba battersi, tra l'altro, perché il popolo come classe abbia una sua scuola, "(...) e non più la scuola che piglia il figlio del contadino, il figlio dell'operaio e te lo trasforma in borghese o in aspirante impiegato: ma la scuola che del piccolo contadino e del piccolo operaio faccia un migliore contadino, un migliore operaio, capace di ogni elevamento e di ogni fortuna, ma sempre contadino, sempre operaio, sempre se medesimo (...)"[12].

A distanza di cinquant'anni Prezzolini insiste nel suo sofistico gesuitismo partigiano e, mettendo a profitto il pretesto che egli ha espresso il suo disimpegno politico prima dell'avvento al potere del fascismo, pubblica il suo carteggio con Gobetti[13], al fine di rivendicare ed accreditare la coerenza del proprio atteggiamento. Noi però sappiamo che, alla lunga, il migliore è stato Gobetti che è morto nel 1926 senza mai smentire la sua fede in una vittoria dello spirito democratico, mentre Prezzolini, proprio rifiutando consapevolmente il sacrificio, ha aiutato col suo atteggiamento la realtà fascista ad affermarsi. Noi non vogliamo valutare il disimpegno politico di Prezzolini come una vigliaccheria morale e civile, e tuttavia riteniamo di doverlo considerare un agnosticismo che si delinea come la forma peggiore del brescianismo teorizzato da Gramsci. Con la proposta prezzoliniana di una Società degli Apoti giunge a perfezione un tipo di letterato che nel 1922 è già presente da tre anni nella nostra società letteraria, il letterato teorizzato dai rondisti, i quali, sin dal 1919 si sono fatti difensori della decenza contro il mugghiare del popolo e ritengono di essere gelosi protettori di un olimpo spirituale contro la storia che avventa i suoi attacchi e turba gli dei. Non dimentichi il lettore che nel settembre del 1920, quando a Torino vengono occupate le fabbriche e si attua il primo esperimento sovietico della storia italiana contemporanea, "La Ronda", indotta a varcare i confini della letteratura ed a concedere nelle sue pagine maggiore spazio alla politica, si schiera su posizioni giolittiane e dedica una minima attenzione agli avvenimenti di quel mese, mentre Gobetti vive tutta intera quell'esperienza tanto che il suo unitarismo lo spinge ad affermare: "(...) La democrazia demagogica è diventata il fascismo sommandosi con il dannunzianesimo. Nessuno storico non esaltato riuscirà a scorgere delle differenze sostanziali tra Mussolini e Giolitti (...)"[14].

Non si tratta di due scelte diverse della borghesia intellettuale italiana al declinare degli anni Venti o di opposte connotazioni di geografia spirituale: una Roma sonnolenta, burocratica ed archeologica, simboleggiata da Cardarelli e "La Ronda", ed una Torino aperta alle esperienze più mature della classe operaia italiana, quella di Gobetti e dei suoi lieviti morali; si tratta invece di due atteggiamenti verso la letteratura e verso la vita. Il letterato dei rondisti e degli Apoti, difatti, prefigura quel modello di comportamento che prende corpo durante il fascismo ad opera dell'intellettuale che non si compromette, che si salva per il bene proprio e quello degli altri, ed accetta il fatto compiuto. L'intellettuale, insomma, alla Prezzolini.

Gramsci con la categoria del brescianismo vuole esprimere propria la condanna di tale inerzia del dotto. Colui che si professa apolitico, difatti, è soltanto un retore, un disertore, un complice del tiranno o di chi aspira a diventarlo. I valori della cultura non può pretendere di salvarli il letterato che accetta le cose già fatte, ma li conserva e li arricchisce con consapevolezza storica e fermezza morale chi fa sacrificio di sé come Gramsmi e come Gobetti. Gramsci con la teoria del brescianismo non ha voluto bollare soltanto chi, in tempi in cui hanno operato i tribunali speciali, ha rinunciato all'impegno civile ed è rimasto chiuso nel suo orto letterario, ma anche il letterato che, col pretesto di mettersi al di sopra della mischia, riproduce l'antico difetto della nostra cultura letteraria, cioè la frattura tra l'arte e la vita. Dopo il brescianismo, Gramsci scoprirà e teorizzerà l'altra categoria culturale del lorianismo, e solo allora fisserà la dottrina del nazionale-popolare nella nostra letteratura. Ma già da ora sono chiari i connotati ideologici che consentono ai nostri lettori di individuare gli intellettuali italiani che meritano la qualifica di nipotini di padre Bresciani.

 

***

 

Alcune connotazioni spirituali hanno caratterizzato le qualità mentali di un gruppo di intellettuali italiani e la cultura nazionale. Esse hanno dato corpo ad una particolare categoria culturale che per definizione gramsciana va sotto il nome di lorianesimo. In essa confluiscono "(...) disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell'attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale e quindi irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale (...)[15]. Il nome a questa categoria intellettuale viene da Achille Lòria (1857-1943), professore padovano di economia, il quale (Marx era appena sceso nella tomba) pubblica sull'attività politica e letteraria del pensatore tedesco nella "Nuova Antologia" dell'aprile 1883 un articolo infarcito di note polemiche e di dati biografici inesatti. Con quest'articolo il lorianesimo, inteso come mollezza ed indulgenza etica nel campo dell'attività scientifico-culturale, è già cominciato. Il Lòria accusa Marx "(...) di un fallimento tecnico completo..., di un suicidio scientifico (...)", a proposito della teoria sul valore nello scritto L'opera postuma di Carlo Marx, apparso in "Nuova Antologia" il 1° febbraio 1895, specialmente alle pp. 478-479.

Marx è giunto alla scoperta del plusvalore innanzi tutto attraverso l'analisi della società primitiva senza classi, poi esaminando il lavoro schiavistico e quello del servo della gleba nel Medioevo, e quindi il lavoro della società moderna divenuta società produttrice di merci, quando già le leggi economiche sono determinate dal valore delle merci medesime. Tutto ciò è sfuggito ad Achille Lòria, così come (il che importa di più) egli non considera che nella società attuale divisa in classi, dove il flusso dei beni materiali è prodotto dal lavoro, la parte di questo prodotto che supera quella necessaria al sostentamento del lavoratore, va alla classe dominante la quale, proprio perché detiene i mezzi di produzione, domina il processo produttivo e contribuisce così allo sviluppo e al potenziamento del sistema capitalistico. Il lettore s'avvede che si tratta di una teoria dalle molteplici implicazioni storico-culturali. Il Lòria pretenderebbe di ridurre tutta l'analisi di Marx, centralizzatasi nella teoria del plusvalore, al principio banale e dozzinale del valore identico al prezzo della merce. E' giusto quindi che il lorianesimo sia sottoposto ad una critica dissolvente sin dalla sua prima formulazione, anche se i suoi princìpi teorici tarderanno ancora ad essere tradotti in dottrina, mentre altre categorie intellettuali subiscono una rielaborazione critica quando sono diventate centro di pensiero, perché hanno riportato la conoscenza primitiva a quella già posseduta.

Comincia F. Engels il 4 ottobre 1894: "(...) L'Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l'alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l'età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due, e particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Lòria (...)"[16]. Al lettore non sfugga il riferimento a Dulcamara che simboleggia il tipo umano del ciarlatano, e l'ironia che batte sull'aggettivo illustre, nome ed attributo naturalmente riferiti al Lòria. E si rammenti che Dulcamara è topico del lessico di Engels, se ritorna per esempio nella prefazione all'edizione tedesca del 1890 al Manifesto del Partito Comunista a proposito dei socialisti utopisti. Due anni dopo, nel settembre 1896, Benedetto Croce recensisce l'opera di Achille Lòria dal titolo Teoria economica della costituzione politica.  In essa, attraverso interminabili logomachìe finalizzate a fissare il concetto di homo oeconomicus, l'autore afferma che tutte le manifestazioni dello spirito sono solamente strumenti di cui l'homo oeconomicus medesimo si serve. Il Croce allora perentoriamente postilla: "(...) In tutta questa trama di teorie colpisce, in primo luogo, la curiosa incapacità del Lòria a porre e mantenere la distinzione tra il fatto e l'idea, o meglio, tra il fatto particolare ed il concetto del fatto; operazione elementare senza cui qualsiasi disputa scientifica è impossibile (...)"[17]. L'intervento di Croce è il secondo momento, dopo quello di Engels, della critica al lorianesimo inteso come categoria intellettuale incapace di legare al tempo ed alla storia ogni prodotto umano, in quanto non si ritiene che esso, proprio perché nasce dalla storia, si riversi e si collochi in essa e concorra a formarla e a svilupparla.

Il terzo momento critico, quello che mette allo scoperto le prerogative del lorianesimo inteso come una categoria intellettuale che nega all'uomo la capacità di essere sensibile alla storia, è teorizzato da Gramsci. A Gramsci siamo debitori se la critica del lorianesimo è diventata autentico elemento di dottrina che trova la sua applicazione nella critica politica ed in quella letteraria.

Come è noto, uno dei problemi più importanti che Gramsci ha dovuto risolvere, riguarda la necessità di storicizzare l'ideologia generale del proletariato per  dimostrare che esso vive nel complesso della vita statale come elemento nazionale. Gramsci ha dovuto cioè liberare il proletariato dalle incrostature di cui la stampa, la scuola e la tradizione borghesi lo hanno rivestito. Uno strumento di tale operazione culturale è stato appunto Achille Lòria, vero propagandista della borghesia, che ha contribuito a divulgare in forma capillare con affermazioni pseudo-scientifiche l'idea che il socialismo fosse una cosa morta, incapace di uscire "(...) dalla palude dell'arruffata e confusa concezione positivistica (che era una caricatura del materialismo storico) (...)"[18]. Nel fatto che il Lòria ignori il primo dovere degli scienziati, e cioè quello di vagliare i documenti e servirsi soltanto di quelli che hanno la prerogativa della genuinità e della autenticità, Gramsci ha individuato una delle articolazioni fondamentali del lorianesimo, che altrove egli chiama "volgarità e trivialità spirituale", consistente nella mancanza di serietà propria degli studiosi che si spacciano per non dilettanti. Che cos'altro è se non un esempio di "volgarità e trivialità spirituale" l'accostamento fatto da Achille Lòria tra Dante Alighieri e Carlo Marx, tra il Capitale e la Divina Commedia, accostamento giustificato dal fatto che l'Alighierti e Marx sono vissuti ambedue in esilio ed hanno scritto in esilio la loro opera maggiore? Per queste considerazioni lorianesimo non è tanto volgarità e trivialità dell'apparenza verbale, ma della vita interiore, è manifestazione di un pensiero volgare, anche se espresso in forma elegante. L'eleganza, difatti, è solo apparenza vistosa, ma non è arte. Rispetto a Lòria ed al lorianesimo, per esempio, Gramsci è scrittore che crede nel principio della necessità della cultura per l'istaurazione dell'autorità spirituale accettata spontaneamente come riconoscimento di una morale e consapevole gerarchia di valori. Il lorianesimo, invece, ammette che lo scienziato si serva per fini politici di valori che possono anche non essere politici, di autorità non controllabili che spesso nella realtà sono puri pregiudizi che incoraggiano il servilismo, residuo morale delle dominazioni dispotiche. Ecco due esempi di lorianesimo come forma di autorità non controllabile.

Il prof. Lòria nell'articolo Le influenze socili dell'aviazione (verità e fantasia)[19] espone la teoria dell'emancipazione operaia dalla coercizione del salario e del lavoro di fabbrica per mezzo degli aeroplani che, opportunamente unti di vischio, permettono ad ognuno di nutrirsi con i numerosi uccelli impaniati.

Il prof. Giuseppe Prato nell'articolo Ciò che non si vede del costo della vita[20] pretende di teorizzare che l'aumento della vendita del vino da parte dell'Alleanza Cooperativa Torinese diventa prova scientifica di alcoolismi intensivo. Meno demagogicamente la spiegazione di questo aumento potrebbe consistere nell'apertura di nuovi distributori dell'Alleanza e nell'accresciuto numero di clienti che bevono il vino a desinare.

Gli esempi addotti provano che lorianesimo significa anche fama fondata sulle parole e sull'opinione generica e non sulla cultura critica che può controllare i valori, col distorto risultato di poter influire sulla pubblica opinione per la generica autorità da cui si è circondati e non per la verità che si professa.

Il questo senso il lorianesimo è anche una categoria che trova larga applicazione nella critica letteraria. Se n'è accorto per primo il Croce, il quale così scrive: "(...) Debbo dire la mia impressione: il Lòria mi pare che non prenda troppo sul serio né le sorti della scienza né quelle della società. Egli è un vero temperamento di letterato, di quelli che amano scrivere libri, dare prova di ingegnosità e di eloquenza, raccogliere elogi e lasciarsi  applaudire dagli studenti (...)"[21]. Ed ancora, come esempio di retorica di pessimo gusto, Croce riporta il seguente passo di Lòria, tratto dall'articolo già da noi menzionato L'opera postuma di Carlo Marx: "(...) poiché se in questa [la seconda parte del Faust] trovo una serie di scene inanimate, splendidamente interrotte dall'incantevole episodio di Elena, nel secondo volume di Marx le squisite pagine sul giro del Capitale sono la gemma fulgida e solitaria, cinta da una corona di inutili raziocinii. Se ti piacesse, o lettore, una diversa rassomiglianza direi che il primo Capitale sta al terzo Bonaparte, e che il secondo, rannicchiantesi tra l'uno e l'altro, ha tutta la moritura fiacchezza e la cadaverica tinta del Re di Roma (...)"[22]. Il lettore s'avvede che dall'iniziale rapporto tra il secondo volume del Capitale di Marx e la seconda parte del Faust, si è passati ad un giudizio storico sui Napoleonidi. Trattasi di un esempio loriano di disorganicità.

Il secondo volume del Capitale, insieme col terzo, invece, contengono la dottrina da cui si svilupperà la nuova storia, e cioè la legge dell'accumulazione capitalistica da cui nasce la lotta di classe del proletariato. Essi "(...) offrono qualche cosa di infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità: l'incitamento al pensare, alla critica e all'autocritica, che è l'elemento più originale della dottrina che Marx ha lasciato"[23].

Che cosa resta, dunque, del pensiero di Achille Lòria? Soltanto l'inclinazione all'ambiguità ed al gioco allusivo e sfaccettato delle corrispondenze e dei contrasti (triste corona, cadaverica tinta), ma manca del tutto l'interpretazione e la visione storica. Siamo in presenza di una forma scadente di seicentismo che considera marginale l'attività scientifica ed invera una grossissima crisi dell'equilibrio ideale e dello spirito umano. Verrebbe fatto di dire che il lorianesimo riproduce un aspetto nuovo del seicentismo come goffaggine o maniera scomposta di superare contraddizioni conoscitive e ideali.

Possiamo quindi concludere che brescianismo e lorianesimo sono, secondo la dottrina gramsciana, due vizi della civiltà letteraria italiana, che una letteratura nazionale-popolare, in cui il documento ed il fatto letterari rappresentano i problemi concreti del popolo secondo la coscienza storico politica di esso, deve sapere individuare e combattere. Da essa non possono che rimanere esclusi i nipotini di padre Bresciani e quelli di Achille Lòria.

 

Gramsci e la "questione del pane" nella prima guerra mondiale

La vita morale di ciascun secolo può essere misurata dalla questione del pane. Ciò accade perché la fame, insieme alla guerra, alla carestia ed alla peste,  costituisce uno dei mali sociali che lungo i secoli hanno di tanto in tanto rinnovato le grandi sofferenze bibliche.

Di solito in tempo di guerra il legislatore tende a fissare il prezzo politico del pane per impedire l'ascesa vertiginosa del carovita. Ciò si è verificato anche durante la prima guerra mondiale, allorché, pur dominando nella pubblica opinione borghese il principio per cui il patriottismo in ogni circostanza deve essere il bene supremo, la questione del pane ha dato luogo ad un appassionato dibattito, dal quale è emerso un ventaglio di posizioni diverse maturate durante il conflitto. Di quel dibattito noi vogliamo esaminare il riflesso nel pensiero di Gramsci.

 

La questione del pane

All'inizio del secolo l'agricoltura, cioè allora la più importante industria d'Italia, è stata danneggiata dal dazio sui prodotti industriali del ferro, che ha portato concimi e macchine agricole a prezzi insostenibili per la maggior parte degli agricoltori. Il dazio sul grano ha fatto il resto, sicché Luigi Albertini ha potuto scrivere sul "Corriere della Sera" del 24 febbraio 1902 che con un dazio inferiore, e quindi il pane più a buon mercato, i terribili tumulti del 1898 sarebbero forse stati evitati[24]. Emerge da ciò una costante del legislatore italiano dall'Unità in poi, e cioè una imposizione fiscale sbilanciata che chiede troppo alle imposte indirette sui generi alimentari, e chiede invece poco o non abbastanza ad un'imposta diretta sui redditi.

La questione del pane incomincia ad investire acutamente gli interessi di tutta la popolazione tra il 1913 ed il 1914 allorché la Russia e la Romania, tra i maggiori paesi esportatori di grano, pongono il veto alla esportazione granaria degli Stati Uniti e del Canada cui da poco si è aggiunta l'Argentina. Questo fatto crea enormi difficoltà al commercio italiano che ha invece tutta un'organizzazione predisposta per la provvista del frumento dal Mar Nero.

Stando così le cose, a quale soluzione ricorrere? Perché Nordamericani ed Argentini vendano all'Italia di preferenza che agli Inglesi ed ai Francesi, bisogna decidersi a pagare il frumento a più alto prezzo, tenendo conto che i noli New-York-Genova e Buenos Aires-Genova sono più alti dei noli tra i medesimi porti e Londra ed i porti francesi. Inoltre il grano deve sopportare una quota maggiore di spesa per il viaggio di andata e ritorno, in quanto l'Italia non ha, come l'Inghilterra e la Francia, molte merci da esportare. C'è ancora un altro ostacolo da fronteggiare: la minaccia di requisizioni forzate, di calmieri od altri provvedimenti di carattere medievale che toglierebbero al commercio interesse alle importazioni.

 

Le linee maestre del dibattito: Da Einaudi a De Viti  De Marco

L'area liberale della cultura italiana propone la sospensione totale del dazio sul grano che già è stato ridotto da 7,50 a 3 lire fino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915 con i due decreti del 18 ottobre e del 1° dicembre 1914, mentre in Germania, in Austria ed in Inghilterra il dazio è stato completamente abolito. La proposta di abolizione totale appare tanto più necessaria in quanto il dazio sul grano si porta dietro indivisibilmente quello sulle farine. La cultura liberale inoltre si oppone alle requisizioni perché esse spaventerebbero i detentori di grano e li indurrebbero ad usare ogni astuzia, pur di non palesare l'esistenza del frumento posseduto, ed il mercato verrebbe così a rarefarsi. Dopo le requisizioni bisogna fare i conti anche con il monopolio, cioè con il provvedimento per mezzo del quale lo Stato si appropria di tutto il grano esistente nel Paese e mette gli abitanti a razione. Il provvedimento potrebbe essere efficace a patto che sia pronta l'enorme e complessa macchina occorrente per requisire e razionare il grano, il che non è, e perciò la cultura liberale prospetta la seguente soluzione: il governo importi grano per il fabbisogno dell'esercito e metta il sovrappiù in vendita qua e là nei luoghi dove i prezzi facciano degli sbalzi all'insù ed in disarmonia con i prezzi dei grandi mercati interni. In questo caso l'azione calmieratrice del governo non scoraggerebbe il commercio di importazione. Infine si propone l'uso del pane di guerra. Scrive Luigi Einaudi: "(...) con la restrizione dell'uso del pane bianco, con la utilizzazione delle farinette e di parte della crusca nella confezione di un unico tipo di pane, con la mescolanza di una moderata quantità di farina di riso, pare che si possa riuscire di utilizzare, meglio di quanto non accada oggi, il grano esistente in Italia ed a diminuire la necessità di ricorrere all'estero. Molti ritengono che il pane L (integrale) ed il pane R (pane integrale, con mescolanza di farina di riso) siano altrettanto o più nutrienti del pane bianco, che la popolazione cittadina si è ormai abituata a mangiare. Se davvero si riuscisse con la panificazione integrale a far durare le provviste esistenti in paese quindici giorni o un mese di più, nessuno sforzo dovrebbe essere risparmiato per contribuire in tal modo a risolvere il problema del pane".[25]

La proposta della cultura radical-repubblicana viene formulata dal nostro corregionale prof. Antonio De Viti De Marco. Il governo dovrebbe dare un sussidio ai consumatori più miserabili i quali non possono pagare i prezzi attuali del frumento. In una situazione che predispone al malcontento ed all'irritazione popolare, la proposta di dare qualche sussidio potrebbe avere il pregio di costituire una sanatoria, ma le difficoltà sono tutte di ordine pratico, perché tutti reclamerebbero il sussidio e sarebbe difficile nella moltitudine dei postulanti distinguere i veramente bisognosi.

Osserviamo che sia la posizione liberale che quella radical-repubblicana ci sembra che non siano prive del tutto di una ispirazione aristocratico-tomistica, al di là dello scopo pratico della loro indicazione. Non vogliamo dire che l'una e l'altra postulino in senso assoluto il pretium justum, ma certamente teorizzano la valutazione morale di un fatto economico. Difatti, in data 30 gennaio 1915, a proposito del provvedimento di immediata sospensione del dazio sul grano, Einaudi scrive: "(...) In un momento in cui la solidarietà tra le diverse classi sociali deve essere piena, in cui fa d'uopo escludere il sospetto che una qualsiasi classe tragga vantaggio dalle attuali circostanza straordinarie, è socialmente dannosa la permanenza di un dazio, che può apparire voluta a favore degli interessi dei proprietari di terreni. Costoro ottengono già, per causa della guerra, prezzi così elevati e superiori al normale, che deve essere tolto ogni dubbio che abbiano un ulteriore indebito lucro grazie ad un favore consentito dal legislatore (...)"[26].

Per parte sua De Viti De Marco afferma che la soluzione migliore della sua proposta sia da rimmettersi "(...) agli organi già esistenti - congregazioni di carità ed opere pie - incoraggiandoli ad esercitare un'azione più rapida e provvida del solito (...)"[27].

 

Il pensiero di Gramsci nel rapporto tra i contadini e lo Stato

Al lettore non sfugga che nelle precedenti argomentazioni  il movimento volitivo procede da un pensiero che si limita a ritenere gli eventi come svolgentisi a seconda della situazione economica di fatto, ed in realtà ricaccia nell'ombra la complessità sociale di essi: vedremo invece quanto sia più sprofondato nella storia il pensiero di Gramsci circa il medesimo problema.

Per intanto annotiamo che, come è sempre accaduto negli anni di crisi bellica, anche durante il primo conflitto mondiale la questione del pane è stata risolta  ricorrendo al provvedimento del pane unico ed a quello del razionamento in un regime politico che, con o senza spirito tomistico, è passato attraverso i consorsi provinciali e attraverso commercianti e mugnai che hanno lavorato per conto del governo, ma senza l'iniziativa e l'accortezza che si mettono in opera negli affari propri, e cioè senza i tecnicismi relativi ai grani duri ed ai grani teneri, alle crusche, ai corpi estranei, all'immagazzinamento, all'umidità, alle muffe ed alla macinazione del grano e delle farine.

E' significativo che Gramsci affronti la questione del pane nel 1916, anno che da tutti gli storici è considerato il più critico e maggiormente carico di difficoltà per tutte le classi sociali lungo il conflitto. Nel giugno, con la caduta del governo Salandra, e l'entrata in guerra dell'Italia contro la Germania il 27 agosto, quell'anno prelude difatti alla crisi di Caporetto.

Nel gennaio 1916 il giornale cattolico del Veneto, "Il Momento", svolgendo una campagna contro l'alto prezzo del pane, viene appoggiando la tesi degli agrari secondo la quale il prezzo di 36 lire al quintale fissato per il grano è addirittura rovinoso per l'Italia meridionale e va perciò aumentato. In questa tesi, come spesso è accaduto nella storia d'Italia dall'Unità in poi, fa capolino in maniera felpata la tesi del protezionismo, con lo scopo di rendere antagonistici gli interessi immediati delle campagne con quelli della città. Lasciamo a Gramsci la parola: "(...) In sostanza si vuole che,  per non rovinare nessuno si prenda come punto di partenza per fissare il prezzo massimo del grano la produttività delle terre improduttive. Il dazio produttivo sul grano ha spinto molti nelle campagne a seminare in terre mezzo sterili nella sicurezza di un tenue guadagno procurato dallo Stato, artificialmente, per la solita ragione dell'incremento dei prodotti nazionali. Lo stato di monopolio creato dalla guerra, che da 29 franchi ha portato il grano a più di 40 franchi, serve a creare l'illusione che anche seminando sulla sabbia ci sia da guadagnare sempre abbastanza. Intanto però gli agrari della Valle Padana, che non seminano sulla sabbia, ma nelle fertili ed irrigate terre della Lombardia e dell'Emilia specialmente, realizzano dei guadagni favolosi, che trovano solo riscontro nei superprofitti di guerra degli industriali (...)"[28].

Il pensiero di Gramsci è tutto riversato nella sociologia della storia, perché attraverso la questione del pane lo scrittore risale alla questione meridionale, cioè all'unico problema veramente di spessore nazionale nonostante il conflitto mondiale, e forse proprio in virtù di esso.  La questione del pane, infatti, investe diritto di proprietà e diritto di requisizione, diritti dell'individuo e diritti dello Stato. Essa può essere l'occasione per comprendere, una volta per tutte, quanto abbia influito ed influisca il moderno stato borghese sulla massa dei contadini ed in generale sulle classi agricole che, pur essendo il nerbo dello Stato, nel Sud specialmente non si sono evolute fino all'integrale senso della solidarietà economica di classe. Proprio partendo dalla questione del pane l'indagine di Gramsci si volge a verificare se il contadino sente lo Stato come economia; se, in altri termini, tra l'individuo e lo Stato sia stato spezzato il vincolo morale di natura feudale, per dar vita a quello di natura borghese; ed ancora, in parole più semplici, se si è passati dal tomismo allo storicismo sociologico. Scrive Gramsci: "(...) Il contadino non sente molta riluttanza al servizio militare, ma questa prestazione non è psicologicamente molto significativa (...). Il bene no; il contadino rifiuta di cederlo ad altri per imposizione autoritaria. O almeno rifiutava. Ed ecco come esso diventa l'unico indice sufficiente e necessario per valutare l'evoluzione che in un secolo ha subito la psicologia delle campagne, quale capacità politica, in senso capitalistico, i proprietari, in senso proletario, i poveri, abbiano acquistato. Quanto più il proprietario, astraendo dal suo immediato interesse, riconosce nello Stato l'organizzazione che tutela i suoi interessi permanenti, e solidarizza col governo economicamente per rafforzarlo, tanto più il "povero" si libera dell'abito idolatrico verso l'autorità centrale, e ne sente l'antagonismo: si sviluppa il senso della classe, ed il "povero" si abitua a vedere lo strumento della sua tutela nell'organizzazione giudiziaria dello Stato (...)"[29]. In questa pagina sono enunciati i presupposti che spiegano perché certe feudali abitudini mentali nell'Italia del Sud sono state e sono ancora dure a morire. Il contadino ha coniugato il concetto della legge alla persona del re e dei suoi messi, mentre i carabinieri per farsi capire hanno fatto le loro intimazioni in nome del re e non in nome della legge. Allo stesso modo i soldati di leva hanno dichiarato di essere stati chiamati dal re. Feudalesimo e servilismo? Può darsi, ma quel comportamento è stato certamente il prodotto della ignoranza degli istituti statali moderni da parte del contadino, e della sua assenza secolare dalla vita pubblica.

Alla luce dell'indagine gramsciana, comprendiamo che nella questione del pane il servizio di requisizione, se alle classi agricole appare addirittura come un vulnus inferto al nucleo originario della organizzazione sociale ed all'intima essenza della compagine umana, per la classe borghese quel servizio appunto diventa il simbolo di una sovrana funzione dello Stato. Ne viene di conseguenza che requisizione forzata, prezzo unico del pane, calmieri ed altri provvedimenti feudali, pur in periodo di guerra, sono stati sempre il prodotto di una necessità borghese, ma una necessità attraverso la quale lo Stato ha svolto una sua pedagogia verso le classi agricole intese come classi subalterne; e si sa che molto spesso il pedagogo è stato assai severo con i suoi sottoposti.

 

Gli scritti letterari del filosofo Antonio Banfi

Nell'aula prima dell'Università Statale di Milano al n. 10 di Corso Roma l'anno accademico 1939-40, il professor Antonio Banfi tiene le sue peripatetiche lezioni di Estetica che infondono a noi, imbarazzati studenti di primo anno nell'ora di una giovinezza fervida ma ancora scomposta, un calore di vita che ci riempie l'anima. Passa nelle sue parole un'umanità profonda ed insieme una provata saggezza, ma noi avvertiamo celata in quella voce una profondità che appartiene soltanto al Maestro. Intelligenza e coscienza si sono fuse in una grande forza morale e Banfi già in quegli anni sublima la sua passione civile in resistenza ideologica al fascismo.

Dall'Unità in poi in Italia vi è stata una vita democratica insufficiente. Perciò Banfi promuove un antifascismo rinnovatore  e rivoluzionario, di cui l'esponente più popolare sarà Parri, di contro a chi ha creduto che il fascismo finisce con il dominio della vecchia classe dirigente: si pensi a Croce. Attorno a Banfi si compone per naturale aggregazione una gruppo di giovani. Tra gli altri v'è Eugenio Curiel, fondatore del Fronte della gioventù e della rivista La nostra lotta, caduto per mano dei fascisti repubblichini. Col ritmo incalzante e drammatico della paratassi, così Banfi riattualizza il sacrificio del giovane studioso triestino in uno scritto del 1951: "(...)Una mattina di nebbia gelida e grigia, pesante come cenere. Alla periferia desolata, la casa deserta... i colpi convenuti all'uscio. Giorgio [nome di battaglia di Curiel] mi ha preceduto; si passa le mani tra i capelli come a cacciarne il sonno che vi s'è nascosto. C'è da ridiscutere un articolo sui partiti cattolici e non siamo d'accordo: ce ne sfugge la ragione precisa; bisogna cercarla. Altre cose premono; bisogna riconoscere e controllare i movimenti di altre città, bisogna fissare gli appuntamenti e determinare il lavoro dei giovani del Fronte. Ma occorre anche guardare al futuro: il programma di quello che sarà il Fronte della cultura e di quello che doveva essere la sua rivista... Ci lasciammo; mi raccomandò di evitare piazzale Baracca: "E' divenuto pericoloso". Egli ci passò l'indomani, per doveri di lavoro. Lo attendevano... lo abbatterono sul marciapiedi (...)".

Banfi è così approdato alla resistenza militante. Dopo la laurea in lettere nel 1908 e quella in filosofia nel 1910, ha frequentato a Berlino per due anni, fino a tutto il 1911, un seminario filosofico, e d'ora in poi la filosofia diventa una misura critica della sua originaria preparazione letteraria. Viene quindi l'insegnamento nei Licei di Lanciano, di Iesi, di Urbino e di Alessandria. Scopre Hegel, "(...) che per un anno ho letto con una vera frenesia e una gioia senza limite: un pensiero libero, aperto trionfante sul dramma dialettico dell'esistenza, ricco d'esperienza (...)"[31]. Letture su letture. Poi gli studi si volgono alla politica (l'incontro con Marx è decisivo), all'economia, alla pedagogia e persino alle scienze matematiche e naturali.

Ne esce irrobustita la sua esperienza letteraria, ma soprattutto si precisa la sua filosofia. La cultura europea col suo idealismo spregiatore della realtà materiale e sensibile ha edificato un mondo astratto di concetti infinitamente distanti dalla realtà ed ha prosciugato le sorgenti pratiche ed esistenziali del pensiero.

 

Pensiero ed azione

Banfi è stato forse l'unico filosofo italiano che nel primo Novecento ha richiamato l'attenzione degli intellettuali sui testi della problematica religiosa e della teologia della crisi, da Kierkegaard a Nietzsche. Nella storia del suo pensiero, difatti, sono presenti tre maestri, la cui opera ha chiamato in causa il problema dell'irrazionalismo: Piero Martinetti, per il quale è possibile determinare soltanto il male, cioè l'antiragione e l'assurdo; Giorgio Simmel, dalle cui lezioni a Berlino Banfi apprende che bisogna eliminare i compromessi etici e gli inganni ideologici al fine di penetrare nel fondo della crisi sociale e politica; Edmund Husserl, simbolo della ragione aperta e libera e perciò garanzia di un comune lavoro per gli uomini che ricercano il vero. Sono queste le radici intellettuali e spirituali di Banfi. Per capirne il valore ed il significato, si deve tener conto che nella cultura europea del Novecento interi cicli speculativi sono stati corrosi e spazzati via dalla storia stessa, certezze morali ed intellettuali si sono infrante e sono venute meno, ed è rimasta vanificata anche la pretesa dell'uomo di scorgere nella vita la presenza di fondamenti universali e necessari e di valori eterni ed indiscutibili. L'irrazionalismo molto spesso ha così preso il sopravvento su ogni tentativo di spiegare in termini di ragione il mondo moderno.

Banfi, che dal Liceo "Parini" è passato a professare nell'Università milanese il suo magistero di Estetica, fondendo in perfetta armonia filosofia e letteratura, proprio alla filosofia della crisi ha dedicato lunghi studi, cogliendone l'importanza teorica e storica. Non gli sfugge, difatti, che una cultura in crisi come quella del Novecento, è una cultura in movimento che fa emergere contraddizioni e tensioni profonde nella vita civile, nel costume, negli istituti e nei valori. D'altra parte l'armonica unità dell'uomo con la natura, ricomposta ad opera della filosofia hegeliana, è venuta meno. Di conseguenza, il destino dell'uomo appare sempre più alienato e sacrificato a potenze ignote ed impersonali. Nonostante ciò, la filosofia irrazionalistica della crisi non è per Banfi né una visione del mondo né una crisi speculativa o metafisica. E' invece una crisi storica che nasce dalle contraddizioni presenti nel mondo dei rapporti tra gli uomini reali e che soltanto la vita e la storia possono superare. A questa crisi Banfi oppone il suo realismo critico assumendo nelle vicende del suo tempo un atteggiamento consapevole. Egli difatti si oppone alla prima guerra mondiale, aderisce al socialismo e, nel 1925, firma il manifesto degli intellettuali antifascisti, professa antifascismo nelle sue lezioni e agli inizi degli anni Quaranta stringe legami, come abbiamo detto, con la rete clandestina del Partito comunista italiano. Momento essenziale del suo impegno di politica militante è la partecipazione alla Resistenza, allorché la sua casa di via Magenta a Milano diventa un centro attivo di collegamenti  e di rifornimenti, nonché rifugio per i perseguitati politici e per i combattenti partigiani.

Gli Scritti letterari di Antonio Banfi non sono una pubblicazione recente[32], ma tra gli intellettuali del Salento sono scarsamente conosciuti, forse perché la cultura salentina, prona ad un meridionalismo di stato che ha prodotto un nuovo trasformismo, non ha rinnovato in tempo le proprie esperienze, e ci pare perciò che non sia in pari con la storia. La presentazione di questi Scritti è un contributo allo svecchiamento della nostra cultura.

Presentato da una introduzione di Carlo Cordiè, che lascia un po' in ombra la milizia comunista di Banfi, la quale si è svolta con contributi di prim'ordine nel Senato della Repubblica a convalida di una attività civile che si è espressa con la fondazione a Milano, dopo la Liberazione, della Casa della Cultura, e con l'importante opera svolta presso il Centro di difesa e di prevenzione sociale, il libro raccoglie gli scritti letterari (recensioni, meditazioni, ricordi, appunti di viaggio ed impressioni in forma di lettere) che Banfi è venuto pubblicando in vari periodici.

Una prima impressione: gli scritti sono nati da un pensiero che si è sistemato nelle forme della filosofia. Lo stile però ha superato il lento svolgersi del pensiero dimostrativo, proprio di un'educazione filosofica, per rendere il senso della parola precisa e concreta. Ecco una compendiosa formula, indicativa ex adverso dell'umanesimo moderno contrario ai privilegi di classe e di popoli ed all'isolamento dei dotti: "(...) Certo l'umanesimo classico e la creazione d'una aristocrazia di liberi, che divennero poi dei privilegiati e fra i privilegiati dei dotti e fra i dotti dei pedanti. Così la tradizione classica si spense, si falsificò, mancandole la base stessa sociale, chè i pedanti, i dotti, i privilegiati proprio perché tali cessarono di essere liberi (...)"[33].

Nello scritto Il pensiero filosofico nell'opera dantesca, che riproduce una conferenza tenuta il 23 aprile 1921 al Liceo "Plana" di Alessandria, Banfi trova modo di illustrare come più profonda la crisi dell'età nostra, in quanto epoca infranta e traversata dalle forze elementari della vita sociale, che quella dell'età di Dante. Tuttavia la storia si compie con la necessità di un destino di contro alle intenzioni delle "anime belle". Si badi alla data dello scritto. Siamo alla vigilia del fascismo, e Dante è ricondotto a simbolo di ciò che è stato sacro. Nonostante che il fascismo, l'umanità acciecata, appaia prossimo a spezzare l'equilibrio tra idealità e realtà sociale, "(...) il mondo dello spirito, nelle sue forme più libere e più pure della bellezza, della fede e della verità, s'eleva nelle anime migliori come l'unico modo certo ed incorruttibile, il cielo immobile che tutto muove, in cui l'ideale prepara nuove forme alla vita e donde, come a Dante la tragedia e la commedia dell'umanità acciecata, appare quale l'atto d'una profonda indefettibile giustizia"[34].

Gli scritti letterari di Banfi vanno giudicati tenendo conto della concezione che egli ha avuto della filosofia. Allora vi si rinviene la nascita e lo sviluppo delle forme della realtà come momenti interni di una storia concepita e vissuta alla luce di una salda fedeltà alla ragione.

 

L'uomo copernicano

Per questo, tra gli altri, hanno grande rilievo gli scritti su Leonardo e su Galilei che rivelano la vitalità dell'esperienza rigenerata nell'età moderna dal sapere storico e dall'affermazione delle scienze fisico-naturali. Ecco in uno scritto di Leonardo la sublime epopea dell'acqua: "(...) Volentieri si leva per lo caldo sottile vapore. Il freddo la congela, stabilità la corrompe. Ripiglia ogni odore, calore e sapore, e da sé non à niente. Possi con moto e balzo elevar in alto. Quando essa cala sommerge con seco nelle sue ruine le cose (...)". L'acribìa del critico scopre che "la poeticità ha anticipato la concezione scientifica". E' una formula epigrafica per dire che la parola di Leonardo fa della materia un principio di vita, come concatenazione di cause e conservazione dell'essere di contro al sapere metafisico. Il vero segreto di Leonardo artista è la ricerca come indagine della realtà in mille aspetti ed in mille forme. Che cos'è un filo d'erba legato ad un piccolo stelo che termina in fiore e poi l'erba è disegnata in ciuffo ed i ciuffi sono disegnati gli uni vicini agli altri? E' l'emblema di un vitale sforzo comune. E cosa sono le figure di ermafrodito degli adolescenti leonardeschi in cui il problema del sesso vive nel significato creativo della natura? Sono l'esempio di un grande sforzo e della via aperta alla scoperta e al riconoscimento della realtà, per farci uscire dal mistero di male e di bene, di ragione e di sensibilità, e celebrare così la vita dell'universo e, nella vita dell'universo, l'uomo. Leonardo è stato scopritore delle tecniche che hanno permesso all'uomo di conseguire il primato nel regno della natura, e di stringere, prima del patto giuridico, il patto di lavoro e di azione comune e convergente nella comune utilità. Così Banfi ha presentato Leonardo agli operai in una conferenza tenuta alla Camera del lavoro di Milano e provincia il 9 ottobre 1952, e così egli è venuto educando il popolo al culto della scienza e dell'arte. E' questo lo spirito della scienza nuova.

E dopo Leonardo, Galilei. Avanza l'uomo che ha rotto il ferreo cerchio del mito e nella natura vive non a subire un destino metafisico, ma a crearsi una propria storia ed un proprio mondo, perché compito dell'uomo non è più l'attesa della morte e la sottomissione al trascendente, ma la celebrazione ardita della vita. E' nato l'uomo copernicano. Passa nella parola di Banfi quasi la celebrazione di un rito: "(...) Egli non è al centro del mondo metafisicamente ordinato secondo un sistema di ideali valori che gli prescrivono i fini, le azioni, il destino, che ne determinano la storia. Gettato su un piccolo astro rotante tra l'innumerevole moltitudine dei mondi, nell'infinità dell'universo, egli non ha un divino ordine da celebrare in un prescritto destino. Egli crea a se stesso la sua vita ed il suo destino nel corso operoso dei millenni; le sue armi sono la coscienza razionale ed il lavoro. E con l'una e con l'altra foggia a se stesso il suo mondo, che non gli è dato, ma è l'opera sua. La storia è l'epopea di questa grande conquista, il lavoro è l'arma di questa grande lotta. Lotta in cui ciascun uomo è impegnato con l'altro a fianco dell'altro, in un'indistruttibile solidarietà (...)"

Con Galilei, secondo Banfi, il sapere scientifico diventa cultura scientifica perché impara a conoscersi come storicità. Nasce così la civiltà moderna, perchè è nato il sapere che non ha autorità e tradizione al di fuori della sua evidenza e continuità, che ha la sua sede non nei libri e nelle aule accademiche, ma là dove ferve l'opera umana. Per questo, dice Banfi, Galilei abbandona lo studio padovano e ritorna a Firenze. Egli vuole recuperare la libertà dell'impegno accademico, ma si rifiuta di formare l'uomo cattedratico, il cui posto deve essere preso dall'uomo che accetti e collabori al nuovo sapere scientifico. L'uomo moderno non è destinato a concludere la vita in un'astratta formula di saggezza, ma ad aprirla ed a sorreggerla nella costruzione tecnica di un mondo corrispondente alle positive esigenze degli uomini.

Pochi scritti sono così problematici come quelli di Banfi. Il problema dell'uomo è sempre vivo alla mente del critico.

Partendo da un'analisi critico-razionale della filosofia della crisi, Banfi crede che l'umanità abbia perduto, agli urti del reale, la sua struttura etica. Da questa riflessione discende l'interesse del critico anche per l'esperienza intellettuale del Tasso e  del suo tempo. Quel che colpisce negli scritti banfiani sul Tasso è un'acuta osservazione: non la solitudine, che può essere una forma di superiore umanità, né l'amore, che è libertà dai richiami del mondo, vanno isolati nell'opera del Tasso, ma l'idillio georgico.  Al tempo del poeta, difatti, il regime signorile non soltanto ha introdotto nella campagna gli elementi della vita cittadina, ma ha assorbito nella vita cortigiana l'aspetto della rusticità campagnola, come momento interno di una sua libertà. Così si attua il processo di liberazione dell'uomo nella natura, e l'uomo in un momento di crisi, ricompone la sua umanità.

L'umanità di Banfi non è stata volontà di far la predica, bensì moralità di costruire il mondo attraverso contraddizioni, difficoltà ed asprezze. Il più suo tra i poeti è stato Carlo Porta, da lui studiato in una edizione del 1826 ereditata dal nonno e salvata attraverso traslochi e bombardamenti, e nell'edizione Carrara del 1865 passata per le mani del padre. Il Porta rimette il critico a contatto con un'umanità elementare. Il lettore rinvenga con noi nella citazione che segue quasi un approdo sicuro dal più vasto oceano della vita: "(...) La vecchia città di Milano, dal suo cielo ora grigio e pallido di nubi, ora effuso in soave morbida serenità; greve di nebbia d'inverno, affogata l'estate dal sole, quando i Navigli mandano, o mandavano, un sentore nostalgico di palude e l'umidore e l'ombre delle vie e dei cortili tra poggioli e baltresche di poveri fiori, consolava la sera dall'arsura; Milano dai cupi palazzi signorili chiusi come castelli, dalle larghe piazze piene di popolo ai Corpi Santi, distesa sino alle osteriette con la pergola ombrosa, lungo l'Olona o il Lambro, cui un secolo fra i colli di Brianza inviavano i loro vini leggeri e frizzanti. Una Milano d'aver tutta in mano od in cuore, con la sua bonaria scapigliatura d'amici intellettuali sparsi nei due o tre caffè del Centro (...)".

Sempre in coerenza col suo razionalismo critico, che abbiamo detto essere l'impianto del suo pensiero, Banfi ricorre alla storia per spiegare ed interpretare la funzione che ha il dialetto del Porta. Esso è l'espressione dell'amore del poeta verso il suo popolo senza speranza, se è vero che, dopo Verri, Parini e Beccaria, e dopo l'invasione napoleonica, a Milano i ceti si dissolvono ed una nuova classe dirigente stenta a formarsi e il dialetto del Porta, quindi, diventa l'espressione viva ed organica di un tragico isolamento e di una crisi senza universalità.

A proposito di linguaggio, anche le meditazioni di Banfi sulla lirica contemporanea filtrano attraverso la riflessione storica. La poesia metafisica di Arturo Onofri, per esempio, si è fissata in un linguaggio come forma d'arte di un presentito e profondo essere assoluto, e in quella forma è passata l'esperienza di tutta la realtà, nonché tutto il processo della cultura umana, e quindi anche l'ansia della ricerca e la conquista del finito nell'Eterno come momento della crisi dell'arte moderna. Si rinnova così l'esigenza metafisica dell'età presente.

Vi sono pagine degli Scritti letterari di Antonio Banfi in cui la parola, redenta da ogni estrinseca finalità, riflette il senso immanente della realtà e della vita, ed altre per cui scorre il fiume della memoria: "(...) Sono sceso a Firenze per un convegno politico (...). Ma fuori, improvvisa, è anche la tentazione; tentazione di una notte obliviosa, serena di luna per i Lungarni. Mi ha colto all'uscita, come un incantesimo. La città assorta splende come una gemma: dal ponte alla Carraia sino alle umili ombrose arcate di Ponte Vecchio, e là di fronte Costa San Giorgio, ora desolata di rovine, con la via che percorremmo verso la serenità aerea di Pian de' Giullari, che la luna incanta come ai giorni di Galileo e di Suor Maria Celeste (...). Isidoro Del Lungo leggeva infaticabilmente in Or San Michele i canti danteschi ed infaticabilmente la gente ascoltava le ultime notizie di Farinata e di Piccarda. Piccolo e severo, Rajna ti apriva cordiale lo schedario infinito della lunga erudizione e sorrideva compiaciuto della sua meraviglia.

Schiaparelli scoteva per te soavemente, con facile mano, dai diplomi e dai regesti la polvere del passato (...)"[37].

Ecco ancora un vivace bozzetto napoletano che studiosamente ingloba uno strale polemico anticrociano: "(...) Sei preso nell'onda calda di vita. La merce t'invita dai mille banchetti: affondare le mani nell'erbe fragranti di frescura, ritrarle pregne d'aroma d'arance dorate, saggiare il pane, sentir crocchiare nel sacco le noci. Ecco già ammicchi al bimbo che ti guarda sorridente  e sfrontato: con lui t'avvicini alla rissa che infuria alla porta d'una taverna; ti richiama il chiacchericcio sommesso dei vecchi nell'angolo ombroso d'un portico; ti rapisce la scia luminosa di una fanciulla, tra stracci, fiera regina di un morbido mondo di calda passione. Tutto si agita ed a ogni urto sprizza scintille di passionalità viva, che in te penetrano, t'accendono, e l'anima trascorre portata dal vento primaverile della divina parola che vola, s'accoglie, s'infrange, echeggia: logo vivente come quello che sulle piazze d'Atene si sublimava nell'umana sapienza di Socrate. Ma no, qui non v'è Socrate; se non forse quello di Aristofane.  Il filosofo cittadino, - ma i napoletani risentono dell'asprezza della terrra d'Abruzzo - dal suo palazzo secentesco specula il mondo dello Spirito e così gli si annebbia il mondo degli uomini (...)"[38].

Infine, una monade che rispecchia il cuore della questione meridionale attraverso una reminiscenza gozzaniana ed una dantesca, ci appare questo pensiero: "(...) Ecco il gruppo degli intellettuali autorevoli locali: ti chiedono notizie e con apprensione ti accorgi che parlano solo di morti o di sopravvissuti; dell'altra generazione, gli ultimi ammessi nel "nobile castello" della cultura umanistica tradizionale (...)".

Banfi non è né un filosofo né un critico, ma uno scrittore-letterato, filosofo e critico, se è vero che nella sua pagina passa la voce dell'umanità e della verità.

 

Togliatti letterato all'Assemblea Costituente

Non v'è dubbio che dalla formazione del nostro Stato nazionale fino alla caduta del fascismo la cultura italiana abbia corrisposto nello spirito e nelle opere alla difesa di posizioni di predominio sui beni materiali della società. Bisogna giungere ai lavori dell'Assemblea Costituente se si vuole rinvenirvi, per certi versi, un ritorno al razionalismo quale momento di una grande battaglia culturale e filosofica in senso progressivo.

Negli anni 1944, 1945, 1946 all'interno di una decadenza e di una crisi in quasi tutti i campi dell'attività culturale, dalla ricerca scientifica a quella filosofica e storica e della creazione artistica alla critica, la classe egemone ha ritenuto che lo strumento dominante nell'alta cultura fosse l'idealismo attualistico gentiliano, per il quale tutta la storia è stata ed è storia dello Stato. Perciò quel momento filosofico è stato considerato quale punto di arrivo di tutta la scienza, dopo che Gentile si è staccato da Croce, cioè dall'indirizzo idealistico che, nato in sul finire del XIX secolo, ha grandemente contribuito da una parte ad arginare i tentativi di riportare il pensiero al tomismo ed alla scolastica medievale, e dall'altra a liberare la cultura italiana dalle volgarità positivistiche accumulatesi nelle manifestazioni culturali del socialismo ottocentesco. Bisogna tuttavia aggiungere che anche il crocianesimo è stato minato dalle sue stesse contraddizioni. Il fondamento della dottrina del crocianesimo, difatti, è stato razionalistico in quanto ha inteso a far comprendere dagli uomini colti la realtà sociale. Nel primo decennio di questo secolo, tuttavia, alcune correnti politico-culturali hanno distillato dai veleni del decadentismo europeo una retorica della terra e del sangue, della tradizione e dell'aristocrazia dei valori che si è prolungata ben oltre la crisi degli anni Venti e Trenta, diffondendo la sfiducia nella ragione umana.  Anche il crocianesimo, postulando che la realtà esistere soltanto nella mente umana e non è qualcosa di esterno e di oggettivo, ha indotto a credere che la realtà non possa essere modificata dall'iniziativa dell'uomo e non possa diventare sorgente delle sue speranze.

Dopo il 1929 la cultura italiana subisce una repressione sistematica della libera critica e  della ricerca spregiudicata da parte dell'autorità religiosa e del potere politico convergenti in una continua attività censoria. Si pensi al caso di Ernesto Bonaiuti. Per impedire le sue lezioni si è minacciata di interdetto l'Università di Roma; e si pensi a Bruno Nardi, medievalista insigne, al quale le autorità ecclesiastiche, e primo fra tutti Agostino Gemelli, con avversità implacabile hanno fatto negare una cattedra a Roma. Nasce allora, anche ad opera della cultura clericale "(...) il mito di un idealismo come fronte compatto, politico e culturale, che avrebbe sintetizzato tutti gli aspetti deleteri del mondo moderno: dalla riforma protestante al kantismo, all'hegelismo, al marxismo, ad ogni forma di razionalismo critico pronto a mettere in discussione ogni principio d'autorità (...)"[40].

 

Una cultura nuova

Date queste premesse, appare chiara l'importanza della divulgazione in Italia, dopo la caduta del fascismo, di una nuova cultura progressiva ben allineata in un fronte con una sua solidità e coerenza interna intorno all'asse ideologico del marxismo, contro la cultura di forte tendenza idealizzante ed ideologica: idealizzante perché non rappresenta i contrasti della realtà, ed ideologica perché attribuisce alla classe dominante una forma di esemplare eccellenza umana.

Tutte le questioni che riguardano l'economia, la storia, la letteratura e le arti ed altri aspetti della vita intellettuale e sociale hanno trovato così una più puntuale e integrale comprensione e soluzione che ha consentito di capire meglio ed in tutti i suoi aspetti la crisi della cultura italiana. Ciò è potuto accadere grazie ad una spiccata capacità di analizzare le catastrofi che hanno investito il secolo da parte di una cultura che va sotto il nome di democrazia antifascista, cioè di una democrazia profondamente diversa da quella liberale. Essa, difesa durante la fondamentale esperienza della guerra di Spagna, si propone di tagliare le radici del fascismo, avverte la necessità di radicarsi nella vicenda concreta della nazione, di risalire alle cause prime dei suoi conflitti sociali, delle sue culture e dei blocchi dirigenti attraverso cui si è dispiegata la storia della realtà nazionale. La democrazia antifascista si sviluppa così in democrazia progressiva che, liberando il movimento operaio dal limite e dall'accusa di sovversivismo, lo libera anche dall'immagine di forza organicamente minoritaria e soltanto protestataria, lo fa uscire dall'isolamento e dall'incapacità di alleanze e, di contro al cosmopolitismo imperialistico e clericale, avvia un processo di modificazione del blocco sociale e di costruzione di un nuovo blocco storico nella sfera del nazionale e del popolare. Questo ruolo storico emerge per la prima volta nell'Assemblea Costituente.

C'è stata una catastrofe nazionale, in un momento in cui tutto il destino del mondo ha vacillato ed il Paese è stato condotto ad una sconfitta disastrosa, un fatto nuovo è accaduto. Le classi lavoratrici per la prima volta nella storia della nazione si sono fatte protagoniste della grande Storia, ponendosi alla testa della Resistenza per la salvezza di tutti, ed hanno così adempiuto ad una funzione che è stata nazionale perché è stata popolare.

I lavori all'Assemblea Costituente perciò devono essere assunti a testimonianza di una svolta della nostra storia, ed alcuni protagonisti di essi meritano di essere costituiti legittimi artefici di un rinnovamento profondo della nostra società.

Tra questi uomini noi annoveriamo Palmiro Togliatti.

 

Citazione letteraria e temi politici

Una rilettura dei suoi discorsi in quell'Assemblea ha suscitato in noi l'impressione che anche i fatti della letteratura mutano di prospettiva, proiettati nella valutazione dell'uomo politico; essi sembrano allora immersi in un significato storico diverso, autocoscienza dell'uomo che ricerca la via della conversazione civile. L'uso della parola e del linguaggio diventa la base della vita spirituale quando è l'espressione adeguata della concreta esperienza. Ed ecco che Togliatti in molti suoi interventi parlamentari ritrova, oltre i secoli, in Dante, le citazioni con i loro termini primari, rivelatori di significati che scendono alle radici della vita del pensiero, idonee ad esprimere il ritmo stesso dell'esperienza, dove parole e cose sono congiunte e fanno emergere dalla realtà la verità del presente.

E' il caso del dibattito sulle dichiarazioni programmatiche di De Gasperi che il 13 luglio 1946 ha costituito il suo secondo ministero. Togliatti rileva nella politica economica del governo un contrasto con l'azione del ministro del tesoro, on. Corbino, il quale è ricorso ad un anormale indebitamento dello Stato, rastrellando i risparmi a mezzo dei Buoni del tesoro ed immobilizzando così la circolazione del capitale: "(...) E' vero che l'on. Corbino ha terminato parlando di fede. Riconosco che a questo proposito l'onorevole Presidente del Consiglio è più competente di me. (Ilarità). Dicevamo però, che "fede è sostanza di cose create". Non vedo nulla di male che l'on. Corbino speri, come anche noi speriamo, come tutti sperano, che le cose vadano meglio; (...). Fede, però, è anche "argomento di cose non parventi" e temo che il nostro ministro del Tesoro tendesse più a questa seconda definizione che alla prima. "Argomento di cose non parventi", appunto perché non siamo convinti che se il programma del ministro del Tesoro, come si manifestò nel passato, dovesse continuare ad essere il programma del governo si riuscirebbe a realizzare il programma vero del nuovo governo, quello al quale noi diamo la nostra approvazione (...)"[41].

Una lettura superficiale del brano (a parte la citazione imperfetta di Paradiso XXIV, 65, presumibilmente fatta a memoria ("argomento de le non parventi"), desta dapprima una vibrazione ironica. Torniamo a leggere con maggiore indugio ed allora ci accorgiamo che la citazione di Dante è recuperata per dimostrare che ogni conoscenza umana che abbia un contenuto determinato è ridotta al mondo sensibile ed al campo dell'esperienza. Togliatti vuol dire, dunque, che con la fede si pretende invero di dimostrare qual siano le cose che non ci appaiono manifeste, e della fede si vuol fare la premessa per argomentare su cose che non vediamo e per consentire intellettualmente a verità che non appaiono. In realtà le cose ci sono date come oggetto dei nostri sensi, esistenti fuori di noi, la loro rappresentazione eccita la nostra sensibilità, cioè i nostri bisogni e le nostre necessità.

Ed ancora a Dante Togliatti ricorre, talora improvvisando, ma sempre con consonanza episodica, quando è animato dall'intento rigoroso di rappresentare realisticamente il presente.

Il comunista on. Cerreti, Alto Commissario uscente per l'alimentazione, denuncia uno scandaloso intervento del ministro dell'Interno Scelba per sospendere un'azione legale promossa in precedenza dall'Alto Commissario medesimo contro un gruppo di grossi speculatori annonari. Togliatti propone un emendamento all'ordine del giorno dell'on. Cifaldi, troppo semplice nella sua formulazione, tanto da poter essere di significato non univoco, nonostante che Scelba abbia ammesso l'atto illegale: "(...) Voglio vedere se la maggioranza arriva a dire il contrario di quel che ha detto il ministro dell'Interno, o ad asserire che il ministro dell'Interno non ha affermato quel che ha affermato. Voglio sapere se la maggioranza è tale, onorevole Calamandrei; e se possa arrivare a favore del "no" "ita" come diceva Dante (...)"[42].

Il riferimento è a Inferno XXI, 39-42:

Mettetel sotto, ch'i' torno per anche

a quella terra, che n'è ben fornita;

ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar, vi si fa ita.

Il diavolo ritorna a Lucca perché quella città è ben fornita di barattieri e per denaro si dice di sì (ita) invece di no, cioè si approva ciò che si dovrebbe respingere, e l'allusione è chiaramente rivolta ad atti pubblici, assemblee, deliberazioni, ecc., il che dimostra quanto sia stata pertinente la citazione dantesca di Togliatti. Se poi si tiene conto che Dante ha inteso per barattiere, per esempio, chi ha venduto un impiego burocratico e comunque tutti quelli che si sono fatti corrompere o per consentire l'illecito o per fingere di non avvedersene, e si mette in rapporto questo fatto col clima scandalistico di certi ambienti dell'Assemblea Costituente configuratosi nell'affare Cippico che coinvolse la finanza vaticana, possiamo registrare una corrispondenza, sul piano laico della baratteria, a ciò che è stata la simonia sul piano ecclesiastico. Togliatti, inoltre, richiamando l'iperbole dantesca  per un atto contrario alla legge di un ministro dell'esecutivo, ha anche fatto ricorso ad un'ironia sovraccarica di terribili sottintesi. Il caso di una maggioranza disposta a fare del no ita ed a nascondere sotto una negligente apparenza di serietà quello che chiaramente non è serio, merita davvero lo scherno volgare degno di una disprezzata minutaglia, simile a quella che popola la bolgia dantesca. E che l'ironia non sia anacronistica è dimostrato dal fatto che, secondo Togliatti, incomincia in quel momento storico a prendere corpo il vizio generale di assegnare l'ufficio all'uomo, e non l'uomo all'ufficio.

E sul filo della memoria di Togliatti torna talora un documento di antichi studi, la postilla di una carta o di un libro. Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti diventano così tempo e memoria, senso della creazione umana e dell'opera terrena:

"(...) E' quindi inutile, onorevole Sforza, che ella venga qui con l'aria del nobile decaduto in una Repubblica che ha soppresso i titoli nobiliari a dirci col tono dell'uomo altiero: "Da gentil schiatta torno", dovete fidarvi di me (...)".

E ancora:

"(...) Onorevole Saragat, ella sen viene come amore nel sonetto di Guido Cavalcanti, tenendo tre saette in una mano [tre saette erano allora il simbolo elettorale del partito socialdemocratico], con l'una volendo colpire il ceto possidente, con l'altra l'inconcludente politica democristiana, ma rivolgendo la punta della terza, forse la più acuminata ed avvelenata, contro il nostro partito (...)"[43].

In tal modo nella dimensione della storia e della letteratura si attua la civiltà e si definisce la politica, perché storia e letteratura, educatrici dell'umanità, diventano fonte di conoscenza concreta più alta di ogni sottigliezza teologica e filosofica, in quanto da una parte ci consentono di conquistare il senso dei nostri limiti, e dall'altro si svolgono e si sviluppano in filantropia, cioè in incontro e colloquio con gli uomini tutti.

Ed ancora il gusto del letterato, che si direbbe la forza occulta dell'armatura ideologica di Togliatti, torna nella citazione del Pulci:

"(...) In realtà, se osservo l'onorevole Giannini, riferendomi al suo passato, e cerco di adattare alla sua figura un "Credo" qualunque, mi pare che alle sue labbra l'unico che si addica sarebbe il "Credo" che un nostro grande poeta, il Pulci, metteva sulla bocca di quel mezzo gigante che si chiamava Margutte, il quale credeva "nella torta e nel tortello, l'uno la madre e l'altro il figliolo". La torta sarebbe in questo caso la maggioranza parlamentare e sarebbe in questo caso riservata all'onorevole De Gasperi, mentre il tortello sarebbe per lei, onorevole Giannini, e sarebbe un posticino di ministro o anche di sottosegretario (...)"[44].

La professione di fede comicamente paradossale di Margutte, in cui misteri e dogmi della teologia si deformano in fedi più concrete e ...commestibili, per chi, come Togliatti, dai banchi dell'opposizione ha sempre trovato modo di condannare il ricorso alla religione come strumento di governo e di fortuna e successo nelle lotte elettorali, non vuole essere professione di scetticismo o di indifferenza religiosa, ma recupero letterario di una comicità fresca e perenne alla quale l'oratore chiede un giudizio morale prima che estetico, con una coerenza che viene da molto lontano.

Torniamo perciò al dibattito generale sul primo progetto di Costituzione della Repubblica italiana, elaborato dalla Commissione dei Settantacinque e presentato all'Assemblea Costituente nel febbraio 1947. Togliatti espone la posizione fondamentale dei comunisti, in quel momento non esente da dubbi, circa i rapporti della Chiesa cattolica col regime democratico repubblicano, in conseguenza del tempo in cui i Patti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano sono stati conclusi:

"(...) Ora, in cerca di una documentazione sopra questo tema, mi è accaduto di sfogliare un testo autorevolissimo di Diritto delle decretatali, manuale d'insegnamento nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, ed a proposito di Concordati, delle condizioni e del momento in cui la Santa Sede li conclude, ho trovato una affermazione assai sintomatica che mi permetterete di citare: (...) Sedes Apostolica, ne evidenti ludibrio exponatur, conventiones in forma sollemni inire non solet, nisi gubernium civile necessitate petendi consensus comitiorum publicorum non sit adstrictum (...)

Una voce: Vuol tradurre?

Togliatti: Per i colleghi che non sono democristiani posso anche fare la traduzione, la quale suona così: (...) La Sede Apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei governi i quali non sono costretti a chiedere l'approvazione di un corpo rappresentativo (...)"[45].

Questo principio di diritto decretalistico non è un cavillo giuridico né Togliatti lo cita per attaccare direttamente la dogmatica cattolica, piuttosto esso dice la cautela dello storico e dell'uomo democratico. La Chiesa ed i suoi ordini religiosi pretendono di collocarsi nel tempo e nella storia secondo strutture giuridiche stipulate non con un corpo rappresentativo, un eufemismo per dire istituzioni che presidiano la vita democratica di una nazione. Togliatti avverte che il problema della pace religiosa del popolo italiano esiste e qualcosa bisogna pur fare per dare alla soluzione di esso un carattere solido e permanente.  Ed anche questa preoccupazione, che risponde ad un'esigenza profonda di riflessione storica, viene da lontano.

 

Sul filo della memoria

E' il 25 marzo 1947 ed a Montecitorio si svolge la settantacinquesima seduta dell'Assemblea Costituente per la dichiarazione di voto sull'articolo 7 della Costituzione col quale si inserisce nel testo costituzionale il richiamo ai Patti lateranensi. I comunisti votano a favore del richiamo, mentre in Commissione lo hanno respinto. Parla Togliatti:

"(...) E qui permettetemi un ricordo. L'onorevole Rossetti, riferendosi a questa prima parte dell'articolo che stiamo discutendo (lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani), cercando di darne una giustificazione dottrinale, diceva che questa si può trovare in un corso di diritto ecclesiastico, tenuto precisamente nel 1912, all'Università di Torino, dal senatore Francesco Ruffini.

Voi mi consentirete di ricordare all'onorevole Dossetti che sono stato allievo di quel corso, che ho dato l'esame di diritto ecclesiastico su quelle dispense che egli ha citato e lodato. E' forse per questo che non ho trovato difficoltà a dare quella formulazione. Ricordo però anche che quelle lezioni non erano frequentate soltanto da me. Veniva alle volte e si sedeva in quell'aula un uomo, un grande scomparso, amico e maestro mio, Antonio Gramsci, e uscendo dalle lezioni e passeggiando in quel cortile dell'Università di Torino, oggi semidistrutto dalla guerra, egli parlava con me anche del problema che ci occupa in questo momento, del problema dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Eravamo allora entrambi giovanissimi, entrambi all'inizio della nostra vita politica e ci sforzavamo di individuare quali erano e quali avrebbero potuto essere le sorti future di quel contrasto che allora era per gran parte in atto in Italia, ma che in parte era superato o si stava superando. Ricordo che Gramsci mi diceva che il giorno in cui si fosse formato in Italia un governo socialista, uno dei principali compiti di questo governo, di questo regime sarebbe stato di liquidare per sempre la questione romana garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica (...)"[46].

C'è nella pagina un respiro che riporta ciascuno, che ne abbia fatto esperienza, a dolci e caldi momenti di congenialità intellettuale durante la giovinezza universitaria, giacché alla radice del discorso di Togliatti v'è di certo una sostanza umana ed autobiografica sospesa a mezzo tra vita e letteratura, tra poesia e scienza psicologica. Vita e poesia suggeriscono lo slancio sincero del sentimento che nel passato rende più alta la dimensione del presente, riportandola al senso ineffabile del destino che si intreccia con la nostra personale esistenza; letteratura e scienza psicologica, per cui il presente misura ogni valore nella distanza del tempo, sono invece la forma in cui si adagia quell'atmosfera trasognata e quasi astratta del periodare di Togliatti. Ed in quell'atmosfera c'è Gramsci. Accade allora che nell'andamento della pagina viene riassorbita anche la meditazione storica che germoglierà negli scritti dottrinali dell'uno e dell'altro dirigente comunista. Eccone, in proposito, i concetti più rilevanti.

La religiosità degli Italiani è molto superficiale, e non si può negare che essa ha un carattere strettamente politico, di egemonia internazionale, tanto che dal Cinquecento in poi l'Italia ha contribuito alla storia mondiale soprattutto perché sede del Papato. Così il cattolicesimo italiano ha assunto un ruolo surrogatorio di spirito statale e di nazionalità. C'è un pensiero di Gramsci che torna costante, come si è visto, nella riflessione togliattiana sui rapporti tra Stato e Chiesa:

"(...) I cattolici devono distinguere tra "funzione dell'autorità" che è diritto inalienabile della società, che non può vivere senza un ordine, e "persona" che esercita tale funzione e che può essere un tiranno, un despota, un usurpatore, ecc. I cattolici si sottomettono alla "funzione" non alla "persona" (...)"[47].

Nel brano è riversato il concetto di quanto sia ardua la conquista e la pratica della libertà, ma c'è anche ardua materia su cui riflettere per tutti i cattolici.

A questo punto possiamo parlare di un Togliatti letterato, nel senso che, se è di pochi creare la letteratura, l'uso di essa deve essere universale. E proprio dalla letteratura Togliatti ha tratto alla luce idee, affetti comuni e quei sensi che giacciono occulti e talvolta confusi nel cuore delle moltitudini, volgendo il fine delle lettere civili al bene del popolo e provando che esse salgono al colmo, se non della perfezione, certamente dell'efficacia, quando si incorporano nella vita della nazione, come è accaduto subito dopo il crollo del fascismo, nella prima libera assemblea nazionale d'Italia.

 

Un oratore nuovo

L'arte del dire, oltre a seguire la geniale ispirazione, rispetta un complesso di regole, ma presuppone sempre la presenza nell'oratore di una certa abilità e destrezza. Essa non esime dal ragionamento e dalla riflessione, poiché non è mai libera dalle leggi di corrispondenza e di armonia. Vi sono delle epoche storiche in cui è necessario elaborare un'idea di linguaggio come attività capace di amalgamare un comune sentire. Tale è stata l'epoca dell'Assemblea Costituente, allorché il nuovo mondo di idee e di possibilità che si è venuto creando, ha imposto di costruire un linguaggio politico e teorico nuovo in modo da rendere trasparente alle masse quel mondo e quelle possibilità. L'eloquenza intesa come sorgente di irradiazione linguistica nel senso su richiamato, cioè come più atta a propagare fra il popolo il sapore della dottrina ed i fini della ragione, ci appare quella di Palmiro Togliatti lungo tutto il dibattito parlamentare all'Assemblea Costituente. Vi è un'eloquenza che trascina e vi è un'eloquenza secca e fondata sopra uno stretto ragionamento. Quella di Togliatti appartiene a questa seconda forma, con in più due prerogative particolari: 1) quando egli parla di sé non v'è campo all'affettazione e alla sofisticheria che corrompono l'eloquenza, perché domina la passione e l'interesse di sé medesimi, cioè la natura e il cuore; 2) la consapevolezza di un linguaggio che, pur saldamente radicato nella tradizione nazionale, sia idoneo ad aprirsi su scala internazionale e quindi a conseguire il nuovo traguardo dell'italiano come lingua europea moderna.

 

Originale autobiografismo

Il 31 gennaio 1947 il progetto della Costituzione elaborato dalla Commissione dei Settantacinque è presentato all'Assemblea Costituente con una relazione del Presidente della Commissione Meuccio Ruini. Nella seduta dell'11 marzo prende la parola Togliatti, che sottolinea la necessità di una Costituzione che sia non afascista, ma antifascista. Ecco un passaggio del suo discorso:

"(...) Colleghi, io sento rispetto, e anche più che rispetto, per gli uomini che siedono in quest'aula e che appartengono a gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l'appellativo di maestri, sia con la "m" maiuscola o minuscola, non importa. Sono sempre disposto ad ascoltare i loro consigli; però non posso non sentire e non affermare che anche questi uomini portano una parte della responsabilità per la catastrofe che si è abbattuta sul popolo italiano. Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipi con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie; voi non foste all'altezza di quel compito; e non è per un caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare (...)"[48].

Qui si direbbe che per il contenuto, ideologia e lingua si unifichino in parole che hanno nella loro semplicità l'enfasi e il colore di un movimento ideale, mentre dal punto di vista formale l'andamento anaforico della pagina (quando si incendiavano...; quando si distruggevano...; quando si assaltavano...;), la ripartizione del periodo in membri coordinati ed il ricorso ad un verbalismo tutto corposo, nel momento stesso in cui si analizzano i disvalori del passato, nella curiosità per il nuovo preparano un concreto capovolgimento di valori. Una congiuntura sociale particolare investe la vita associata, e la lingua assume un peso diretto ed immediato perché attraverso di essa si domina la realtà e la si rende migliore. E senti che i mezzi espressivi di Togliatti si legano a fatti di cultura assai profondi, a modi attraverso i quali matura una nuova mentalità razionalistica e soprattutto la consapevolezza che sono necessarie nuove istituzioni e nuove forme di organizzazione della vita intellettuale. Dice Togliatti:

"(...) Questa tribuna dalla quale noi parliamo è la più alta tribuna dalla quale si possa parlare al popolo italiano, ed in nome del popolo italiano anche agli altri popoli. Abbiamo riacquistata questa tribuna con una lotta che abbiamo combattuto tutti o quasi tutti assieme (...). A questi nomi di Repubblica e di Costituente (...) è legata una grande tradizione, è legata una grande attesa, una grande speranza del popolo italiano (...)"[49].

E' confermato l'andamento anaforico (è legata... è legata...) che funge di accentuazione enfatica nella rivendicazione del ruolo svolto durante la guerra di Liberazione per riacquistare la liberta e il diritto alla pratica politica parlamentare.

Nel dibattito sull'articolo 5 del progetto, che diventerà l'articolo 7 della Costituzione, all'avvertimento di De Gasperi per il quale si apre nel corpo dilaniato d'Italia una nuova ferita che io non so quando rimarginerà, Togliatti risponde con una riflessione che chiama in causa la pace religiosa al tempo della guerra di Liberazione. E qui l'anafora non nasce dall'intento di argomentare o di narrare, bensì essa diventa la forza della riflessione medesima.

"(...) Vedemmo infatti nelle nostre unità partigiane operai cattolici affratellati con militanti comunisti e socialisti; vedemmo nelle unità comandate dai migliori tra i nostri capi partigiani, i cappellani militari, sacerdoti, frati, accettare la stessa nostra disciplina di lotta (...)"[50].

Ma il Togliatti più vero e più umano è quello che parla di sé, e ciò non accade per un atto di orgoglio, secondo che suggerisce lo spirito del genere autobiografico per cui si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché originale e diversa dalle altre. E' vero invece che parlare di sé, quando la propria vita simile a quella di mille altre ha avuto uno sbocco che le altre mille non hanno potuto avere, significa additare un grande valore storico che la vita in atto determina e legittima. Si elabora così la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente, si sceglie la propria sfera di attività, ci si rende ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a noi, e si partecipa attivamente alla produzione della storia. Lasciamo la parola a Togliatti:

"(...) Onorevoli colleghi, ognuno di noi è arrivato nella vita politica per strade diverse, ed io alle volte non posso dimenticare di aver fatto anche degli studi di letteratura italiana (...). Nenni si richiama alla scuola del repubblicanesimo, alla scuola dei grandi dibattiti parlamentari francesi. Io ho un'altra scuola, quella del lavoro paziente clandestino (...). Ho la scuola di quei grandi uomini che hanno saputo fare della Russia, che era alla fine dell'altra guerra uno dei Paesi più arretrati e più devastati, la grande potenza socialista che ora domina nel mondo. Io ho quella scuola e mi vanto di averla (...)"[51].

E nella seduta pomeridiana del 30 settembre 1947 il deputato liberale Guido Cortese interpreta tendenziosamente la frase di Togliatti Noi veniamo da lontano, insinuando che possa sorgere un equivoco fra la storia e la geografia per il fatto che Togliatti è stato per parecchi anni assente dall'Italia. Ecco la replica di Togliatti:

"(...) Io facevo parte di un partito democratico, il quale mi aveva significato quale era il mio posto di lavoro e di lotta. Qualora il mio partito mi avesse detto che era il carcere sarei rimasto in carcere fino alla liberazione. Esso mi ha detto invece che questo posto era l'estero per organizzarvi la lotta dei comunisti italiani per la libertà ed il socialismo. Questo ho fatto e credo che questo sia il più alto onore della mia vita. Coloro che credono di rinfacciarmi questo come una colpa, sappiano che sono ritenuti da noi come non degni di appartenere a questa Assemblea; perché così facendo essi di fatto si rendono solidali con coloro che imposero alla parte migliore del popolo italiano di vivere nelle galere o in esilio, per continuare a combattere per le loro idee e per la libertà (...)"[52].

Accanto alla proprietà delle parole qui rinveniamo semplicità e naturalezza, e ciò accade perché nelle argomentazioni togliattiane la lingua conserva l'indole sua primitiva e per essa la proprietà lessicale in cui è compresa e si esprime la prerogativa della libertà; una lingua insomma aliena dal corrompere e dall'essere corrotta, perché in essa l'efficacia accresce la precisione e mette sotto i sensi quello che altri oratori pongono soltanto sotto l'intelletto come accade con le sottigliezza teologiche e scolastiche.

 

La lingua italiana si europeizza

Un profondo pensiero di Togliatti indica che l'unità del genere umano non è data dalla natura biologica dell'uomo, in quanto le differenze che contano nella storia sono costituite dal complesso dei rapporti sociali degli uomini che comunicano attraverso la lingua. Tutte le lingue colte europee hanno avuto un buon numero di voci comuni, specialmente in politica,  in filosofia e nelle scienze, tanto che si è venuta a formare una vera e propria lingua e un vocabolario universale. In Italia fino alla caduta del fascismo questi europeismi sono stati considerati come barbarismi. Il contributo di Togliatti volto ad immettere nel circuito europeo la nostra lingua dopo l'eclisse del fascismo è stato molto significativo.

Massa, organizzare, partito, democrazia, mondo capitalistico occidentale,  sinistra democratica, corrente, blocco di forze, sviluppo industriale ed agrario, mezzi di produzione, gruppi capitalistici, monopolitici, gruppo dirigente, critica distruttiva, classe progressiva, nazionalità miste, sanzione, coscienza dei popoli,  guerra partigiana, insurrezione nazionale, iniziativa capitalistica, proletariato, libertà di ricerca e di sfruttamento,  potenze conservatrici, blocco reazionario, indipendenza diplomatica e politica, fronte del lavoro, democrazia avanzata sono un esiguo specimen lessicale togliattiano che tutto il mondo ha adoperato ed adopera in una stessa precisa significazione e che il fascismo non ha usato o ha usato imperfettamente ed impropriamente. E ciò è accaduto perché gli Italiani, secondo la natura dei tempi e lo stato dello spirito umano, non hanno potuto avere quelle idee e le corrispondenti parole, alle quali il fascismo ha preferito i modi tirannici ed i raggiri della lingua della classe dominante.

 

Lingua neologica  e discorso epigrammatico

Per questo motivo durante i lavori dell'Assemblea Costuente la lingua di Togliatti è potuta apparire alla maggior parte degli Italiani nuova ed originale, e tale essa è stata davvero in quanto fondamento di una cultura non destituita di un sentimento morale di vita né strumento di nequizia o di oppressione o di umbratile vacuità.  Nell'orizzonte semantico del lessico testé registrato, Togliatti ha invece saputo iscrivere, come preludio alla chiarezza ed alla precisione del suo pensiero, idee perfette ed intere, diremmo idee che si presentano con la perspicuità del carattere epigrammatico, se ci è consentito fare riferimento ad un genere letterario che, passando nel suo sviluppo storico attraverso il rifiuto dello scrittore di celebrare la propria individualità, non si addobba di retorica, non assume aspetti ampi e solenni, ma utilizza la forma più breve, più semplice e più incisiva. Nella lingua di Togliatti anche questo è significativo, se si pensa che negli anni immediatamente precedenti la retorica con le sue declamazioni, simulando magnanimità ed ardore, ha coperto le debolezze interiori ed è stata funzionale alla vita della comunità statale fascista. Proponiamo di seguito alcuni epigrammi che traggono la loro forza proprio dalla brevità e dall'acutezzea del pensiero che vi è alla base:

"(...) I partiti sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma (...)"[53].

"(...) L'ideologia non è dello Stato, l'ideologia è dei singoli o, se ella [il liberale on. Lucifero] vuole, è dei partiti, e anche non sempre, perché posso concepire un partito nel quale convergono differenti correnti ideologiche per l'attuazione di un unico programma (...)"[54].

E quando Togliatti vuole individuare quali siano i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo italiano, li indica così:

"(...) il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il secondo è l'unità politica e morale della Nazione; il terzo è il progresso sociale, legato all'avvento di una nuova classe dirigente (...)"[55].

Qui con chiara lucidità sono elencati i principi politici fondamentali che si integrano e completano a vicenda. Ed ancora:

"(...) Il relatore dell'ordinamento regionale nella seconda Sottocommissione ha detto che anche la regione sarebbe un ente naturale. In realtà, se mai, è qualche cosa di più o di meno: è un ente storicamente determinato. Però, quando rifletto alla storia del nostro Paese, difficilmente trova la regione come tale; trovo invece un'altra cosa, trovo invece la città"[56].

Siamo in presenza di un'argomentazine discorsiva breve, acuta e veloce, che ha alla fine aliquid luminis, e cioè una lezione della storia, vale a dire il riconoscimento che agiscono nella storia presente le vicende del nostro passato, come è il caso dell'influsso unificatore della città senza il quale non sarebbe esistita la nazione italiana.

 

Ironia e sarcasmo

Nella lingua di Togliatti è presente l'abilità puramente retorica che coglie il sottile legame psicologico tra l'oggetto e il soggetto, e fuggevolmente vi si insinua il confronto ironico; ed allora può accadere che man mano che i motivi polemici tendono ad esaurirsi, emerge al contrario la figura morale dell'oratore nella sua dignità e responsabilità di parlamentare:

"(...) Però mi è parso, onorevole Orlando, che quando ella, partito da una definizione del regime parlamentare (...), mi è parso che quando ella a un certo punto si è fermato e ha detto: "qui manca qualche cosa" (e non so che cosa ella cercasse: colui che mantiene l'equilibrio, colui che ha l'iniziativa, colui che sancisce), onorevole Orlando, io ho avuto l'impressione, e perdoni se sono maligno, che ella cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella Costituzione: che ella cercasse il re (...)"[57].

Più che ironia, qui c'è caricatura, o meglio malizia canzonatoria. Si direbbe che Togliatti si è giovato di una situazione rovesciata per insinuare la sua nota umoristica, la quale consiste proprio nell'etica a rovescio della decadenza e dei periodi di servitù, quando tutti finiscono coll'essere sudditi del re. In verità, a un capo politico come Togliatti, impegnato nell'azione storico-politica e nella costruzione di un nuovo mondo culturale, più che l'ironia, che sarebbe soltanto elemento letterario ed intellettualistico, si addice il sarcasmo, espressione della forza di chi, più che sentire, conosce e comprende e in qualche caso disciplina le passioni, cioè il contenuto umano di sentimenti e credenze, e vuole dare una nuova forma al nucleo vivo delle sue aspirazioni. Quando poi è chiamato in causa un periodo di transizione storica, il sarcasmo mette in rilievo le contraddizioni di quel periodo, e nasce così un linguaggio, un gusto stilistico nuovo come mezzo di lotta intellettuale.

"(...) L'onorevole Lucifero ci ha proposto l'invocazione a Dio. Questa è veramente una delle proposte che hanno suscitato in me i maggiori dubbi, perché effettivamente Dio votato a maggioranza in un'Assemblea politica ed approvato con venti o con cinquanta o anche con trecento voti di maggioranza, non lo capisco. (Si ride). Quando poi ho sentito il nostro collega parlare di Dio nel tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine dei loro discorsi, quando si tratta di avere gli applausi degli elettori riuniti, mi sono ricordato del primo e del secondo comandamento. (Si ride). (...)"[58].

Qui il pensiero di Togliatti imprime alla parola una forza che sorpassa l'ironia e, pur serbando l'apparenza ironica, rompe quasi nell'invettiva sarcastica.

In altri casi, inoltre, il sarcasmo diventa elemento essenziale di passionalità, assumendo la potenza stilistica individuale, intesa come sincerità e profonda convinzione delle proprie idee:

"(...) Nel 1929, quando i Patti lateranensi furono firmati (...) quell'accordo fece veramente passare nel nostro Paese - permettetemi l'espressione romantica - l'ombra funesta del triste amplesso di Cristo e Cesare. Lo sentimmo chiaramente noi, che dirigevamo la lotta antifascista della parte avanzata del popolo italiano. Sentimmo che, nonostante che oggi si interpreti l'espressione "uomo della Provvidenza" dicendo che si trattava di riferirsi a quella virtù che la Provvidenza ha di mandare uomini buoni e uomini cattivi, allora "uomo della Provvidenza" fu inteso come "uomo provvidenziale"[59].

Altre volte il sarcasmo nasce come gioco sottile e fischiante di significati aggettivali, come a proposito della conferenza di Parigi per il Piano Marshall dove il Conte Sforza è andato senza consultare né l'Assemblea né la Commissione degli Esteri:

"(...) Il nostro Ministro degli Esteri ci è andato con quello spirito che l'onorevole Nitti chiamava afrodisiaco; ma che io dal momento che si tratta di un Ministro di un gabinetto democristiano vorrei chiamare soltanto euforico (...)"[60].

Si noti la variazione dall'aggettivo afrodisiaco, che stimola ai piaceri sensuali, all'aggettivo euforico, che esprime semplicemente la contentezza che viene dal sentirsi bene. Ed efficacemente sarcastica e un'abile chiusa appare, a proposito di una norma che vorrebbe sancire l'impossibilità di rovesciare il Governo al termine del lavoro costituzionale, la battuta:

"(...) L'onorevole Scelba ci parlava oggi di spirito francescano. Lo spirito francescano che ispira questa norma è tale non secondo San Francesco, ma secondo Francesco Giuseppe, cari colleghi (...)"[61].

Si potrebbe continuare ancora nell'esemplificazione; ma non c'è dubbio, in conclusione, che Togliatti si è trovato di fronte al problema fondamentale di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha avuto tradizione, come è accaduto invece per la vecchia classe degli intellettuali, dotata di una cultura e di una lingua con cui ha tradotto un pensiero formale che garantiva la sicurezza nell'agire e l'assenza di dissidi interiori. In Togliatti è prevalsa la logica che respinge ogni forma di metafisica per sostituirvi il progressivo dominio dell'uomo. Ciò è particolarmente manifesto nella lingua togliattiana che ha ridotto sempre più l'astrattezza oratoria a beneficio della gerarchia morfologica della realtà dove ha finito col prevalere il giudizio storico ed estetico sull'uomo e sulle sue azioni, dove sull'istinto è prevalso il logos che non si arrende all'impressione esterna e concede invece un'influenza dominante sull'animo umano. Nella lingua neologica di Togliatti è scomparso il sofisma barocco dei vecchi manuali di filosofia e sono scomparse le classiche distinzioni della scolastica aristotelica con le sue opinioni aprioristiche. Il loro posto è stato occupato con immediatezza moderna da un nuovo realismo logico e grammaticale, il quale ha dato nuovo fondamento scientifico all'etica, passando attraverso un originale autobiografismo ed una fase linguistica europeizzante, ed articolandosi attraverso l'ironia ed il sarcasmo: tutte ragioni che hanno caratterizzato la cultura di un momento storico significativo, qual è stata l'epoca dell'Assemblea Costituente, che ha visto uno dei suoi maggiori protagonisti proprio in Palmiro Togliatti.

 

Proiezioni di linguistica leopardiana in Togliatti

La lingua, secondo Gramsci, è strumento di governo spirituale capace di produrre consenso spontaneo.

"(...) Ecco che il Partito si viene così identificando con la coscienza storica delle masse popolari e ne governa il movimento spontaneo, irresistibile: questo governo è incomporeo, funziona attraverso milioni e milioni di legami spirituali, è una irradiazione di prestigio, che solo in momenti culminanti può diventare un governo effettivo (...)"[62].

Franco Lo Piparo ha dimostrato che Gramsci ha assimilato l'espressione irradiazione di prestigio alla scuola glottologica di Bartoli in relazione agli studi di alcuni linguisti europei, Gilliéron, Meillet, Bartoli medesimo, impegnati a spiegare la diffusione di una lingua oltre i suoi originari confini geografici e sociali mediante il ricorso ai centri geografici e ai gruppi sociali capaci di irradiare prestigio culturale[63]. Perché ciò accada, è necessario che si instauri dapprima una certa parità di linguaggio tra gli scrittori e la nazione, cioè una forma e struttura linguistica corrispondente e adeguata alle condizione socio-culturali di una nazione. Noi possiamo trovare i princìpi teorici, che pongono capo a questo fine, in Leopardi, per il quale la lingua italiana può esprimere assai facilmente e chiaramente mille cose nuove con parole vecchie, nuovamente modificate secondo il preciso gusto della lingua. In Zib. 1334 leggiamo:

"(...) Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua  in ciò pure, non cede forse e senza forse, né alla greca né alla latina, e vince tutte le moderne (...)"[64].

Un esempio: il verbo neutro inerpicare o innerpicare, che non ha radice nella nostra lingua né in quella latina, non può che essere derivato, mediante il latino, dal verbo greco érpo (Zib. 984). Va da sé che l'incremento delle cognizioni e il successivo variare degli usi, delle opinioni e delle idee aumentano il tesoro della lingua nell'uso quotidiano, e di qui le parole passano poi nella scrittura.

Accade talora che una lingua, che non ha parole proprie per esprimere la novità delle cose, ricorra alle parole straniere anziché ad un'invenzione arbitraria, e nasce di qui il complesso concetto di barbarie. Per il Leopardi

"(...) Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all'indole sua primitiva (...)" (Zib. 819)..

Ciascuno scrittore, allora, deve usare il suo giudizio nell'introdurre la novità, dopo essersi impadronito bene della lingua medesima e averne conosciuto a fondo l'indole e le risorse.

 

Forme linguistiche dell'Ottocento e filosofia della prassi

Non c'è dubbio che la questione del linguaggio e delle lingue deve essere posta in primo piano, se è vero che una volontà collettiva è tenuta insieme anche e soprattutto da una lingua comune. Perciò Gramsci ha distinto le grammatiche spontanee e immanenti, innumerevoli come i gerghi e i dialetti, dalle grammatiche normative

"(...) che tendono ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il "volume linguistico" per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che d'altronde pone in un piano più alto l'"individualismo" espressivo, perché crea uno scheletro più robusto ed omogeneo all'organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo è il riflesso e l'interprete"[65].

Ispira questo pensiero il principio che distingue nello sviluppo storico della lingua i tempi di maggiore naturalezza da quelli di minore creatività popolare. Nel primo caso la natura, e con essa il gusto, precede l'arte; nel secondo caso la lingua trova l'arte già formata e già padrona della scrittura e così essa si allontana dall'andamento e dalla struttura naturale e comune e universale del discorso. Nell'un caso e nell'altro tuttavia è fatto salvo lo spirito pubblico creativo in quanto il linguaggio viene alla luce come una realtà per cui da una parte si rende sempre più cosciente la sfera della produzione materiale della vita, cioè l'energia e le forze praticamente sensibili, e dall'altra si tende a permeare di determinatezza storica il pensiero. Il linguaggio cioè corrisponde alla concezione di una cultura di una massa che opera unitariamente e genera norme di condotta non solo universali, ma anche nella realtà sociale. Tutte le forze dell'uomo sono nella natura, e anche il fare appartiene ad essa. Scrive Leopardi in Zib. 570

"Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali dirigono l'egoismo e l'amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell'uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, a rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli e delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti (...)".

E ancora in Zib. 114-115:

"La  civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura con la ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte (...). Dal che si deduce un altro corollario, che la salvaguardia delle libertà delle nazioni non è la filosofia né la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l'entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi (...)".

Abbiamo indicato una categoria culturale leopardiana centralizzata nel rimedio della natura contro le disuguaglianze. Questa categoria è presente nel dibattito ideologico e intellettuale dell'Italia contemporanea ad opera della filosofia della prassi.

Il Togliatti dell'unità nazionale, dell'amnistia ai fascisti, dell'impegno a oltranza nell'elaborazione e approvazione della Costituzione, i caratteri della sua politica che, pur nella continuità di sviluppo, si distanziano da Gramsci almeno su due punti, e cioè il partito di massa, ben diverso dal gramsciano partito di quadri, leninista e terzinternazionalista e, soprattutto, l'accettazione del pluralismo e della democrazia, ricollegano il proletariato italiano, in linea di principio e di fatto, all'idea di nazione, di patria e di istituzioni, illuminando di luce nuova e diversa questi valori di virtù civica, di solidarietà e di libertà, e dando ad essi il fondamento della stabilità e della capacità di durare.

"(...) La lotta di classe ha scosso l'italiano dal suo torpore, gli ha dato virtù civili, virtù di ribellione, non virtù di pazienza (...). Ha un significato il suo pensiero e la sua azione, gli ha fatto considerare i rapporti che legano tra loro gli uomini con animo non più servile, ma libero"[66].

Vi è nella cultura linguistica dell'Ottocento una teoria tutta di origine sensistica per la quale il nome di una cosa o di un'azione, che cadono sotto i sensi, ha avuto origine metaforica, e quel nome, modificato di significato e di forma, è servito a esprimere le cose non sensibili e spesso è rimasto in quelle, perdendo il significato primitivo. Così in Leopardi in Zib. 1391:

"(...) ora le idee elementari ed astratte sono naturalmente le più difficili, anzi le ultime a raggiungersi, e a concepirsi chiaramente, e quindi ad essere formalmente e regolarmente espresse".

Leopardi in Zib. 113-114 definisce in questo modo la parola partito:

"(...) contrasto [che] eccita anche qui sentimenti che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si farebbe mai per effetto proprio, si fa per opposizione altrui (...)".

La parola difatti nella nostra lingua è un derivato di parte, vale a dire di un termine assai comune, usuale e necessario alla lingua medesima, cioè un elemento sensibile che poi ha perduto il senso primitivo ed è divenuto una parola propria, una metafora, partito.

L'aspetto sensistico della lingua si rinviene nell'Ottocento anche in Carlo Cattaneo:

"(...) E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le voci scientifiche più astratte sono traslati o derivati d'umili vocaboli d'ordine concreto e sensuale. E, se spingiamo l'analisi più avanti e riduciamo i derivati alle radici, troviamo residuare al fondo d'ogni più dotta lingua un capo morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo (...)"[67].

Questi aspetti tecnici non sono rimasti ininfluenti nella cultura linguistica progressista e nella filosofia della prassi.

Togliatti, come accade a tutti coloro che possiedono un conquistato senso della realtà, sempre esposta alle repliche della storia, rivela nelle sue parole il movente più profondo, cioè quello dell'azione. Utilizziamo a questo proposito la metafora leopardiana partito innanzi analizzata. A testimonianza che sorgente e radice universale di tutte le voci sono i puri nomi delle cose che cadono al tutto sotto i sensi, Togliatti ha potuto elevarsi fino a dare alla parola partito il significato di un valore in sé per via di una metafora salita dal puro senso all'astrazione metafisica:

"(...) In pari tempo il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione (...)"[68]..

 

"Zibaldone" e "Quaderni del carcere" modelli di pensiero antidogmatico

Così partito nuovo in Togliatti ha potuto significare un potente fattore di rinnovamento e di modernizzazione dell'Italia in primo luogo perché Togliatti ha fatto di Gramsci, nel volgere di pochi anni, il centro fortemente simbolico della politica e della cultura del PCI. Si è venuta così attuando in secondo luogo una più avanzata esperienza politica e civile e la classe operaia ha assunto una funzione storicamente nuova dopo il crollo del fascismo e con la guerra di liberazione, che hanno posto in crisi l'egemonia borghese. In altri termini partito nuovo significa un agire politico che è anche una funzione dello spirito in quanto volta ad organizzare avanguardie o masse di individui, come processo di coesione, di autodisciplina e di autoeducazione di moltitudini umane. Il partito così fa tutt'uno con la coscienza e diventa con essa inscindibile, ed è significativo che l'idea di partito nuovo non si trova nella elaborazione degli altri partiti comunisti, proprio perché è una formula nata insieme all'idea di un nuovo rapporto tra democrazia e socialismo.  Naturalmente in tutto questo c'è l'aspetto di una modernità che ha i suoi riflessi nel linguaggio come educazione alla parola, e in quanto le relazioni tra gli uomini si manifestano o si celano anche nel linguaggio medesimo.

In questa modernità ci sembra di poter rinvenire un elemento essenziale dell'eredità culturale di Leopardi e di Gramsci, se è vero che lo Zibaldone e i Quaderni del carcere vanno assunti come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizione intellettuale e civile italiana, in quanto in essi converge, ed ha un posto centrale la questione linguistica, traversata da un'alta tensione problematica.

Leopardi, del quale la critica ha spostato l'interesse verso la denuncia e la protesta, quale preconizzatore di una società nuova, pur senza assorbirlo in un materialismo sistematico, rifiuta lo spirito della cultura del suo tempo e smitizza tutti i miti culturali o letterali della società borghese ed elabora, come abbiamo visto, una teoria della lingua che in particolare serbi naturalezza, attinga alla conversazione senza smarrire la sua indole popolare e unisca insieme il momento francese della comunicazione sociale con il momento italiano della varietà e libertà del registro e dello stile. In questo modo può essere assegnato un ruolo e una funzione di avanguardia soltanto alla poesia.

Gramsci, invece, ha maturato la sua teoria degli intellettuali, della egemonia e della società civile, nel corso dei suoi interessi personali per il linguaggio, e la sua teoria linguistica evolve in senso filosofico e politico, ed è idonea a spiegare le fasi di sviluppo e il processo di formazione del conformismo linguistico nazionale unitario, cioè evolve in una metafora sociale che va sotto il nome di egemonia culturale, in quanto

"Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamneto della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale"[69].

Ben a ragione Stefano Gensini ha potuto scrivere:

"(...) Si trattava. in entrambi i casi, di trovare una via d'uscita da mali diversi di pensiero dogmatico, quello cattolico spiritualista (ma anche astrattamente razionalista) nel caso di Leopardi; quello idealista e marxistico-volgare nel caso di Gramsci; una via d'uscita laica da forme "forti" di filosofia, senza tentazione alcuna di cedimenti irrazionalistici (...)"[70].

Questa via la percorre Togliatti attraverso due argomentazioni simultanee e nello stesso tempo in contraddizione tra loro, in quanto l'una procede per forme di unificazione e l'altra per forme di molteplicità e di diversificazione. Ma anche qui cade opportuno l'approccio a Leopardi. Innanzitutto Leopardi in Zib. 2731 distingue le scienze esatte da quelle astratte.

(...) Chiamo qui scienze esatte quelle che ancorché non sieno ancor giunte a un cotal grado di perfezione e di certezza, pure di natura loro debbono essere trattate con la maggiore possibile esattezza, e non danno luogo all'immaginazione (...), ma solamente all'esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura, ec. (30. Maggio. 1923.)"..

E oltre, in Zib. 4215:

(...) Anche l'ideologia narra, benché scienza astratta. Oltre che il nome di storia, secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento (...)"..

Le scienze chiedono analiticità e razionalità interpretativa, capaci di cogliere forme che hanno ingrandito le opinioni naturali e stanno al di sopra dell'individuo. Natura e società associano con filo tenace generazione a generazione, e ciò accade a mezzo del linguaggio grazie al quale il discorso analizza il pensiero per tradurlo in parola e, viceversa, analizza la parola per estrarne il pensiero. Abbiamo tre fonti della cultura, unificate dal linguaggio: la natura, l'individuo, la società, in una parola la storia che si traduce in prassi, o, viceversa, la prassi che si fa storia.

 

Analisi e filosofia nella critica storica di Togliatti

Quel che Leopardi riferisce alle scienze, e cioè che dal metodo di esse deriva l'attività mentale che si concretizza nell'atto di analisi con cui la mente distingue le parti di un tutto, Togliatti riferisce alla storia in quanto, essendo il genere umano per sua primitiva e spontanea necessità gregario e sociale, il pensiero diventa l'atto più sociale degli uomini come quello che mediante libera analisi può attingere iniziative più eccelse e dar vita alla storia medesima. E' l'aspetto unificante prima richiamato. Noi sappiamo difatti che vincolo intimo della storia è la tradizione che si attua soprattutto attraverso il linguaggio, e può assumere la funzione o di un indirizzo dato o di un vincolo imposto. Nella critica storica di Togliatti è chiaro il collegamento tra le scelte di politica culturale e la necessità anche di prendere le distanze dal dogmatismo e dallo stalinismo, visto che la sua cultura discende da una tradizione antidogmatica. Così egli scrive:

"L'Unione Sovietica ci dà un grande esempio di creazione di una cultura socialista (...). La creazione di una cultura socialista italiana è però un compito particolare nostro (...). Una cultura socialista è tale, infatti, per il suo contenuto, ma è nazionale per la forma (...). Per una cultura socialista italiana, Giordano Bruno e Galileo Galilei hanno un'importanza ben più grande che per altri paesi, per ciò che sono stati e per la traccia profonda che hanno lasciato (...). Il pensatore di cui in questo campo dobbiamo saper valutare sia le posizioni progressive che i limiti, è prima di tutto Francesco de Sanctis (...) per noi, però Antonio Labriola rimane il pensatore che, affondando le radici nella cultura italiana della metà dell'Ottocento, con un colpo d'ala apre al pensiero progressivo del nostro paese la via maestra del marxismo. L'importanza di Gramsci nello sviluppo della cultura italiana mi pare sia così grande appunto perché ha saputo muoversi con sicurezza in questa direzione e con questo metodo (...)[71].

Appare chiaro che nella critica storica di Togliatti la tradizione può essere il prodotto di vere e proprie ammissioni od omissioni di analisi primitive, e in questo caso il linguaggio finisce per diventare esso stesso un'analisi continua che diventa a sua volta prassi come momento dell'azione guidata dalla conoscenza storica tale, da connotare il marxismo di Togliatti con un'indicazione decisamente antiteoretica. E' l'aspetto della diversificazione. Difatti Togliatti libera la ricostruzione storica dall'influenza diretta della politica e dalle sue esigenze, che è stato il modulo tipico dello stalinismo, e in tal modo conquista una concezione laica della ragion d'essere della storia, cioè una identità che senza remore può guardare, oltre che al presente, anche al proprio passato.

Diamo qui qualche esemplificazione testuale:

"(...) La questione romana è stata in Italia, niente altro che un ostacolo il quale impediva che rapidamente si arrivasse alla collaborazione completa e consapevole tra lo Stato e la Chiesa per allontanare la minaccia della rivoluzione proletaria (...)"[72].

Siamo nell'area di un'astrazione, vale a dire in ciò che vi è di più alto nell'intelletto, ma l'astrazione è cominciata nella pagina innanzi dall'atto analitico di Togliatti storico, al di là della tradizione e magari contro la tradizione ufficiale, circa il rapporto tra Stato e Chiesa.

L'11 febbraio 1929 vengono firmati i patti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il commento ufficiale dei comunisti italiani appare su "Stato Operaio" III, n. 2 con lo scritto Fine della questione romana a firma Ercoli, pseudonimo di Togliatti. Il nucleo dello scritto vuole essere la rappresentazione del vero potere temporale del papa, potere ben diverso da quello della storia ufficiale.

"(...) Il dominio temporale incomincia a diventare anacronistico quando lo Stato nazionale moderno si afferma (...). Chi diede il colpo di grazia al potere temporale non furono i cannoni del povero Cadorna, ma fu lo sviluppo del capitalismo. Lo sviluppo del capitalismo opera sopra l'involucro dei vecchi rapporti feudali o semifeudali, come un reagente e come un esplosivo (...). Armato della sua vecchia potestà temporale, il papa è, tra potenze capitalistiche, un personaggio ridicolo ed impotente (...). Il sacco di Roma dato nel '500 dalle soldatesche di Carlo V, e la famosa "breccia" del '70 si assomigliano come un dramma e la sua parodia (...) il papato del giorno d'oggi, invece, il papato che ha firmato l'accordo con lo Stato italiano (...) è andato alla scuola del regime parlamentare, della democrazia borghese e dei partiti politici, del giornalismo, della banca, della espansione coloniale e della organizzazione operaia (...). Esso è una potenza che in questo modo cerca di esercitare nel modo più adatto alla circostanza, la sua funzione di conservazione dell'ordine sociale esistente. Per questa potenza la questione romana, intesa come contrasto per un possesso territoriale, è evidente che non può più avere un senso".[73]

Togliatti ha scomposto, composto e ricomposto, attraverso le giunture vive del linguaggio, le giunture vive del suo pensiero, intrecciando le vicende storiche e le motivazioni temporalistiche della gerarchia della Chiesa lungo i secoli e giungendo così, mediante la libera analisi, all'astrazione: la minacciosa prospettiva della rivoluzione proletaria.

In Togliatti inoltre si rinviene il momento metodologico della storiografia, cioè la capacità di elaborare quei concetti universali che rendono allo storico intelligibile la storia.

Siamo nell'area della filosofia crociana, cioè al primo momento della formazione culturale togliattiana attraverso Gramsci, e precisamente all'identificazione della filosofia con la storia, se per filosofia si intende elaborazione delle idee contenute nei fatti storici e chiarificazione dei concetti attraverso la loro storicizzazione, in quanto non vi può essere vita spirituale nella quale il contenuto non abbia una sua forma concettuale. Nella critica storica di Togliatti l'esperienza con la quale egli identifica la realtà è quella del mondo moderno rispetto a quella naturalistica propria del positivismo. Un esempio si può cogliere nel suo scritto su Giacinto Menotti Serrati che è stato l'erede di tutte le qualità della prima generazione socialista, e cioè l'attaccamento alla classe operaia, l'internazionalismo e l'intransigenza di classe. Serrati si limita all'opposizione pura e semplice alla guerra, ma prende chiaramente posizione per la rivoluzione russa, contro il neutralismo di Lazzari e contro il difensivismo e il socialpatriottismo di Turati. Ma ascoltiamo Togliatti:

"(...) Su questa strada che seguì durante la guerra avrebbe potuto andare molto lontano (...). poi si fermò (...). Se egli avesse condotto la battaglia per fare del partito socialista la vera avanguardia rivoluzionaria del proletariato italiano, tutte le masse lo avrebbero seguito. Ma egli non seppe farlo. La sutura tra i vecchi ed i nuovi elementi non s'era ancora realizzata in lui in modo concreto. Nel momento decisivo, il fattore sentimentale, l'attaccamento al vecchio partito come organizzazione unitaria, ai suoi vecchi leader, alla sua tradizione, ebbe il sopravvento. Fu l'errore più grave della sua vita (...) Fu allora che senza di lui, fu fondato il partito comunista d'Italia (...). Serrati non tardò a ritornare tra noi (...). Col suo ritorno, Serrati divenne degno di riprendere il posto di primo piano che meritava (...)".[74]

C'è nella pagina di Togliatti un giudizio storico che non assolve né condanna, bensì è volto a comprendere, in quanto nel meditare e nel contemplare non si fa altro se non cercare la verità, ossia pensare la storia, la storia di sé, degli altri, del genere umano e del mondo tutto; c'è inoltre una volontà di intendere l'uomo di cui si parla nel suo esatto valore originario e di coglierlo nella sua dimensione umana, ma per conquistare se stessi nella propria autonomia, e anche per collocare nella storia una fase di sviluppo della cultura socialista, al fine di un effettivo superamento di essa attraverso una riflessione sugli errori del passato. A  proposito del concetto di filosofia che abbiamo analizzato in Togliatti, cade opportuno ancora una volta un rinvio a Leopardi. Leggiamo in Zib. 2709-2710-2711:

"(...) la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. (...) perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori (...). I filosofi antichi seguivano la speculazione, l'immaginazione e il raziocinio. I moderni l'osservazione e l'esperienza. (E questa è la gran diversità tra la filosofia antica e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del popolo, dei filosofi o di ambedue. Così lo spirito umano fa progressi (...)".

E' adombrato in questo momento teoretico leopardiano il principio secondo il quale tutto nella storia è necessario, di una necessità non metafisica bensì logica, e tuttavia ciò non impedisce la revisione del giudizio sul passato, la quale può anche restar lontana dal vero, ma al pensiero certamente fornisce un metodo, un'arte, un abito che quel vero conduce a scoprire. Può anche accadere che le scoperte siano di là da venire, ma, se non si fanno delle ricerche, vuol dire che queste sono impedite dalla mancanza di libertà o che la volontà ha esercitato nell'uomo un dominio minore che non l'intelletto. La ricerca inoltre può non dar corpo alla verità, ma non c'è dubbio che essa talora cancelli un errore e una falsa opinione, quel che Leopardi ha chiamato spogliarsi degli errori.

Cancella gli errori chi li spiega nel momento della loro genesi, perché li comprende in quanto li considera come fatto umano e, come tale, soggetto ad esame e discussione critica. Così nasce la storia, quella che dà origine a conoscenza concreta più alta di ogni sottigliezza metafisica e teologica, la storia come educatrice dell'umanità. Questo è l'insegnamento che ci sembra sia venuto a Togliatti dal pensiero antidogmatico dello Zibaldone e dei Quaderni del Carcere.


Memorialistica democratica e antifascista

Ogni genere letterario si conserva nella misura in cui è capace di rinnovarsi adeguandosi alle esigenze della realtà culturale del proprio tempo. Così la memorialistica antifascista, dopo quella garibaldina e dei poeti della patria nell'Ottocento, ha rinnovato in una ideale continuità nel nostro secolo le sue strutture narrative e la sua tecnica espositiva mediante documenti di memorie, di confessione e di riflessione che nobilitano la passione e la battaglia della vita politica. Un aspetto particolare di questi documenti è costituito dalle Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino[75].

Si distinguono innanzitutto nell'opera tre sezioni: 1) la prima generazione antifascista in tutto il primo tomo; 2) l'antifascismo degli anni Trenta e 3) dalla guerra alla Resistenza nel tomo secondo. Il lettore può seguire così, attraverso l'epistolario, la storia di più di un terzo del nostro secolo. I corrispondenti sono operai, avvocati, medici, intellettuali, ferrovieri, impiegati, organizzatori sindacali, artigiani, braccianti, contadini, falegnami, fruttivendoli, studenti, tipografi, camerieri, ed appartengono perlopiù al partito comunista e socialista, ma non mancano cattolici militanti, liberali, repubblicani, radicali ed esponenti di altri indirizzi politici. I destinatari delle lettere sono i genitori ed i congiunti in genere, specialmente la mamma, la moglie, la fidanzata, il cugino, la compagna di vita, qualche volta il giudice del processo ed altri.

 

Isolamento, studio e volontà

Le lettere degli antifascisti esprimono, pur con l'angolazione diversa della singola corrispondenza e talora per effetto di qualche lettera che è un vero e proprio centro di forza autorappresentativa, la capacità di raffigurare la realtà ricca di avvenire storico che fa emergere la sostanziale autonomia dell'uomo. Tutta la prima sezione appare incardinata intorno al problema delle ragioni per cui il fascismo ha vinto. Emergono la debolezza e la complicità della classe dirigente liberale, nonché la necessità che l'Italia postfascista debba essere diversa da quella prefascista. Trovano così conferma i princìpi a cui si è ispirato il movimento Giustizia e Libertà di Carlo e Nello Rosselli. Per altro verso c'è l'analisi gramsciana del fascismo come l'espressione più recente del blocco industriale-agrario che ha dominato lo Stato italiano, nonché la necessità di contrapporvi un blocco operaio-contadino, e precisamente degli operai del Nord e dei contadini del Mezzogiorno.

Colpisce il fatto che ogni lettera tende a chiarire sempre meglio l'idea che il suo autore ha della realtà. Prendono così corpo delle potenzialità che, per uscire dallo stato virtuale, affidano all'esperienza del carcere la pienezza della coscienza intellettuale ed umana. Assume allora un significato particolare la volontà come sviluppo di vita interiore per cui un dato contenuto di coscienza si svolge in un altro più completo e più chiaro:

"(...) Per non perdere l'abitudine a parlare, leggo ad alta voce, declamo poesie, riassumo a voce ad un pubblico immaginario che popola la cella quel che imparo. Per non impigrire, che è il malanno più grosso per un carcerato, faccio ginnastica svedese e durante la giornata non mi corico mai: la branda la tengo inchiavardata al muro. Quando sono stanco di camminare, mi riposo un poco sedendo su uno sgabello. Poi riprendo a muovermi. Non mi do per vinto. Non sono e non voglio essere disoccupato (...)" (Edoardo D'Onofrio, dal carcere di Fossombrone alla mamma il 20-12-1928)[76].

Questa volontà, come sfida all'inerzia del puro accadere, viene rinsaldata mediante la lettura di G. B. Vico. La storia umana è più facile a studiarsi della storia naturale, perché è fatta dagli uomini. Nel dilemma se sia la volontà umana che fa la storia o le umane necessità, si scopre la questione del libero arbitrio e del determinismo, come nella lettera di Giuseppe Amoretti e Lea Betti Ciaccaglia, militante comunista di Bologna, risapettivamente dal carcere di Roma e di Perugia[77]. Nasce allora nell'animo del carcerato antifascista un imperativo categorico che rappresenta il bisogno di un'azione come oggettivamente necessaria per se stessa in quanto riceve solo da sé la sua legge, senza alcun riferimento ad un altro fine. Scrive il medico socialista cremonese Alberico Milinari dal carcere di Roma il 2 maggio 1930 alla figlia Medea, che a sua volta sarà incarcerata per antifascismo nel 1942:

"(...) Il merito della selezione tra i vili ed i degni è tutto delle tempeste... Ah!, il sentiero della giustizia! Qual'è? E' il sentiero, che, secondo il tuo giudizio, conduce al bene di tutta l'umanità. In esso vi è tutto il giusto, tutto il buono, tutto il bello degli antichi e dei moderni filosofi. E per seguire questo sentiero umano della rettitudine che cosa chiederai in compenso? Se tu t'aspetti dei compensi terreni o celesti, non sei più in buona fede e non meriti proprio niente. L'idea dei compensi non passi neanche nella tua mente nel poco e nel tanto di bene che potrai fare nella tua vita. Nelle tue cose sii tu stessa l'attrice, il teatro ed il pubblico che applaude. Questo è il segreto della tranquillità e dell'onestà dell'animo. Ancora una cosa. Tutta una vita o anche un solo sospiro della nostra vita non ha ragione o giustificazione d'esistere se non sia emanazione di una idealità... E l'idealità può, anzi deve essere guida non solo nelle grandi imprese della vita ma anche  nei più piccoli atti comuni della giornata (...)"[78].

Siamo nella sfera dell'assoluto incondizionato, e sembra di aver letto una pagina dei dialoghi morali di Seneca.

Talora da parte dei familiari si tenta di indurre il carcerato a presentare, in cambio della libertà, una dichiarazione di riconoscimento del regime. La risposta è uno scatto di intransigenza, il rifiuto del suicidio morale:

"(...) Nessuno più di noi desidererebbe il suo focolare, solo che non lo si vuole guadagnare con la codardìa o con la vigliaccheria. Chi se lo procura così non lo ama ma lo disonora (...)"[79]. E con ironia che si direbbe socratica vengono opposte verità contraddittorie per mettere in evidenza la natura dialogica della verità autentica. A prova di ciò si legga il seguente brano di lettera, scritta alla mamma dal carcere di Sassari il 1° agosto 1930 dal cameriere comunista Giovanni Nicola. Ricorre il quarantesimo anno dacché

"(...) il tuo ottavo figlio annunciava coi suoi primi vigorosi vagiti la sua rumorosa entrata nel mondo dei diseredati, ed allora anche l'onesto artigiano [il padre] sospendeva un momento il suo lavoro e forse la lieta novella trovava gaia rispondenza nel suo sensibilissimo cuore paterno. Ho detto forse perché nelle migliori case della povera gente non sempre la venuta di una nuova bocca è salutata con gioia (...)"[80].

Il carcere sveglia nell'indole dell'uomo una grande capacità di osservazione:

"(...) C'è una tribù di colombi che ha preso domicilio sopra uno spicchio di tetto che io vedo di scorcio... Sono pieni di ipocrisia e di malignità. Si accapigliano in tono minore come le monachelle. E ce n'è di tutti i caratteri. La maggior parte mattinieri, ma non manca qualche nottambulo, che vorrebbe far conversazione quando gli altri dormono e dorme invece alla lunga a giorno alto, proprio come una signora mia amica (...)". (Francesco Fancello alla mamma dal carcere di Roma il 3 marzo 1931)[81].

Nell'epistolario sono numerose le pagine di un mirabile e sereno bozzettismo di fronte alle quali nell'animo del lettore si desta un senso di spirituale candore che commuove. Accade cioè che l'isolamento del carcerato e poi la sofferenza sublimata alla luce dell'idealità che lo pervade, semplifica la sua visione della vita e la cinge di un alone di ingenuità:

"(...) In queste settimane, Torino è bella! Odora tutta di tigli, ed ha viali biondi di quella blanda nevicata di petali che io, con tanto piacere, stavo a guardare dal balcone della nostra casa sul Valentino. Là vi penso sempre, senza avvedermene! (...)". (Camilla Ravera dal carcere di Trani alla mamma il 1° maggio 1932[82].

Il recluso diventa un abitudinario e si avvezza, per esempio, a vedere un'incisione sul pavimento, una scrostatura nella parete o quel pezzo di muro davanti alla finestra e, come il gatto, si affeziona alle muraglie ed il solo pensare ad un altro cambiamento lo turba e gli dà malinconia. Così il carcere restituisce la vita che ha tolto al carcerato, ridandogliela in intensità e freschezza di pensieri e di meditazioni. E' veramente sorprendente come si realizzano le fantasticherie, le divagazioni, ed i pensieri che si svolgono ed intessono ogni giorno nella mente del recluso per sciogliersi la notte nel sonno e riapparire il giorno dopo.  Basta un ragno che faccia trovare ogni mattina in uno dei quadri della inferriata una sua bellissima tela, sempre uguale e tessuta nello stesso luogo; basta contare tutto quello che si fa, le flessioni della ginnastica la mattina, poi i passi per la cella e quindi giù in cortile dove si va a prendere aria, poi le volte che si rimastica ogni boccone, ed ecco che spazio e tempo risorgono per virtù di forma razionale e, prima occultati ed uniformi, si aprono un varco nel cielo dell'universo ed un pensiero si accende su un altro pensiero e la vita si rinnovella e si carica di tempo già trascorso, ma anche di tempo ulteriore; talora, purtroppo, al pensiero implacabile si chiede l'ingrato lavoro di impedire al cervello di pensare le dilette persone lontane.

Si rinviene inoltre nel carcerato la svalutazione di tutte le sue posizioni esteriori nella vita. Accade cioè che l'integrità epica e tragica dell'uomo e del suo destino venga distrutta dalla scoperta dell'uomo interiore e dall'ispezione continuata di sé:

"(...) L'altra notte non ho quasi potuto dormire per avere letto la sera prima - Da Quarto al Volturno -. Sentirsi garibaldini non è certo compatibile con il sentirsi vecchi ed io mi sono sentito garibaldino sul serio (...)". (Giancarlo Paietta ai congiunti dal carcere di Forlì il 15 luglio 1929)[83].

In conclusione, la lettura e lo studio e la conversazione tra compagni di cella permette di maturare una cultura d'avanguardia che abbatte i sistemi chiusi di idee, distrugge ogni angustia ed ignoranza reciproca, avvicina ciò che è lontano ed unisce ciò che è separato. Questo concetto nuovo di cultura nasce dal concetto nuovo della storia: prima dei re e delle repubbliche devono interessare gli uomini ed i loro rapporti quotidiani, prima dei luoghi e delle date delle battaglie celebri contano i popoli e le loro armi, ed il loro bisogno di pace. Insomma, la vita, e non altro, deve essere maestra della vita, perché soltanto essa insegna all'uomo il dominio di sé e la strategia della propria conservazione.

 

Disfacimento fascista e nuova intellettualità

Man mano che ci si avvicina alla caduta del fascismo una nuova certezza fa mutare anche la struttura narrativa dell'epistolario. Le lettere del secondo tomo, difatti, presentano una connotazione di più spiccata intellettualità e registrano, fra gli altri, sentimenti e pensieri di Giorgio Amendola, Franco Antonicelli, Vittorio Foà, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Augusto Monti, Cesare Pavese, Pietro Secchia, Guido Calogero, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Tommaso Fiore, Lucio Lombardo-Radice, Altiero Spinelli e di altri. In tutti si avverte la certezza che la vecchia società decade ed una nuova è in gestazione e ciò non può avvenire senza grandi dolori. Questa certezza si riflette nitidamente nella struttura narrativa delle lettere, sotto l'aspetto di una segreta armonia interiore. Quest'armonia nasce o dalla consapevolezza di essere immesso ciascuno nel circolo del patimento generale, anche fisico, e questa partecipazione è prova di solidarietà con la propria gente, oppure dall'aver acquistato il senso della relatività di tutte le cose umane, che non siano gli affetti profondamente radicati nell'animo nostro, dai quali soltanto sgorga la forza di affermarci sopra i triboli della vita e vincere così la nostra prova:

"(...) Io mi sento sicurissimo di me, delle mie energie morali e fisiche, che tengo saldamente alle redini di una volontà incrollabile (...)". (Rodolfo Morandi al fratello Gigi dal carcere di Roma il 17 agosto 1937)[84].

Questa vita di affetti si intreccia strettamente con una vita di intenso studio. La lettura di Croce e di Gentile da parte dell'intellettuale che vuol vedere chiaro nel tessuto della vita moderna, anziché stimolare, deprime il senso critico, perché svuota di ogni contenuto concreto la realtà universale e relega le scienze nella sfera utilitaristica, inducendo a considerare come materialità esteriore, indifferente per lo spirito, la complessità delle relazioni sociali. Difatti, degradate così la scienza e la dottrina, e la stessa realtà sociale e la religione, che cosa resta più della fatica di secoli e di millenni?

La riflessione su questi princìpi induce il recluso a scoprire che gli interrogativi della nostra esistenza individuale non li può risolvere la storia, così come non li risolve la scienza, pur ammesso il progresso delle scienze fisiche fondate sul metodo sperimentale, e quello della disciplina storica, fondato sullo studio delle relazioni economiche nella società. Allora i problemi quali l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima si dischiudono al carcerato in una luce nuova che vibra nel solco per il quale sono avanzate la civiltà e la cultura umane. Questa luce è la natura:

"(...) Le stelle che risplendono la notte nella piccola porzione di cielo che si concede al mio sguardo, mi parlano un nuovo linguaggio suggerendomi come l'esistenza nostra non sia da considerare che un aspetto dell'"energia" -a voler usare questo termine fisico - che percorre l'universo (...)". (Rodolfo Morandi al fratello dal carcere di Castelfranco Emilia il 26 marzo 1939)[85].

E così l'uomo, dal momento che non si sente semplicemente essere pensante, ma insieme e non meno parte dell'universo ed uomo senziente e sofferente, salda la scissione della realtà naturale e della realtà storica e diviene capace di vivere i drammatici eventi della sua vita con una tensione ideale che gli impone di rinnovarsi. Il prigioniero pone allora tutta la sua fierezza e la sua ragion d'essere nel non piegarsi, nell'essere più duro ancora delle sue catene. Prometeo si chiude in sé, nel suo rancore vendicativo, condannandosi all'inaridimento ed alla morte morale.  Il carcerato o il confinato antifascista, invece, non modella il suo animo in una tensione diretta contro la prigione né diventa una statua morale priva di vita, ma, mediante il suo epistolario,  si immette nel mondo e dimostra una grande capacità di conversare e di intendersi con persone vive ed intelligenti sino al punto che "nessuna prigione è tale da non mutarsi in cella amabile di vigilia di meditazione e di pazienza". Così dal carcere e dal confino gli antifascisti si dispongono all'incontro di un nuovo volto del mondo, assaporando talora una gioia ad un tempo triste e serena, che pochi in Italia hanno avuto il diritto di sentire in quanto preparata da precedenti sofferenze per una vera fede.

In carcere si riesce anche a godere il pulsare della vita. Da quello di Castelfranco Emilia si segue, per esempio, il passaggio alle quattro di notte della gara motociclistica Milano-Taranto col crescere e poi lo sminuire del rombo in lontananza. Bruno Roghi firma il ghiro sotto i corsivi de "La Gazzetta dello Sport". Scrive meglio di ogni altro direttore di giornale italiano. E qui una battuta di graffiante polemica politica da parte di Guido Calogero il 13 marzo 1942 dal carcere di Firenze alla moglie: "tanto è vero che dove c'è un po' di libertà di discussione, il cervello fiorisce"[87]. Ed un'altra volta, il 16 aprile 1942, a proposito del materiale antiparassitario contro le bestie che infestano la cella, ecco un'altra felice battuta dello stesso Calogero: "ce ne sono molto meno qui che sulle cattedre universitarie"[88]. E poi, in una lettera del 28 maggio 1942, in pochi tocchi, ecco schizzata una macchietta, sempre ad opera dello stesso autore, nei suoi tratti originali e caratteristici: "Ora è anche venuto il detenuto anticiminice, che gira con la lampada a benzina: abbiamo passato a fuoco tutto il letto e ne sono saltate fuori le ultime due superstiti"[89].

Ed ancora un altro schizzo colto nel confino di Agropoli da Franco Antonicelli il 26 novembre 1935, attraverso un canto popolare in dialetto salernitano:

"Quanno lu cusutore perde l'ago

s'assetta in terra e si raspa la capa:

poi chiama la mugliera Cannetella

- Appiccia la luce e biri in terra -"[90].

Da che cosa nasce lo stile di questi passi, questo tendere al parlato, al dialogo ed al gesto mimico se non dal senso di una realtà colta dal vero, dalla coscienza del ritmo vario e molteplice, in un rapidissimo e dinamico fluire della vita, che si acquista nell'isolamento per effetto di prospettiva e di contrappunto?

Ci sono piaceri che rapiscono la giornata al confinato, il quale, osservando sino all'attimo le cose nel loro pigro movimento, come ad esempio l'uomo che costruisce la barca od il porco che dorme rovescio, comprende che cosa è in sé l'amore del gesto che rivela la vita. E poi c'è la guerra che, in seguito al siluramento di una nave, si presenta con l'immagine reale di cadaveri che, rimasti vari giorni in fondo al mare e tornati poi alla superficie, sono approdati con l'aiuto della corrente a Ponza, ad Ischia, a Gaeta e a Formia e chissà dove ancora; e si offrono alla vista di quei confinati con la schiena curva e rivolta verso il cielo, e le braccia, le gambe e il capo ciondoloni verso il mare.

Insomma, chi legga questo originalissimo epistolario si trova di fronte ad uomini che, nel chiuso della cella o nell'isolamento del confino, indagano il reale o con la condizione spirituale di chi sente giudicate tutte le sue azioni da un occhio implacabile ed inflessibile, cioè dalla propria coscienza, ovvero con la curiosità di rinvenire il reale autentico al di sotto delle apparenze. Nell'un caso e nell'altro, al lettore non può che derivare una lezione o di morale o di conoscenza. Chi poi tenga conto che gli autori delle lettere, parlando di se stessi, sono riusciti a parlare di un'Italia che le giovani generazioni non hanno conosciuto, comprende che è questa una ragione di più per auspicare che queste lettere, possibilmente con l'aggiunta di quelle dei carcerati e confinati poilitici salentini, Carlo Mauro, Pietro Refolo, Giuseppe Calasso, Pantaleo Ingusci, Agesilao Flora, ed altri, trovino adeguata collocazione nelle biblioteche di classe e di istituto della scuola italiana, e specialmente di quella meridionale.

Può avvenire così che le nuove generazioni, reimmergendosi nel corso degli avvenimenti, sposino le discordie ed i conflitti dei carcerati e confinati antifascisti e parteggino con essi. Ne scapiterà allora l'Italia peggiore e si ridesteranno gli incunaboli della nostra libertà.

 


[1] In F. De Sanctis, Saggi critici, I, Laterza, Bari 1952, pp. 44-70.

[2] Ibidem, pp. 45, 49 e 64.

[3] in A. Gramsci, L'Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, Torino 1955, rispettivamente pp. 347-349 e 416-419.

[4] in A. Gramsci, Sotto la Mole, Einaudi, Torino 1960, pp. 488-490.

[5] in A. Gramsci, Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1971, pp. 36-39.

[6] Edita da Einaudi, Torino 1975. E' l'edizione critica dell'Istituto Gramsci.

[7] Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1954, pp. 145-183.

[8] Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 156.

[9] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 163.

[10] Cfr. "La Rivoluzione liberale" del 28 settembre 1922, poi in Gobetti e la "Voce", Sansoni, Firenze 1971, p. 58.

[11] "La Rivoluzione liberale " del 25 ottobre 1922.

[12] Cfr. Augusto Monti, Lettere scolastiche a Piero Gobetti, in "La Rivoluzione liberale", anno III, 1923: I) Scuola libera e riforma scolastica (n. 6); II) Dalla scuola dell'"orator" alla scuola del Citojen (n. 7); III) La scuola dei padroni e la scuola dei servi (n. 8); IV) Esiodo, il maestro del villaggio (n. 10); V) La scuola del popolo (n. 11). Questi articoli, che peraltro indicano sin dal titolo, come il lettore può constatare, il rimedio che avrebbe potuto evitare il dramma angoscioso della gioventù contemporanea, sono ora rifusi in Augusto Monti, I miei conti con la scuola, Einaudi, Torino 1965. Il brano citato è a p. 368.

[13] Cfr. Gobetti e la "Voce", cit., p. 217.

[14] P. Gobetti, Lo storicismo di un mistico, Postilla. "La Rivoluzione liberale", 7 dicembre 1922.

[15] A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1959, p. 169.

[16] Cfr. F. Engels, Prefazione a Carlo Marx, Il Capitale, vol. III, 1, Editori Riuniti, Roma 1973, VII edizione, II ristampa, p. 27.

[17] B. Croce, Le teorie estetiche del Professor Lòria, nel "Devenir Social", anno II, fasc. del novembre 1896, la rivista fondata da George Sorel. Il saggio è poi stato rifuso in Materialismo storico ed economia marxista, Laterza, Bari 1921, pp. 28-29.

[18] A. Gramsci, Achille Lòria ed il socialismo, in Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1958, pp. 162-163.

[19] In "Rassegna contemporanea" del 1° gennaio 1910.

[20] In "Riforma sociale", XXV, vol. XXIX, p. 13, n. 4.

[21] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, cit., p. 50.

[22] Ibidem, p. 51 n..

[23] F. Mehring, Vita di Marx, Editori Riunti, Roma 1972, p. 380. Le parole citate appartengono anche a Rosa Luxenburg che ha vergato insieme al Mehring, e su suo invito, il III paragrafo, cap. XII della biografia di Marx.

[24] Cfr. Denis Mack Smith, Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera, Rizzoli, Milano 1978, p. 136.

[25] L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un Trentennio 1914-1918,. I, Einaudi, Torino 1961, pp. 60-61.

[26] Idem, ibidem, p. 50.

[27] In Idem, ibidem, p. 60.

[28] A. Gramsci, Clericali ed agrari. Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, pp. 41-42.

[29] A. Gramsci, I contadini e lo Stato, ibidem, p. 248.

[31] Cfr. la lettera dell'8 giugno 1942 a Giovanni M. Bertin ne La formazione del pensiero di Banfi ed il motivo antimetafisico in "Aut-Aut", n. 43-44, gennaio-marzo 1958, pp. 26-37.

[32] Editori Riuniti, Roma 1970.

[33] A. Banfi, Per la rinascita dell'umanesimo classico, in Scritti letterari di Antonio Banfi,  cit., p. 16.

[34] Ibidem, p. 38.

[37] A. Banfi, Giornate fiorentine, in Scritti letterari di Antonio Banfi, cit., pp. 265-266.

[38] A. Banfi, Giornate napoletane, in Scritti letterari di Antonio Banfi, cit., p. 272.

[40] Cfr. E. Garin, Tra il regime ed il Santo Uffizio, in "Rinascita" del 26 ottobre 1985, n. 40, p. 15.

[41] P. Togliatti,  Discorsi alla Costituente, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 123-124.

[42] Idem, ibidem, pp. 180-181.

[43] Idem, ibidem, pp. 312 e 272.

[44] Idem, ibidem, p. 281.

[45] Idem, ibidem, p. 20.

[46] Idem, ibidem, p. 42.

[47] A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica sullo Stato moderno, Einaudi, Torino 1950, p. 232. L'abbondanza delle citazioni di autori antichi e moderni ci fa venire in mente alcuni pensieri relativi alla funzione della citazione, di un grande scrittore dell'Ottocento che è indebitamente registrato fra i minori nei manuali scolastici  di storia letteraria. Alludiamo a Carlo Cattaneo, cui si debbono alcuni canoni storiografici di una straordinaria modernità. Ecco alcune sue osservazioni in proposito:

"(...) 1) La citazione può ridursi ora ad una mera testimonianza, ora ad un principio d'autorità che non tende solo ad informare ma a comandare. Tale è la citazione della legge e della cosa giudicata.

2) Il citare li scrittori non è lo stesso che sottomettersi alla loro autorità. Raccogliendo ciò che essi hanno pensato, abbiamo già un argomento degno di più accurata attenzione.

3) E' sempre atto di gratitudine, nel ripetere una verità, il ricordare da chi l'abbiamo imparata. Talora si cita un autore solamente per il modo felice con cui si è espresso, o anche per non ornarsi con le penne altrui.

4) Nulla è più gentile d'una citazione di poeta o d'altro autore, fatta con opportunità e accorgimento, e in modo quasi inaspettato, e senza affettazione di dottrina. Li Inglesi ne fanno uso frequente nelle questioni parlamentari (...)" C. Cattaneo, Scritti, a cura di F. Alessio, Sansoni, Firenze 1957, pp. 179-180..

Ci sembra che Togliatti nei suoi discorsi all'Assemblea Costituente abbia rispettato lo spirito di queste riflessioni, e non per mera erudizione, ma ponendosi in una linea di continuità modernamente democratica di cui Cattaneo era stato maestro nell'Ottocento.

[48] P. Togliatti, Discorsi parlamentari I, Camera dei deputati - Ufficio stampa e pubblicazioni, Roma 1984, pp. 59-60.

[49] Idem, ibidem, p. 5.

[50] Idem, ibidem, p. 68.

[51] Idem, ibidem., pp. 106 e 203.

[52] Idem, ibidem, pp. 213-214.

[53] Idem, ibidem, p. 7.

[54] Idem, ibidem, p. 61.

[55] Idem, ibidem, p. 62.

[56] Idem, ibidem , p. 74.

[57] Idem, ibidem, p. 65.

[58] Idem, ibidem, p. 69.

[59] Idem, ibidem, p. 87.

[60] Idem, ibidem, p. 160.

[61] Idem, ibidem, p. 239.

[62]A. Gramsci, L'Ordine Nuovo (1919-1920), cit., pp. 69-70.

[63] Franco Lo Piparo, Studio del linguaggio e teoria gramsciana, in "Critica marxista, n. 2-3, 1987, pp. 172-173 e passim.

[64] Avvertiamo qui che tutte le citazioni dallo Zibaldone di Leopardi presenti in questo libro saranno contraddistinte dal titolo del testo appuntato e in corsivo (Zib.) seguito dal numero del pensiero, secondo il testo critico a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 1997.

[65] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, n. 13, p. 2343.

[66] P. Togliatti, Opere, vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 74.

[67] C. Cattaneo, Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Sansoni, Firenze, 1957, p. 276.

[68] P. Togliatti, Discorsi dall'aprile 1944 all'agosto 1945, Soc. Ed. "L'Unità", Roma, 1945, p. 352.

[69] A. Gramsci, Quaderno 13, cit., p. 2343.

[70] S. Gensini, "Rinascita", n. 34 del 5 settembre 1987.

[71] P. Togliatti, Intervento alla commissione culturale nazionale, in La politica culturale, Editori Riuniti, Roma *** pp. 201 e sgg..

[72] P. Togliatti, Momenti della Storia d'Italia, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 23.

[73] Idem, ibidem, pp. 20-21.

[74] Idem, ibidem, pp. 14-16.

[75] Pubblicate dagli Editori Riuniti, Roma 1962, e in II edizione, marzo 1975 (da cui citiamo), in due tomi di pp. 407 e 586, con lettere che appartengono a 56 corrispondenti quelle del primo tomo e a 100 quelle del secondo.

[76] Ibidem, I, p. 112.

[77] Ibidem, I, pp. 20 e 53.

[78] Ibidem, I,  pp. 216-217.

[79] Ibidem, I, p. 130, e vedi ancora sullo stesso tema pp. 69, 109 e 144.

[80] Ibidem, I, p. 239.

[81] Ibidem, I, p. 130.

[82] Ibidem, I, p. 330.

[83] Ibidem, I, p. 267.

[84] Ibidem, II, p. 231.

[85] Ibidem, II, p. 241.

[87] Ibidem, II, p. 390.

[88] Ibidem, II, p. 393.

[89] Ibidem, II, p. 399.

[90] Ibidem, II, p. 40.


Torna su