Omaggio a Claudia Ruggeri |
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Poesia | ||
Sabato 12 Ottobre 2013 07:12 | ||
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lamento dello Straniero Il
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Le glaive de l'indifférance de l'étoile
blesse une fois de plus la terre du dormeur
Yves Bonnefoy
pure -se t'imbatti nel suo petto-, un Punto
di muta, un vento
di repentaglio, si cede alla Maria -ritenuta
la Gatta-, allo sfarzo della sua assidua
demenza, al vanitoso
articolo tra questo agosto
ed il suo addome strano; e sia Nostra Signora
Distrazione! incuta
una soltanto notte, che non
snaturi! levi anche quaggiù il Divoratore un buio
scellerato ma se, Maria, io t'ho
incontrato, non è stato
che per un divieto a liberarti
lamento dell'Uccello colpito
Vladimiro: Mi ricordo di un energumeno
che tirava calci.
Estragone: E l'altro che lo tirava, ti
ricordi anche di lui?
Vladimiro: Mi ha dato degli ossi.
Samuel Beckett
cavami da le piume gli insulti lo sfrenìo
la velocità indifferenziata che era danza
o salto, che ormai non muove semplicemente
mi rende probabile; la memoria finta da usare
come un nome, questa memoria insomma divina
indifferente di un calcio e di ossa, di un debole
dèmone mosso a pena a cerchio (leggero leggero
lo spirito ragazzino, e ciò sottile sottile
indistinto, destinato): Dedico a Te questa morte
padula -ché sei l'Artificiere-; impiegane
la festa, se pure alza I'Avverso[20], lo cattura
lamento del Convitato
e quale mai s'invera Canzoniere da questo tanto intentato lo,
se al grande giro di attorno, di nada, soltanto mento, spio?
lamento della Sposa barocca (octapus[21])
t'avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione[22]
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
-sentile ruvide come cadono-; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
t'avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un'impronta[23] si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture
lamento in forma di Elenco lografico
(E TU NON COMINCIAVI TU) il training del contrario il betel de la vecchia il gallo da lotta la voce di paperino un atlante un clamore una gran velocità -oppure l'occasione di sventarla... la Vecchia- (E CHE TIPO DI DOMANDA CERCHERETE DI INTERROMPERE?) il Tratteggio orizzontale la nostra solitudine grammatica il Greco del trauma qui pousse à côté prove tecniche di trasmissione (AL MIO MIGLIOR TRADITO) l'elenco stordito l'elenco parlante il fantino del parlante il giullare dell'elenco il giullare faccia bianca il giullare bianco faccia faccia il Giallo di ogni vocale faccia entrare proprio tutto deve entrare la pedana allestirsi la ribalta deve sciogliersi l'elastico al morto che torna del fabbro Locativo se pur seguita a Splendere per oscula per basia e per_ aguglia milia[24]
(SE PER BOLOGNA I GOTICI, SE PUR I VISCERI, NON REPLICAVO TE, IO DENTRO I PORTICI?)
la pena dell'Attore
se il chiarore è una tregua,
la tua cara minaccia la consuma.
Eugenio Montale
è qui che incontro l'ultimo Cattivo, il residuo
rosicchio di semenza, l'antenato Attore; dal precipizio
accanto, il suo spettatore lo trattiene
a un fronte candidissimo; dal vano
che cava e spaventa in tanta mediterranea
Evidenza; da dentro questo falco che cade
che ventila da dentro questo volo che scaverna rotondo,
maniaco; dal ventre, che scaraventa;
che mostro Balena l'accolga, l'incagli;
gli dia un esilio vero, un lungo errore
preghiera dell'Attore
Nulla finisce, o tutto, se tu folgore
lasci la nube.
Eugenio Montale
anima che risiede, che sotto ‘I gran sabbione
alleva la deessa, Macchia pulcherrima, tenera
ancora sia pure dentro a un logoro in un ingorgo
ultimo adunami gli idioti del viaggiare falsa
che sia situami in una febbre inonda tempesta
il fogliame o cedilo a un fuochista ad un'infanzia
mondana a chi se ne distragga travesti
la caduta sbattila in una vista che
su di me tradisca sùvvia esilii
congedo
Le fer des mots de guerre se dissipe
dans l'heureuse matière sans retour.
Yves Bonnefoy
così, dal Colmo, ormai, nuoce
il dimandar parenze, come
il Distrarsi. Lasciatemi
a questa strana circostanza. Qui
so, con il mio amore, e con chiunque
vi arrivi, che a questo inferno
minore, tutto è minore; medesimo
è solo il Carnevale. Ahi l'impostura
seguente che riduce che quagiuso ne mena
Note
1 Nella Vita Nuova Amore dice a Dante: “Voglio che tu mi dichi certe parole per rima, … come tu fosti suo tostamente dalla puerizia”.
2 E' Dio che più volte nella Bibbia "si attenda" sulla terra.
3 Beatrice appare a Dante "in su la sponda del carro sinistra".
4 Dante, lnf ., IV, 3.
5 Quando entra nel Nobile Castello del Limbo, Dante giunge “in prato di fresca verzura”, Inf., IV, 3.
6 Detto da Prospero in The Tempest di Shakespeare.
7 Romeo da Villanova (a cui si riferisce la citazione dalle Cronache del Villani della didascalia).
8 Nel dialetto leccese "brio, guizzo".
9 Sonetto per Igino Maniaco maestro dell'autore nella Grammatica.
10 Mi riferisco all'indovinello veronese: "Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba".
1[1] Mi riferisco al mito di Orione.
[1]2 Cito la canzonetta di Giacomo da Lentini "Meravigliosamente un amor mi distringe".
[1]3 In questa carta è rappresentato un uomo che cade testa in giù. Se dunque la carta esce al contrario l'uomo si configura sospeso ma eretto.
[1]4 Il logoro è l'esca del falco.
[1]5 La montagna e la sua "neve" (e le trappole che nasconde) dovrebbero funzionare come metafora della scrittura.
[1]6 Da La figlia di Iorio.
[1]7 Da La città morta.
[1]8 In alcuni dialetti meridionali "stutare" sta per "spegnere".
[1]9 Nei dialetti salentini "questo" e "quello". La dentale doppia di "quiddu" ha un suono cacuminale-cerebrale.
20 II falco.
2[1] In latino significa "polipo".
22 Alla apparizione della Madonna, in Paradiso, Dante individua Gabriele che le vola attorno, in cerchio, cantandole; ma a distanza.
23 L'impronta dell'octapus.
24 Riconosco l'errore morfologico e sintattico. Uso il latinismo per convenienza fonica. "Oscula" e "basia" significano "baci". II primo è latino corretto, il secondo è un barbarismo, impiegato però da Catullo che qui vorrei echeggiare: "da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera...". "Aguglia" lo uso per "aghi". Tradurrei: "Per baci per baci e per milioni d'aghi".
Per inferno minore: la “lava” la maschera il “folle volo”[25]
C’è un ‘luogo’ in cui la psiche cova pulsioni e, in tempi non legati allo scorrere dell’orologio, le nutre, più o meno a lungo; vivaio dell’essere in movimento, archetipica implosione, ‘notturna’ sinergia che sbriglia insensato conflitto. A un certo punto imprevedibilmente essa ‘detta’, esplode momenti d’assoluto, verticalità dell’intelligere. Nasce la scrittura, magma incandescente, lava dell’essere che, attraverso refrigerio, cerca aurora e forma, che a identità anela. Da implosione a esplosione: un lungo itinerario, che è di logos e di linguaggio; un lavoro duro per portare a luce, cioè alla ricerca di nuovo senso, i fantastici materiali del preconscio. E’ il poiein, in cui consiste la scrittura poetica, la confligente esperienza della organizzazione strutturale (formale), retorica, letteraria; il lungo selezionare e combinare del faber: le scelte tematiche semantiche metriche ritmiche fonologiche tipografiche che fortemente, unicamente, connotano il testo. Conflitto talvolta vincente, altra volta ‘mortificante’, tal altra sedato da momentaneo armistizio. Una morfologia pulsante, itinerante. Un viaggio-dilemma (in senso anche etimologico: linguistico) dal buio, ‘folle’, infernale magmatico del preconscio verso la chiarità, per quanto possibile, del senso-forma. Aurora di senso in cammino verso la luce. Svelamento dell’io, sua epifania. Metamorfosi dal semiotico del refuso, o informale, al semantico del disegno, principio metamorfico dell’opposizione, della resistenza. Che è, pur anche, un percorso assistito di razionalità. Ogni scrittura, alla fine (ma c’e mai una fine?) dell’atto del poiein, è un po’ luce un po’ ombra; più o meno. Sono ‘movimenti’ (dalla fase pretestuale a quella della formalizzazione) che abbiamo spesso dibattuto, anche nelle loro implicazioni retoriche e teoriche, nelle riunioni del “Laboratorio di poesia”, nelle tante manifestazioni pubbliche; e ne abbiamo scritto più volte ne “l’incantiere”, anche confrontandoci con poeti dell’ambito nazionale.
Claudia cominciò ad essere attratta da tale dibattere già nell’ultimo anno del Liceo; e continuò a coltivarlo, con contributi personali di riflessione, negli anni della frequentazione del nostro gruppo di lavoro. Era soprattutto attenta a una scrittura sperimentativa e potenzialmente, sin dall’inizio, avanguardistica, problematica complessa, molto intesa al valore ritmico e a quello fonico (e fonosimbolico) della parola. Con passione e con estro.
Del processo dal magma infernale alla luce-forma Claudia ha curato meno (in alcuni casi poco) il lavoro ‘freezerante’, per l’esuberanza della giovanissima età, per la brevità della sua esistenza terrena, per la inclinazione naturale a vivere la scrittura come pratica esistenziale, pulsione biologica, libido (nel senso psicoanalitico, e precisamente lacaniano); come profonda motivazione che nasce da un nonluogo, da una mancanza covata segretamente negli anni. Fino alla scissione dell’io e alla depressione. Un “travaso”, nebuloso d’infernalità, di letteratura e vita. Forse la poesia era per lei atto desiderante, risarcimento lenizione; una ricerca salvifica, poi rivelatasi impossibile.
Agiva in Claudia un viscerale bisogno a essere-dire, uscire dall’”inferno” del buio esistenziale attraverso la ricerca, e la donazione, dell’amore (infatti la sua mancanza trasversalizza tutta la produzione) e la riconquistata fede in Dio. Bisogno di luce, nella vita come nella poesia. Non è un caso che la prima sezione dell’inferno minore, intitolata il Matto (prosette), esalti, nella posizione privilegiata dell’epigrafe (non extratestuale bensì contestuale), la metafora fantasmatica, tolta da Moby Dick[26], del “bianco”-“bianchezza”-“biancore”. Essa è un topos che attraversa, pure fonosimbolicamente, oltre alla citata sezione in cui campeggiano le immagini ‘fantastiche’ del bianco-angelo-Beatrice che “fa divino”[27] e del bianco-“carta”-scrittura, anche, e diffusamente, il secondo (ancora inedito) poemetto, )e pagine del travaso. Il “biancore che spossa” de il Matto IV , al v. 7, riferito alla medioevale metafora scritturale dell’”indovinello veronese”, la “mia parola Bianca”[28] e le “pareti chiare”[29] lasciate a testamento spirituale nella premonizione della morte, nell’ultima strofe, sono (alcune fra le tante) spie significative di un travagliato bisogno di vivere-scrivere-essere, del desiderio di primitività innocenza infanzia, e di consistenza progetto, e di metafisica. Cioè di esperienza, vitale e scritturale; nonché di espansione metareale; in questo senso le “parole-Rotolo”[30] e le ruota “roto / lata” ne il Matto IV dell’ i. m., ai vv. 12-13, metaforizzano lo svolgersi della vita e della scrittura. E ne il Matto II, al v. 1, la “carta si fa tutta parlare”; cioè si propone come una scrittura-voce, altrove respiro gesto. Elementi che immettono nel carattere prosastico-recitativo, teatrante della poesia di Claudia.
Già Donato Valli, nel citato articolo[31] parlava di “controcanto a due voci” e di “partitura scenico-teatrale”[32] ascrivibili alle “fughe” di Saba (ma cosa hanno in comune, al di là dell’espediente ‘tecnico’, la poesia di Ruggeri e quella di Saba?!). E, più recentemente, Enzo Mansueto, nel “Corriere della Sera” del 2 gennaio 2005, ha confermato una “teatralizzazione manieristica, performance vocale sovraccarica, artificiata”. Vediamo con attenzione. L’uso delle “prosette”, che produce la riduzione, o l’abolizione, dei confini tradizionali tra poesia e prosa, l’”interludio”, le “tragedie”, i richiami a luoghi e figure onirico-simboliche[33], le dediche degli eserga a Samuel Beckett[34] e a Carmelo Bene, le figure dell’”Attore” e del “giullare” e la tecnica del dialogo orientano verso una tessitura scritturale recitativa. Di essa altri indizi testuali sono l’anafora, semantica e fonica; la ricorrenza di spazi, pause della recitazione, intervalli del monologare; la frequenza, tra le parole, di un punto, con ripresa in minuscola: sosta della voce, frenata del ritmo; l’alternarsi di tondi e corsivi; l’uso della parentesi con funzione di esaltazione semantica (come è in Petrarca, Mallarmé e, tra i contemporanei, per esempio Mariella Bettarini); o la presenza di parentesi non chiuse, come sipario-scena che racchiude ed evidenzia, o come stacco del dialogare; i punti sospensivi che infinitano il dicibile-vivibile in un eccetera che impedisce la conclusione[35]. Dato il carattere tonematico del verso, è il ritmo la ‘metrica’ del testo; della parola fattasi voce e scena e gesto. Questi elementi[36] erano esaltati, e come completati, nella modulazione della voce durante le pubbliche letture, nonché nelle vibrazioni tonali. Credo che, se fosse vissuta ancora, Claudia avrebbe scritto e fatto teatro.
Un principio di poetica pertinente alla scrittura scenico-teatrale è l’uso del verso lungo. Il poemetto qui pubblicato presenta una struttura versale diffusamente esuberante la canonica misura endecasillabica, contenendo versi che vanno dal quinario alle venti sillabe; l’esito estremo è la dilatazione del verso poetico fino al rigo prosastico, come è in Tragedie, sogni e misteri II e nel lamento in forma di Elenco lografico (e così accade per una delle due voci dialoganti in molti luoghi delle )e pagine del travaso). Eppure nell’inferno minore compaiono, tanto frequentemente da vanificare la citazione, sprazzi, talvolta significativi, di misure ed emistichi della metrica tradizionale[37]; molti i versi che contengono soluzioni di metra canonici; può bastare una esemplificazione (il lettore metricamente educato troverà diffusa materia con cui esercitare l’orecchio): il primo verso de il Matto IV (ode agli inizi) (“non sòn non sòn castèlli ma quì ma quì ti spècchia”) è costituito da due settenari piani a ritmo ‘cardiaco’ o ‘musicale’, con l’alternarsi regolare di atone e toniche, in un ritmo giambico ascendente tipico della commedia e della tragedia. E si guardino i molti possibili esiti metrici, e ritmici, nella prosa poetica lamento in forma di Elenco lografico: una ricca tramatura di emistichi di misura classica, con assonanze consonanze fonie. Scrittura-voce teatrante, dunque. Molti i possibili rinvii (anche inter)testuali; due, in questo poemetto, sono il “Carnevale abominevole”[38], alla cui tortura è condannato (come in un girone da inferno dantesco) il “Matto”; e la “strana circostanza” del congedo: “a questo inferno / minore, tutto è minore; medesimo / è solo il Carnevale” (vv. 6-8). La scrittura teatrante, la vita come carnevale; la proiezione del soggetto nel ‘ruolo’ dell’attore.
E’ il grande principio genetico poetante della maschera, strumento per eccellenza della fictio. La maschera come sottrazione d’esistenza dell’io o suo camuffamento e, insieme, metamorfosi di quell’io negli io dei ruoli possibili. Per D. Valli sarebbe la maschera “l’unica possibile risposta alla crisi del soggetto e della società”[39], ascrivibile, per comune tendenza alla dissacrazione e al sarcasmo, a Gian Pietro Lucini. La maschera è identità semiotica e, come tale, entità neutra, pura potenzialità di volti, figure ed essenze; e perciò mancanza e, nel contempo, ricerca, di una identità; essa è i tanti volti e ruoli possibili in cui l’io-volto possa consistere; deconvenziona la giostra di ruoli da cui uscire a una chiarità di forma in “Figura”, oltre l’’informale’ della “Macchia”[40]. Superfluo citare i mille volti-voci-figure tolti dai plurimi autori, che costituivano il ricco armamentario letterario, talvolta caoticamente riportato e manipolato da Claudia. Sono proiezioni paure desideri incarnati, attraverso la scrittura, nella scena della rappresentazione di un dramma esistenziale con l’epilogo della tragedia. L’io, nel farsi personaggio scenico, forse anelava a una identità di persona, poi risultata impossibile. Anche a un (umanissimo) bisogno consolatorio-lenitivo credo che ‘servisse’ la scrittura per Claudia. E forse era una possibilità di, pure parziale, distanziamento (raffreddamento) della scrittura ‘lavica ‘cardiaca’ pulsionale.
L’altra (ben più significativa e vitale) tecnica di filtro (sempre parzialmente) selettivo, ‘freezerante’ è la letteratura. La poesia di Claudia è evidentemente iperletteraria.
Franco Fortini, al quale l’inferno minore è dedicato, individuato da lei come “maestro”, nella citata lettera[41], pur apprezzando il lavoro poetico, parla di “sovraccarico di collane e gioielli e anelli”[42], di “un ‘sistema’ letterario così fortemente organizzato e tirannico”[43], di “corridoio di specchi delizioso”[44] e di “fiducia nella ‘impunità’ della parola letteraria qua talis”[45]; di qui i consigli rivoltile: “uscire pro tempore verso la prosa più banale e convenzionale prima di tornare al verso” e “rovesciare quanti modelli porta in sé e fare piazza pulita”[46]. Certo, un giudizio non incoraggiante per una giovane poetessa che forse dall’actoritas del critico e poeta si aspettava comprensione e lode; e magari aiuto per una dignitosa pubblicazione in una casa editrice nazionale, un’aspirazione di tutti noi. Claudia da Fortini fu delusa; lo confidò a me e a un amico privatamente. Reagì. Subito, a caldo, ne La bifora[47] scrisse: “C’è qualcosa di troppo / letterario (…). // Noi non abbiamo mai / paura della lava. / Che anzi quanto più / è stata fatta rovente // di luce e quanto meno / nera diventa la voce / dei vulcani, tantissime / e leggere le vele dei limoni // e delle nespole ecco son pronte / ad esser rivedute in una bifora / come cose di lei, catturate vive”. Il bellissimo testo, interpretato da D. Valli nel citato articolo su “l’incantiere”[48], propone come fondamentale (genetico sorgivo aurorale) principio della scrittura della poetessa la visceralità, cioè l’adesione totale e ‘verticale’ dell’io al mondo da raffigurare formalizzare scenografare; il simbolo della “lava” indica l’ustione dell’io, un calore da portare a freddo anche attraverso le mutuazioni gli echi i rimandi letterari. Il mondo organico precario dei “limoni” e delle “nespole” potrà essere ‘riveduto’, come rivitalizzato, assunto a vita eterna, dall’arte. Un (implicitamente) analogo ruolo di eternizzazione sarebbe assegnato alla poesia, in una visione estetica romantica (non quella del Neoclassicismo bensì del Foscolo sturmeriano) prossima alla poetica della Ruggeri. La “bifora” è un riferimento interessante, se Claudia si riferisce, come è verosimile, a “una delle tante porte e finestre dell’architettura barocca di Lecce” suggerite da Valli[49]. E, certo, il riferimento al barocco, connotato dal canone estetico dell’orpello e dell’eccesso, è ipotesi affascinante perché sarebbe un’ulteriore conferma del giudizio fortiniano dell’ingioiellamento letterario della poesia di Claudia. Ma la “bifora” è una porta o finestra in cui il vano è diviso, sulla fronte esterna, in due luci uguali mediante un piedritto centrale (in genere una colonna); ed è costruzione tipica della architettura medioevale e quattrocentesca. Potrebbe, per ciò, essa metaforizzare l’aspirazione (poi, purtroppo, mancata) della poetessa alla realizzazione, nella vita come nella scrittura, del principio estetico dell’armonia. Dal groviglio dell’essere-dire a una luminosa utopica armonia. La scrittura ha spesso anche una prospettiva, e un’origine, di libido, di vocatività
L’iperletterarietà viene confermata anche da Valli, il quale, attratto dal giudizio di Fortini, intitola il suo saggio C. R., o dell’impunità della parola[50]. Egli, pur riconoscendo all’apparato letterario ripreso dalla poetessa un’“energia metamorfica”[51], parla di “totale inerzialità dei contenuti logici”[52], di “assenza di ogni responsabilità di significati coerenti”[53], di “letterarietà marcatamente artificiale”[54], di “dissociazione tra costruzione logico-sintattica e senso”[55], di “bigiotteria letteraria”[56].
Altri esegeti hanno richiamato l’iperletterarietà della poesia di Claudia.
Enzo Mansueto, nel citato articolo sul “Corriere della Sera” del 2 gennaio 2005, scrive, pure nel contesto di generale apprezzamento della scrittura della poetessa, di un “dissonante mix di cultura aulica avidamente ingurgitata e acerba avventatezza adolescente”.
E Gregorio Scalise, in un articolato intervento, ancora inedito (in possesso della madre di Claudia, Maria Teresa Del Zingaro), che è di valutazione positiva e di condivisione delle qualità inventive ed espressive della ragazza, parla di sperimentazione e oscurità, interpretando “gli orpelli eccessivi di cui parla la lettera di Fortini” come “materiale inerte da verificare”[57].
Mario Desiati, nel pezzo su “la Repubblica”, in cui annuncia uno speciale dedicato a Claudia nei “Nuovi Argomenti”, e poi nel suo saggio uscito nella rivista mondadoriana, parla di una lingua “di arrovellamenti lessicali, parole trobadoriche, riferimenti colti e popolari, tradizione italiana, orfismo, un simbolismo esasperato”[58]; e, ancora, di “una poesia colma di citazioni e rimandi, “aulika” fatta di amorevole saccheggio, poesia fatta di lava, sangue e dolore”[59]; e poi afferma che l’inferno minore è “tra i più folgoranti libri di poesia italiana della nuova generazione, un terremoto se si pensa alle poesie aeree, mummificate della new wave poetica di questi tempi”[60]. Un apprezzamento notevole, lusinghero.
E gradisco anche che Desiati abbia riportato[61] il giudizio di Michelangelo Zizzi, il nostro poeta e ricercatore universitario, il quale parla della mescidiazione, nel linguaggio di Claudia, dell’”impasto provenzale con quello italiano” che darebbe “risultati imprevedibili” e della sua “carica espressiva” come “quasi un dono della divinazione e del magismo che si trasferiva nel mito”.
Egli ha citato anche il contributo di un altro nostro amico salentino, Antonio Errico, giornalista poeta e narratore, il quale entra con intelligenza nella questione, interpretando la letterarietà di Claudia come “un vorticare di echi, forse anche persino come atto d’amore di un intenzionale plagio”[62].
Anche in considerazione di questi contributi, vorrei reimpostare la fondamentale questione. La iperletterarietà nella scrittura di Claudia si manifesta, con evidente esibizione, in molti luoghi dell’inferno minore; già gli eserga recano molti autori assunti come esemplari: Melville Dante la Bibbia Villani Shakespeare Ciro di Pers G. da Lentini Neruda D’Annunzio Warren Bene Bodini Bonnefoy Beckett Catullo Montale. Però le )e pagine del travaso custodiscono il bagaglio letterario in forme e misure meno evidenti, come se la scrittura, fattasi più consapevole con l’esercizio, avesse con qualche successo assorbito metabolizzato le lusinghe della tradizione letteraria[63]. Essa è presente, tuttavia, nella complessità stratificata della falda lessicale.
C’è poi una letterarietà in procedimenti e stilemi che possiamo ascrivere a riusciti tentativi di innovazione personale, documentata nella disposizione creativa ed espressiva della struttura e dell’ingombro testuale, nell’incessante composizione-scomposizione degli assi sintagmatico e paradigmatico, nel linguaggio polisemico, nel lessico ‘cardiaco’, nello shock semantico derivante dall’accostamento di diversi registri[64], nell’uso di calembours, nell’impiego di una sintassi illogica, pre- o postlinguistica perché programmaticamente deviativa dell’Ordine e del principio di Autorità della langue, nell’intento di espressivizzare e dinamizzare alcuni elementi ‘minori’ della comunicazione[65], nell’impiego di punti che sospendono o sostituiscono il discorso-logos (vera e propria potenzialità semantica del silenzio), nella ‘anarchia’ di punti collocati tra due parole (con ripresa in minuscola) sentiti come pause ritmiche della battuta dirompenti la linearità logica, nella non chiusura di alcune parentesi tonde che evidenziano (come mettendolo in scena) il sintagma; nella privazione della funzione esplicativa dei due punti (che perciò sono da considerarsi ‘flosci’), nell’assenza del verbo la quale postula l’impossibilità della formulazione del giudizio, quasi il rinvio, non solo temporale, di una conclusione.
E soprattutto appare un formidabile strumento di personale espressivizzazione il plurilinguismo, l’accostamento di lessemi tolti da più lingue (latino dialetto salentino inglese francese e tedesco; Claudia non conosceva il greco). Tale materiale, per niente inerte (come è parso ad alcuni critici), pullula di trasgressione energia e sperimentalità. Anche perché spesso si associa (un bel pastiche di sapore gaddiano!) al conflitto dei registri, all’epilinguismo radicale e a un uso ossimorico della verbalità. Quella mescidiazione talvolta appare caotica per un certo eccesso di sperimentalità (a tratti) neoavanguardistica, dilatata fino agli esiti dell’oscurità (agivano influssi di un certo ermetismo) e del nonsense, segno di un mancato dominio della pulsione-scrittura, che era poi il riverbero speculare della difficoltà della giovane a ‘dominare’ la vita (l’epilogo del suicidio docet). E’ una vocazione una necessità una ‘chiamata’, in qualche misura una scelta. Che può ‘piacere’ o no. Che, certo, non poteva essere condivisa dal Fortini: la ragazza aveva sbagliato “maestro”; né dalla critica accademica (Valli è stato docente di Claudia all’università). Un critico dovrebbe sforzarsi di entrare con pazienza intelligenza, e senza preconcetti ideologici o metodologici, nel mondo interiore dei testi, specie se sono di un giovane, ulteriormente se di un giovane psichicamente depresso. L’autore non dovrebbe essere ‘ridotto’ alla specula dell’ermeneuta, bensì il critico dovrebbe avvicinarsi il più possibile all’anima e al linguaggio dell’autore. Una gratificazione o un segno di apprezzamento certamente incoraggia i tentativi di scrittura di un giovane, che a volte comportano dolore e sangue. Tra la poesia al sorbetto o al girarrosto, al freezer o al forno (l’ironia è di Montale) Claudia ha praticato una scrittura da forno: viscerale drammatica invasiva, ben essenzializzata nella metafora, abbiamo visto, della “lava” ne La bifora. Cerchiamo di capire perché.
La scrittura ‘urente’, d’anima e di corpo, era riccamente nutrita di una cultura letteraria che la poetessa sublimava mitizzava scenografava, in cui l’ossimoro si esaustivizzava nella contraddizione esistenziale di un io patente che viveva il rapporto col mondo in modo dissociato; un io frantumato cardiobattente; e autoreferenziato autogenetico fino all’autocontemplazione e all’iografismo. Bisogno di amore certezze e conferme, di successo aveva la giovane Claudia perché non riusciva a instaurare un rapporto armonico col mondo. Di quel bisogno chi la conosceva sapeva. Il suo conflitto d’esistenza si riverberava nell’uso di un linguaggio ‘deviante’ ‘divertente’ dilemmatico (in senso anche etimologico).
Nel tentativo di capire bene, mi soccorre un giudizio (un vero principio di rifondazione ermeneutica) di Gianfranco Contini, il quale così motivava l’extranormatività del linguaggio pascoliano[66]: “Quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ontologicamente molto ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. Le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto fra l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. E’ caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo romanticismo”[67]. Ho citato a lungo perché ogni parola di Contini, riferibile in generale alla crisi del Decadentismo (né l’età contemporanea è meno problematica di quella decadente, anzi!), è molto pertinente alle ragioni intime dell’innovativo scardinante linguaggio elaborato da Claudia. Contini ha esercitato, con contributi originali fondamentali, la critica stilistica.
Ora mi soccorrerà, sempre per capire bene, un’altra scienza, la psicoanalisi, di cui illustre critico è Stefano Agosti. Nell’”Introduzione” all’edizione delle Poesie di Andrea Zanzotto[68] egli dedica un intero paragrafo a “La funzione della letterarietà”[69] nel poeta di Pieve di Soligo; anche in lui l’apparato delle citazioni, dei riferimenti rimandi calchi letterari è enorme. Agosti quella ipotestualità non giudica negativamente ma intende come “forma del sentimento”[70], come “modello –interiore o desunto- d’un dire sottratto al tempo, forma accertata e durevole da opporre agli eventi ambigui e precari della storia”[71]; e ancora: una “misura dell’autentico e come zona di resistenza alla storia”[72]. Anche queste parole, tutte, si confanno quale strumento ermeneutico per entrare nei testi di Claudia. E di più. Agosti, in una prospettiva di teoria del linguaggio, parla della celebre “arbitrarietà” del segno linguistico, elaborata da Ferdinand de Saussure, e dell’altrettanto noto “significante”, concetto introdotto da Jacque Lacan nella psicoanalisi, concludendo che il “significante” (la vecchia “forma” di crociata memoria, la lingua lo stile il linguaggio) non solo organizza ma veramente fonda l’esperienza, sia sul piano normale della percezione, sia su quello patologico del trauma”[73]. Il sussidio interpretativo è per noi, credo, utile per capire meglio le scelte di esecuzione scritturale di Claudia. La disgregazione dell’io (Zanzotto è stato per anni in cura psicoanalitica) ha prodotto nel suo linguaggio le plurime operazioni di devianza linguistica che Agosti analizza (e che anch’io ho studiato)[74]. In Claudia quella disgregazione ha provocato analoghi esempi di deviazione dalla norma. Vista da questa prospettiva, la letterarietà per la scrittrice era, dunque, bisogno di certezze, di protezione e riparo. Forse, allora, la letteratura le ‘serviva’, oltre che come conforto o sicurezza, anche come confronto e filtro. La memoria-letteratura, in quanto strumento di rifunzionalizzazione (e di ri-finzione) dei reperti tràditi, poteva fungere da raffreddamento, pure molto parziale, della “lava”. Memoria letteraria metamorfica ‘divertente’ stravagante auto-eterogenetica che copiava, massacrava gli autori: nell’Interludio dell’inferno minore, nella prosa poetica Tragedie, sogni e misteri II, il cui l’esergo riprende parole da La città morta di D’Annunzio, Ruggeri scrive: “(prestami la parola che si addica: aulika; che sia forte o poeta che ti copio come capita (…) per (…) spaginare così a caso dannunzio tragico per rubargli il rigo esatto la parola così per massacrarla con due dita una buona volta IMPARARE”; memoria che assorbiva i modelli e li metamorfizzava in figure; memoria proiettiva che creava i tanti mitologemi e le molte personificazioni mitopoietiche, gli uni e le altre diffusi nel testo attraverso parole con l’iniziale maiuscola (tra i tanti riporto la dantesca “Beatrice”, l’”Ordine”, l’”Evidenza”, il “Carro” e la “Figura” ne il Matto I –ma sono disseminati anche nel Travaso-; la “Tempesta Ordinata” e il “Miglior Tradito” ne il Matto IV; il “Regno” e la “Città” ne il Matto capovolto; il “Trucco” e la “Macchia” nella lettera al Matto…; l’”Assassino” ne in limine; il “dio Contrasto”, l’”Uguale” e il “Dimenticatore” nel lamento dello Straniero I; la “Distrazione” e il “Divoratore” nel lamento dello Straniero II; L’”Artificiere” e l’”Avverso” –metafora aggressiva, contrastiva della figura ornitologica del falco- nel lamento dell’Uccello colpito; il “Cattivo” e la “Balena” ne la pena dell’Attore; la “Macchia pulcherrima” nella preghiera dell’Attore; e, infine, il “Colmo” nel congedo: tante figurazioni del contrasto bene-male e del conflitto tra essere e dovere essere, tra libertà e coazione-norma, tra langue e parole, sistema e invenzione individuale. Metamorfosi proiettive di un io che, assorbiti i modelli, li rifiguralizza, attribuisce loro nuova funzione-finzione[75]. Ombre paure sogni figure scene, simboli, fisici e metafisici, tra cui giganteggiano il “Matto”, l’”Amante” e l’”Attore”, proiezioni figurali di quel diario(zibaldone) d’amore che è l’inferno (della scrittura e dell’esistenza). Quando il rapporto con il mondo non è sereno rassicurante armonico razionale, l’io si destabilizza diventa un cosmo ribollente di pathos e si fa psichicamente instabile. Così il linguaggio, che si frange devia trasgredisce, esule, clandestino, si dà alla macchia; resiste. Per questo la scrittura di Claudia ha prediletto il prelogico il pre-postlinguistico il semiotico la verticalità ‘indicente’ del segno-sogno la violazione dell’ordine costituito la pulsionalità del ritmo e del suono lo slittamento di senso il transfert semantico, perché essa è il prodotto di una vita sentita come soglia bilico precarietà corda clownesca straniero a sé, luogo onirico.
Scrittura di una crisi, individuale e sociale. Dietro, e sotto, di essa agisce la crisi, letteraria e civile, degli Anni Ottanta, che è evidentemente interculturale polidisciplinare trasversale. Per ciò che compete all’ambito letterario, segnalo l’inconciliabilità tra parola e cosa, la ‘poetica’, di ascendenza heideggeriana, del “non ancora” e del “non più” e il gioco, per molti autori drammatico, di specchi tra poesia e vita. Da ciò derivano il polimorfismo le deviazioni impresse al significante la perdita del linguaggio come funzione-langue la disarticolazione del reale e della lingua che quel reale cerca di figurare, il poliglottismo la polifania la poetica del corpo-voce il visionario il sotterraneo il ‘notturno’ la frattura tra io e non-io l’interpretazione del mondo come caos-inferno l’inerzialità semantica l’oralità la teatralizzazione. E tanto altro. Referenti di Claudia sono la sovversività e la destrutturazione ludica (sentita, riletta come ludico-drammatica) di Cesare Viviani, la narratività oralità quotidianità minimalità di Vittorio Sereni Giovanni Roboni Giancarlo Majorino Franco Loi, l’oralità ‘scenografica’ e il pulsare ritmo-biologico di Antonio Porta, le deformazioni prefissali, fino all’eccitazione fonica e ritmofonosimbolica, di certo Giudici, il ‘notturno’ e ‘barocco’ o il manierismo egocentrico dell’io ‘dissipato’ di Bellezza, il monologare ossessivo, traballante tra ‘vuoto’ e ‘niente’[76] di Patrizia Valduga, la poetica della pluralità rigenerazione e svelamento nonché l’asistematicità ‘astigmatica’ o il senso da deriva di Yves Bonnefoy[77], l’autoreferenzialità semiotica l’annominatio il “ricchissimo nihil” il nominalismo l’assenza la perdita la regressione di Andrea Zanzotto, l’abisso con risalita di H. Melville. Un pre-testo fondamentale per Claudia è Edoardo Sanguineti, soprattutto il Purgatorio de l’Inferno, tra informalità figuralità e verbalità sconfinanti: il metalinguismo il ‘travaso’ metaforico-metonimico la moltiplicazione fonico-semantica la plurilalia teatralizzante di corpovocerespirogestosuono la citazione l’insubordinazione del ritmo allo schema metrico temuto come coattivo. E’ un coacervo intertestuale che costituisce l’ipotestualità e la pre-testualità della poesia di Claudia. Certo, per ogni autore bisognerebbe indicare (non è questo il luogo) attrazioni omologie differenze. Sono testi che Claudia conosceva (e sentiva suoi) perché ne parlavamo. Essi costituiscono alcuni esiti esemplari della crisi del Decadentismo novecentesco, già denunciati, tra gli altri, da Montale. E negli anni di Claudia la situazione è peggiorata. Quello in cui ella è vissuta è stato tempo del vuoto, dell’artificio mascherato, della parola museruolata; tempo indifferenziato tramortente, in cui il reale è tradotto-mistificato nella simulazione sistematica della fictio massmediale. Tempo del frammento, della maschera; del “nessuno” che pirandellianamente sono i “centomila”, non potendo, noi, essere manzonianamente “uni”. Tempo dell’identità negata. Ci si difende come è possibile. I più sensibili soffrono molto. A volte le difese non bastano; così alcuni cadono in una depressione leggera. Altri, non reggendo all’inferno del vivere, soccombono. Vite spezzate, come quelle dei salentini Stefano Coppola e Salvatore Toma (la morte di Antonio Verri è stata causata, invece, da un terribile incidente stradale) o quelle di Remo Pagnanelli Giuseppe Piccoli e Ferruccio Benzoni. E ci sono quelle dell’ambito nazionale. E non sono da dimenticare i suicidi del silenzio, di quelli che smettono di scrivere (evito le tante, note, esemplificazioni).
Non voglio comparare la giovane leccese col poeta romagnolo o con quello, altissimo, di Pieve di Soligo (uno dei maestri per molti della mia generazione e per me stesso), o con nessun altro dei poeti qui ricordati. Né esibire giustificazionismi, di natura psicologica o sociologica. Chiedo soltanto: la crisi di Claudia era un fatto che possiamo superficialmente liquidare come solo suo? La ragazza aveva tare biologiche, era un essere mal formato, il pezzo difettoso da buttare? La società la politica la famiglia la scuola l’università l’autorità il maschilismo non entrano necessariamente nella debolezza e nella scissione di quell’io dolente? Sì, invece, perché spesso Claudia mi confidava di avere sofferto in ognuno di quegli ambiti (su ognuno avrei da discorrere) e di scrivere come per liberarsi da un grumo di dolore. Alla scrittura la incitavo spesso dandole fiducia facendole coraggio. Ma io non sono Fortini o Valli; e lei, invece, cercava legittimazioni autorevoli. Tutti abbiamo colpa quando una ragazza scrive di sé: “-ero la ‘nulla’ / degli alfabeti in cifre, il segno / che non scatta”[78]. Tutti. Come poteva Claudia scrivere normalmente? Perché non capire né condividere le sue scelte linguistiche e stilistiche, compresa la rassicurante letterarietà? Sensibilissima, la ragazza cercava amore e conferme di sé. Le risposte della società-autorità sono state di incomprensione rifiuto chiusura giudizio negativo, del tutto frustranti. Altro dolore. Perciò lei chiedeva sicurezza ai tanti modelli letterari e cercava maestri viventi (F. Fortini, dedicatario dell’inferno minore; e A. Colombo, suo confidente per anni; se ne veda il bell’articolo significativamente intitolato Interiorità creatività solitudine: un profilo morale[79]; esiste una affettuosa epistola di Claudia, datata il 15. 10. ‘88, Una lettera ad Arrigo Colombo[80]. E non è un caso che lei cercasse anche in amore persone di età ben maggiore della sua. Nella vita nella letteratura e nell’amore cercava il padre; poi, alla fine, il Padre. Con un’agghiacciante premonizione della morte, Claudia scrive: “sono salita in aria”[81]: l’ultimo viaggio prima del “follo volo”, come a ricongiungersi col Padre, simbolo della bontà e dell’Amore che alla giovane erano mancati. Ci sono altri segnali della sua drammaticamente lucida decisione. Nell’appena citato poemetto[82] la ragazza scrive: “lascio pareti chiare / (…) mi tolgo / dal dettaglio di questi / ultimi versi; gira / e rigira tutto il barbaglio, / tutta la verità sta qua”: concetti e lessico implicitamente contengono come una drammatica distanza dell’io dal mondo, la coscienza di una inappartenenza di sé al mondo-”dettaglio”-“barbaglio”. Altro segnale premonitore è in queste parole di Una lettera ad Arrigo Colombo, del 1988[83]: “Napoli era lontana pure mi suicidavo nei suoi LUOGHI e il verso ne ebbe un’agonia”, a conferma del rapporto di drammatica identità tra vita e letteratura. Il più significativo rimane questo: “e volli / Il “folle volo” cieca sicura tuta / Volli la fine dell’era delle streghe volli // Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suo manto, / Poggiò per sempre il Libro”[84]. Ecco la decisione della definitiva rinuncia alla vita: la morte-“volo” è “cieca” ma “sicura tuta” (l’indumento metaforizza un bisogno di difesa sicurezza stabilità consistenza); Claudia poi dice di volere smettere le proiezioni fantastiche del suo mondo pullulante delle “streghe” che animavano le scenografie del suo vivere-scrivere; e, infine, alla ricerca della luce metafisica, rinuncia alla vita, e alla scrittura: getta “gli arnesi / Di memoria”, gli apparati letterari di cui si era nutrita e ammantata (grande difesa!), e, libera di quel “manto”, nella sua estrema essenziale nudità d’anima, definitivamente lascia “il Libro”. Scrive Mario Desiati: “tornò nella sua casa leccese, ripose i suoi abiti sulla sedia nello stesso ordine che alludeva la sua poesia e si lanciò nel vuoto”[85]. Tanti indizi della sua morte, dunque. Da nessuno raccolti!
Scrittura della vita-in-morte, che oscilla tra un iografismo egocentrico e alquanto autocelebrativo (una sorta di io-visceralità mitopoietizzata dall’ego come sacerdos sui) e una memoria, un po’ petrarchescamente e alquanto leopardianamente, vitale di riattualizzazioni genetiche metamorfizzanti. E’ una scelta di poetica romantica, centrata sul dualismo (io)vita-morte, di ascendenza orfico-‘mediterranea’. Non è certo un caso che tutto l’inferno minore sia essenzializzabile (è superfluo esibire le plurime ricorrenze testuali) nel fonosimbolismo del diffusissimo nesso bifonematico / IO /, macrosema archetipico d’una libido vocativa autogenetica espansa fino al narcisismo, soccorso e come specularmene proiettato nell’altro bifonema / OR /, macrosema simbolico della morte. Io e morte, io-morte, io uguale morte.
L’ossimoro cecità vs chiarore potrebbe simbolicamente sintetizzare la vita, e la scrittura, di Claudia. Il chiarore, lessema chiave topico nei due poemetti, è rappresentato nell’inferno minore come la metafora del sorgere della scrittura negli “alba pratalia” dell’”indovinello veronese”[86]: “il biancore il biancore che spossa / la ruota in volgare che sfonda”[87]. Ora la pagina della sua vita rimarrà bianca. La ruota, alludente al “Rotolo”, il pariro (o pergamena) delle civiltà antiche, orientali e occidentali, che girava intorno a un piccolo cilindro, ora non scorre più. La pagina rimarrà bianca, la ruota ferma. Alla poetessa salentino resta ora da incidere la “Bianca”, metafisica, pagina agognata. Ora Claudia e la sua poesia possono ri-vivere solo negli scritti ancora inediti[88] e nel pensiero, nonché nelle scritture, dei suoi lettori e interpreti; che auguro molti e molti, e più umilmente attenti al singolare polisemico messaggio di un’anima dolente che ‘vive’ nell’intemporale, oltre il “dettaglio”[89] d’una mondanità sentita come “barbaglio”[90].
Novembre 1996, gennaio-febbraio 2005.
[25] Il presente saggio è un rifacimento radicale di quello uscito, col medesimo titolo, ne “l’incantiere”, n. 39-40, dic. ’96, pp. 14 -17.
[26] con Herman Melville Claudia condivide una pascoliana regressione come auto(etero)analisi e la discesa dell’io viator agli inferi mostri della psiche per riemergere a luce e purificarsi.
[27] il Matto I, v. 15.
[28] nel travaso, a pagina 3 del dattiloscritto.
[29] ivi, p. 12.
[30] ivi, p. 9.
[31] “l’incantiere”, n. 39-40, dic.1996.
[32] ivi, le due citazioni alla p. 18.
[33] alle “Regine”, all’”Ordine”, alle “Distrazioni” e alle “Tempeste”, al “Toro”, al “Contrasto” e l’”Uguale”, al “Dimenticatore”, al “Divoratore”, all’”Evidenza”, all’”Attore”, all’”Artificiere” e all’”Avverso”, al “Colmo”, al “Carnevale”
[34] nel 1987 il gruppo dei poeti del “Laboratorio” ha ricercato sul “tema dell’attesa” ( lavoravamo ogni anno a un tema), che era stato proposto proprio da Claudia, la quale in quel tempo leggeva Aspettando Godot; i testi da noi prodotti su quel tema furono pubblicati ne “l’incantiere” , n. 0, giugno 1987; di Claudia uscì Per una regia (Aspettando Gogot (p. 6).
[35] nelle )e pagine del travaso è, in questo senso, significativa l’alternanza ‘dialogante’ tra una prosa fortemente poetica, scritta in grassetto, e una poesia dal verso lungo; alcuni passaggi tra stanza e stanza, nella prima parte del poemetto (da p. 1 a p. 12 del dattiloscritto), sono introdotti da apici doppi seguiti da tre punti, come a indicare una citazione o impossibile o da farsi o lasciata al lettore; tale espediente ricorre talvolta nel corpo di una stanza.
[36] e altri, come l’accelerazione e la decelerazione del ritmo, il ‘movimento’ del cursus metrico legato al conflitto della disposizione ‘cardiaca’ degli ictus; e ancora: la gestualità il movimento corporeo le mutanti espressioni del viso.
[37] forse qualcosa, dei discorsi nei nostri serali incontri domestici, era rimasto in Claudia. L’attenzione alla metrica è documentata anche nel titolo integrale del secondo poemetto: )e pagine del travaso. Qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo.
[38] lettera al Matto…, v. 20.
[39] art. cit., p. 20.
[40] i due lessemi sono nella lettera al Matto…, rispettivamente ai vv. 19 e 32.
[41] “l’incantiere”, n. 39-40, dic. 1996, pp. 13-14.
[42] ivi, p. 13.
[43] ibidem.
[44] ivi, p. 14.
[45] ibidem.
[46] ibidem.
[47] “l’incantiere”, n. 47-48, dic. ’99, p. 3.
[48] n. 39-40, dic. ’96, pp. 18-21.
[49] ivi, p. 21.
[50] ivi, pagine citate.
[51] ivi, p. 20.
[52] ivi, p. 19.
[53] ibidem.
[54] ibidem.
[55] ibidem.
[56] ibidem.
[57] p.3 del dattiloscritto.
[58] La ragazza dal cappello rosso, cit., p. 250.
[59] ivi, p. 257.
[60] ibidem.
[61] ivi, p. 254.
[62] ivi, p. 255; corsivo mio.
[63] Sarà interessante leggere attentamente , una volta pubblicati, gli inediti per un’eventuale conferma ulteriore della tendenza a una decantazione-filtraggio delle memorie o mutuazioni letterarie.
[64] quello colto (e aulico arcaico trobadorico delle origini della letteratura fino a Dante) e l’altro basso, quotidiano, con mescidiazioni e ibridazioni (si pensi ai neologismi, ottenuti attraverso una ‘divertente’ manipolazione di calchi prefissali).
[65] esempi (pure non esaustivi) sono l’avverbio e l’aggettivo, spesso incaricati della funzione comunicativa nominativa.
[66] per esempio, il suo pre- e postgrammaticalismo il fonosimbolismo l’uso semantico dell’onomatopea la semantizzazione di materiali linguistici inerti.
[67] G. C., Il linguaggio di Pascoli, in G. Pascoli, Poesie, Milano, Mondadori 1968, p. LXXI.
[68] uscita, a sua cura, da A. Mondadori, Milano 1973; l’introduzione è alle pagine 7-25. Due suoi saggi sono comparsi poi nell’opera omnia di A. Z., Le poesie e prose scelte, a c. di S. Dal Bianco e F. Bandini, “I Meridiani” Mondadori, Milano 1999.
[69] Op. cit:, pp. 8-10.
[70] ivi, p. 8.
[71] ivi, p. 9.
[72] ibidem.
[73] ivi, p. 11; corsivi miei.
[74] si veda il mio saggio Analisi testuale di Al mondo di Andrea Zanzotto: l’io-mondo e il linguaggio, nei “Quaderni” del Liceo Scientifico “C. De Giorgi”, Edizioni Publigrafic, Lecce 2003, pp. 77-94.
[75] sul rapporto “funzione”-“finzione”, limitatamente alle (già citate) poesie di Claudia Caducei, Minos, La bifora”, si veda il mio intervento intitolato Per C. R.: la memoria-manque lo specchio la lava ne “l’incantiere”, n. 47-48, dic. ’99, pp. 5-7.
[76] anche Claudia era la “nulla”, come dirò tra breve.
[77] gli è dedicato uno degli eserga.
[78] sono i versi 1-3 de )e pagine del travaso, a p. 1 del dattiloscritto.
[79] nel n. 39-40 de “l’incantiere”, pp. 21-23.
[80] ivi, n. 47-48, pp. 4-5.
[81] ne )e pagine del travaso, v. 6, p. 1 del dattiloscritto.
[82] ivi, p. 12.
[83] ne “l’incantiere”, n. 47-48, dic. ’99, p. 4.
[84] nella poesia senza titolo dedicata “a Prospero”, ne “l’incantiere”, n. 35-36, dic.1995, p. 22.
[85] nel citato saggio nei “Nuovi Argomenti”, p. 251.
[86] riportato nella nota 10 del poemetto.
[87] il Matto IV (ode agli inizi), vv. 7-8.
[88] essi potrebbero contenere evoluzioni significative del procedere della sua poetica.
[89] )e pagine del travaso, a p. 12 del dattiloscritto.
[90] ibidem.