NOTERELLANDO... Costume e malcostume 6. Elogio della filosofia dell’indolenza |
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Prosa |
Scritto da Antonio Mele/Melanton |
Giovedì 19 Febbraio 2015 10:09 |
C’è un divertentissimo dialogo, in Questi fantasmi dell’immortale Eduardo, tra Raffaele, che è portiere di un palazzo antico e, nella fattispecie, responsabile di un particolare trasloco, e un facchino, il quale ha appena portato su, all’appartamento dell’ultimo piano (che si ritiene infestato dagli spettri), alcune suppellettili e capi di vestiario del nuovo inquilino, e si appresta a ridiscendere. «Vado a prendere l’altra roba», dice il facchino. «E bravo! E io? – replica il portiere, che ha una forte paura di restare solo in quella casa di fantasmi – Ma che hai, fretta? Aspetta, che adesso arriva il tuo collega, e poi torni giù». «Ma così si perde tempo!», ribatte il facchino. E il portiere Raffaele: «Perché, se guadagni del tempo cosa te ne fai? Lo mangi, il tempo?... E se perdi del tempo, sei ridotto sul lastrico?». Come tanti altri, questo frammento di verace ‘napoletanità’ la dice lunga sulla tradizionale flemmatica filosofia partenopea, basata spesso, e forse sempre, su un modo del tutto speciale di vivere la vita, assaporandone – per scelta, e possibilmente – ogni attimo in tutta calma, se non addirittura con indolenza, senza affannarsi, senza agitarsi più di tanto, e senza sentire la tirannia dell’orologio che corre, e ci fa correre, tal quali al Bianconiglio di Lewis Carroll in Alice nel Paese delle meraviglie, che grida disperato: «È tardi! È tardi! È arcitardissimo!», saltando furioso di qua e di là. A ben riflettere, viviamo oggi in un mondo sempre più smodato, dove la fretta è la nostra invisibile padrona, e anzi tiranna, che ci obbliga a fare tutto di gran corsa. Ma ce n’è poi, davvero e sempre, motivo? È poi realmente possibile che non abbiamo il tempo per fare tutto, e sentiamo forte l’impulso di affrettarci per completare le sempre varie e sempre urgenti incombenze che, per l’appunto, incombono? Ma chi siamo? Ulissi? Giasoni alla ricerca del vello d’oro? Giovanne d’Arco? Wonder-Women, Super-eroi? O non è, piuttosto, una sorta di mala-abitudine inconsciamente assorbita, una pulsione emotiva derivata da un acquisito e improprio ‘costume’, per di più passivo e generalizzato? È possibile che non si trovi più il piacere di fare quattro chiacchiere ‘inutili’ al bar o al biliardo con gli amici, o qualche “giro di villa” come ai bei tempi, due passi insieme, per rilassarsi, parlando di poco o di nulla? Non è forse meglio – una tantum – un sano frivolo scherzoso e salutare ‘cazzeggio’ al vuoto muoversi in auto da un posto a un altro, alla ricerca di chissà cosa o barricandosi in casa davanti a un monitor del computer o della tv? Interrogativi del tutto retorici, ovviamente, per richiamarci a stare un po’ con i piedi per terra, e ad essere più semplici, più sereni. E soprattutto più liberi. Posso anche capire (e testimoniare) che la fretta possa influenzare i comportamenti abituali in una grande metropoli, come ad esempio Roma (dove già spostarsi da un punto all’altro – con mezzi propri o pubblici che sia – richiede un impiego di tempo sempre notevolissimo), ma nelle piccole e medie città di provincia, che senso hanno paradossi del genere di quelli che si ricavano da scenette come questa, o queste, di cui sto per dire? «Ma guarda che combinazione, che sorpresa! È un secolo che non ci vediamo! Che bello! Tutto ok? Poi mi racconti, eh? Adesso devo proprio scappare. Ci vediamo! Ciao!». E se ne va. Deve ‘scappare’. Perché deve ‘scappare’? È forse evaso/a dal carcere ed è inseguito/a dai Carabinieri?... E poi, se è un secolo che non lo/la vedi, fermati qualche minuto in più, no? Magari invitalo/a a cena! E comunque, che senso ha il saluto finale: “Ci vediamo!”. Siete qua, tu e lui (o lei), e vi state già vedendo, no? Non c’è affatto bisogno di aspettare domani. O un altro secolo. O mai. La verità è che stiamo perdendo completamente il piacere della rilassatezza, dell’indolenza, della calma, dell’essere un po’ placidi e goduriosi. Riprendiamoci un po’ il nostro tempo, allora. E giochiamocelo come più ci piace. Possibilmente senza quell’ansia e quella fretta che tutti hanno, chissà perché, e che anche noi, per somiglianza, dovremmo avere, chissà perché. Viva infine la libertà. Senza considerarla come un’esclamazione-istigazione alla pigrizia, abituatevi a prendervela un po’ più comoda. A stare con gli altri, senza che la fretta ve lo vieti. A non farsi prendere dall’impazienza, dalla frenesia, dal dover fare questo e quest’altro, trascurando i piccoli piaceri della vita, che spesso sono i più belli. E se può esservi d’aiuto, ricordatevi di quella mia vignetta, dove c’è qualcuno (magari potresti essere anche tu) che sta poltrendo a letto, e una voce fuori campo che lo esorta: «Sveglia: il mondo sta correndo!...». E quello: «Sì, ...ma dove?». Meditiamo, amici. Meditiamo.
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