DAL MITO DI ARACNE AL RITO DEL TARANTISMO |
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Sallentina |
Venerdì 27 Maggio 2011 17:12 |
La parte del racconto mitologico fin qui trascritta del mito descrive in modo dettagliato la vicenda che porta alla disputa la fanciulla (Aracne) e la dèa (Pàllade Atena). La descrizione riguarda il contesto in cui la disputa si svolge, le caratteristiche delle due antagoniste, le cause, le finalità. Occorre ricordare che Pàllade (in greco significa Vergine) Atena è la protettrice della antica Beozia e che la sua lite con Poseidone adombra probabilmente il fallito tentativo di sostituire Poseidone ad Atena come nume tutelare della città. La vittoria della dèa fu compromessa dalle concessioni fatte al sistema patriarcale: gli Ateniesi rinunciarono a portare il cognome della madre, mentre i Cretesi rimasero fedeli a questa usanza fino ai tempi classici. È probabile che la decisione fu presa in seguito a un plebiscito di tutti gli uomini e di tutte le donne di Atene. È chiaro che i Pelasci ionici di Atene furono sconfitti dagli Èoli e che Atena riacquistò la propria sovranità grazie a una alleanza con gli Achei devoti a Zeus: la dèa fu costretta in seguito a rinnegare la paternità di Poseidone e ad ammettere d’essere rinata dalla testa del padre Zeus. Importante è rilevare anche gli attributi di entrambe le divinità: Poseidone è armato del tridente; Atena invece ha lo scudo, l’asta, la galea, l’egida e la lancia. Secondo Erodoto l’abbigliamentto di Atena è quello tipico delle donne libiche del mondo arcaico. È evidente che ci troviamo davanti a due ordini di un sistema imperniato uno sulla forza (Poseidone), l’altro (sulla coscienza o dir si voglia ragione) (Atena). Per questo la vittoria di Atena sta a dimostrare l’accettazione da parte degli Ateniesi di un ordine sistemico fondato non sulla forza ma sulla ragione. E quindi dentro all’ordine di Atena che dobbiamo scendere per comprendere il mito della metamorfosi a noi necessaria per spiegarci il fenomeno del tarantismo salentino. Continuiamo a leggere il racconto del mito: «Pàllade dipinge così la collina di Marte [Areopago, dal nome greco (Ares) di Marte] nella cittadella di Cècrope [fondatore di Atene], e l'antica contesa per il nome da dare alla città. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono su alti scanni con aria grave e maestosa. Ciascuno ha come scritto in fronte chi è; la figura di Giove è la figura di un re. Quindi rappresenta il dio del mare [Poseidone, Nettuno per i Latini], in piedi, nell'atto di colpire l'aspra roccia col suo lungo tridente e di far balzare fuori dalla roccia squarciata un indomito cavallo, perché la città gli venga aggiudicata. Quanto a se stessa, si raffigura con lo scudo, con una lancia dalla punta acuta, con l'elmo in capo e il petto protetto dall'ègida [una specie di corpetto di pelle di capra, che veniva messo, nel tempo più antico, dalle donne libiche alle figlie ancora vergini]; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia produce una pallida pianta d'olivo, con tanto di olive, e gli dèi stupefatti. Infine, la scena della propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio che cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro sfide, a colori con tante piccole figurine. / In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, oggi gelidi monti, ma un giorno esseri mortali, che avevano usurpato i nomi dei più grandi dèi. / Dall'altra parte, la miseranda sorte della regina dei Pigmei: Giunone, sfidata, l'aveva vinta e aveva voluto che diventasse una gru e si azzuffasse col proprio popolo. Poi rappresenta Antìgone che una volta osò competere con la consorte del grande Giove, ma Giunone regina la trasformò in uccello: era troiana, suo padre era Laomedonte, ma ciò non valse a impedire che, messe le ali, fosse costretta ad applaudire se stessa crepitando col becco, candida cicogna. / Nell'ultimo angolo che rimane c'è Cìnira che ha perduto le figlie: abbracciato ai gradini del tempio - già corpi delle sue figliole -, disteso sulla pietra, lo si vede lacrimare. Contorna i bordi con rami d'olivo, segno di pace, e così conclude l'opera, con la pianta che le è sacra» (pp. 90-91). Quali considerazioni ci vengono dalla lettura di questo passo? La prima, e la più importante dal nostro punto di vista, è la forma dell’arazzo di Pàllade Atena: un “rettangolo”. Questo non è un particolare di poco conto. Si pensi all’importanza della sacralità dello spazio. Il Partendone dell’Acropoli è rettangolare, le chiese cristiane, quelle costruite lungo il corso di 2000 anni, almeno fino alla seconda metà del XX secolo, per la maggior parte sono “rettangolari”, perfino le stesse catacombe e le cripte paleocristiane tendono sempre ad avere tale forma, che è de-finita come forma geometrica “finita”, ossia “compiuta”. Ha scritto Aber: «Gli angoli sono [...] propizi a interpretazioni magiche, così nelle case come nei campi. Essi riassumono l'essenza del “confine”: mettere qualcosa ai quattro angoli è un surrogato altrettanto efficace del cerchio magico» (cfr. Aber II, p. 544 sgg., in G. Devoto, “Origini indoeuropee”, p.240). È utile anche ricordare che le tarantate del Salento hanno avuto sempre bisogno di uno spazio ben de-finito per poter svolgere la loro danza rituale. Si pensi ad esempio al lenzuolo “rettangolare” steso per terra di Maria di Nardò, ripresa da Diego Carpitella nel documentario “Meloterapia del tarantismo” (1959), oppure ancora oggi al “rettangolo”, pur’esso ben de-finito del lettino di Cristina di Uggiano La Chiesa. Per quanto riguarda invece i cinque temi rappresentati sull’arazzo della dèa constatiamo che si tratta di cinque scene di divinità (potenza divina) con la seguente disposizione: un ricamo al centro del tessuto (Giove al centro con ai suoi rispettivi lati sei dèi); gli altri quattro disegni, Pàllade Atena li ha ricamati uno su ogni angolo del tessuto. Per cui, ai quattro angoli vediamo quattro metamorfosi che sono: 1. Rodope ed Emo, che diventano gelide montagne; 2. Giunione, Regina dei Pigmei, che diventa gru; 3. Antìgone, che diventa cicogna; 4. Cìnira che, abbraccia i gradini, i quali altro non sono che la metamorfosi delle figlie. Nel racconto del mito c’è il finale con Atena che incornicia il suo arazzo con dei rami d’olivo, albero a lei sacro, che sta lì a dimostrare l’origine della stessa dèa, cioè l’antica Libia, dalla quale era partito, per diffondersi in tutto il Mediterraneo, l’albero simbolo di Atena e della ragione (o pace come dir si voglia). Atena stabilisce con le sue quattro storie, che delimitano lo spazio (“rettangolare”), le quattro dimensioni (o coordinate) di esso (lunghezza, larghezza, altezza, tempo o durata). Le quattro storie poste ai lati del ricamo di Atena potrebbero riferirsi alle quattro popolazioni che contribuirono a formare l'identità della Grecia: Ioni (Attica), Achei (Peloponneso-Micene), Dori (Sparta) e Eoli (Tessaglia). Vediamo ora l’arazzo di Aracne. Ho numerato virgolettato messo in neretto e in corsivo i nomi che a noi interessano alla comprensione dell’ordine dell’esperienza umana, che è quello di Aracne. Per questo riprendiamo il passo del libro di Ovidio, “Le Metamorfosi”, tradotto dal Bernardini Marzolla: «Aracne disegna “Europa” [figlia del re fenicio Agenore, sorella di Cadmo, e madre di Minosse] ingannata dalla falsa forma di [1] “toro”: diresti che il toro è vero, che vero è il mare, e si vede lei che guarda indietro verso terra e invoca le sue compagne e per paura degli spruzzi tira su timorosamente i piedi. E rappresenta “Asterie” [figlia del titano Ceo] ghermita dall' [2] “aquila” a viva forza, rappresenta “Leda” [figlia di Testi, moglie di Tindaro e madre dei Dioscuri] sdraiata sotto le ali del [3] “cigno”. E aggiunge le storie di Giove che sotto parvenze di [4] “Satiro” ingravidi due gemelli la bella figlia di Nicteo [re di Tebe, sua figlia era “Antiope”, madre di Anfione e Zeta]; che diventa [5] “Anfitrione” per possedere te, “Alcmena” [moglie di Anfitrione e madre di Ercole] di Tirinto; che fattosi [6] “oro” inganna “Dànae” [figlia del re di Argo, Acrisio, e madre di Perseo], fattosi [7] “fuoco” la figlia dell'Asòpo [“Egina”, figlia di Asòpo e madre di Eaco], [8] “pastore” “Mnemosine” [madre delle nove Muse], screziato [9] “serpente” la figlia di Cèrere [“Proserpina”]. Anche te, Nettuno: in figura di torvo [10] “giovenco” essa ti pone sopra alla vergine figlia di Eolo [“Cànace”]. Tu [Atena] appari come [11] “Enìpeo”, generi gli Aloìdi [“Efialde” ed “Oto”; come [12] “montone”, inganni la figlia di Bisalte [“Teòfane” mutata poi in agnello]. Anche la mitissima madre delle messi [“Demetra”, madre di Proserpina ma anche di Arione], dalla bionda chioma, ti conobbe [13] “stallone”; la [14] madre del “cavallo volante” [“Medusa”, madre di Pegaso], dalla chioma di serpi, ti conobbe alato; “Melanto” [figlia di Deucalione e Pirra, madre di Delfo] ti conobbe [15] “delfino”. / Ciascuno di questi personaggi è reso a perfezione, a perfezione è reso l'ambiente. E c'è anche Febo [“Apollo”] in aspetto di [16] “contadino”, c'è come una volta egli prese penne di [17] “sparviero” e un'altra volta pelle di [18] “leone”, e come in forma di [19] “pastore” ingannò Isse [“Anfissa”], figlia di Macareo [re di Lesbo]. C'è come Bacco sedusse “Erìgone” [figlia di Icario trasformandosi in] [20] “uva”, e come Saturno [padre di Giove], fattosi [21] “cavallo”, procreò il biforme “Chirone” [il centauro mezzo uomo e mezzo cavallo, figlio di Saturno e di Filira» (pp. 92-94). Sull’arazzo di Aracne vediamo che ci sono 21 disegni ricamati, raffiguranti 21 temi distribuiti sul tessuto secondo un'articolazione in gruppi di questo tipo: 1° gruppo n. 3 storie, 2° gruppo n. 6, 3° gruppo n. 4 storie, 4° gruppo n. 1+1 storie. "Nella sua tela, Aracne ricama gli stupri che divinità facenti parte del Pantheon greco (Giove, Nettuno, Apollo, Dioniso, Saturno) compiono su divinità o sacerdotesse lunari o ninfe (Europa, Asterie, Leda, Antiope, Alcmena, Dànae, Egina, Mnemosine, Rea, Canace, Ifimedia, Teofane, Demetra, Medusa, Melanto, Anfissa, Erigone, Filira), tutte storie che preferigurano invasioni, conquiste, dominii. La narrazione è composta di 21 temi mitici. Elemento comune è la metamorfosi delle divinità in forme di animali (toro, aquila, cigno, serpente, giovenco, montone, stallone, cavallo, delfino, sparviero); in forme umane (Anfitrione, pastore, contadino) e in forme materiali (oro, fuoco, fiume, pelle di leone, uva). Tutte le storie sono in relazione tra di loro. Potrebbe trattarsi del confronto tra due concezioni temporali: un tempo lunare che si contrappone a quello solare. Il tempo è formato dalla successione degli avvenimenti che lo pongono in rapporto con lo spazio. Tempo e spazio sono perciò due sistemi di relazioni. Al tempo soggettivo di Atena, immutabile e stabilito, Aracne contrappone un tempo oggettivo, nel quale il passato, il presente e il futuro sono in relazione fra di loro. Altro particolare che attira subito l’attenzione è la forma dell’arazzo della fanciulla lidica. Ovidio, che bene aveva definito il “rettangolo” del tessuto di Pàllade Atena, per quanto riguarda la forma di quello di Aracne non dice nulla. Perché? Probabilmente perché l’autore scrisse le metamorfosi basandosi sul racconto ascoltato da genti che lo andavano diffondendo e forse gli sfuggì il particolare appunto della forma. Noi oggi, però, possiamo ipotizzare la sua forma. Per far sì che su di esso insistano le 21 raffigurazioni occorre che lo stesso abbia una forma allungata, del tipo spiraliforme. Solo così si possono ammirare le 21 scene. Perciò, molto probabilmente deve trattarsi di una “spirale”, per tutti i popoli dell’antichità simbolo dell’eterna divinità e dell’eterno in/finito. Ecco dunque delinearsi all’interno del mitico ordine sistemico di Atena la contrapposizione rovesciata, la dèa costretta a stare dentro un “rettangolo”, de/limitato e de/“finito”, mentre l’umana Aracne costretta a stare dentro una “spirale”, la cui origine e fine di ogni cosa non sono individuabili, quindi punti il/limitati e “in/finiti”. Altra opinione è invece quella di Tokarev, il quale afferma che «nel mito di Aracne trovò riflesso la tendenza religiosa a condannare la presunzione degli uomini di fronte agli dei» (cfr. S. Tokarev, “Le religioni del mondo antico”, Teti, p.164). Nel mito, dunque, il carattere della contrappozione è il dato principale, sul quale occorre ancora ricercare. Nell'Introduzione a “Le Metamorfosi”, Italo Calvino affronta il problema, scrivendo: «La sfida agli dèi implica un'intenzione irriverente o blasfema nel racconto: la tessitrice Aracne sfida Minerva nell'arte del telaio e raffigura in un arazzo i peccati degli dèi libertini [....] Nel grande campionario di miti che è l'intero poema, il mito di Pàllade e Aracne può contenere a sua volta due campionari in scala ridotta orientati in direzioni ideologiche opposte: l'uno per infondere sacro timore, l'altro per incitare all'irriverenza e alla relatività morale» (cfr. I. Calvino, “Gli indistinti confini”, in Ovidio, op. cit., pp. IX, X, XI). Anche Ernesto De Martino individua nella contrapposizione tra una mortale (fanciulla) ed una immortale (dèa) la chiave del racconto. Ne “La terra del rimorso”, scrive: «qualche istruttiva indicazione può ricavarsi dalla notissima vicenda di Arachne, la fanciulla lidia, perfetta tessitrice, che sfidò Athena ad una gara, tessendo con grande perizia un arazzo in cui erano raffigurate le vicende meno edificanti degli dèi [...] Aracne colpita in fronte dalla divinità con una bacchetta di bosso e che corre ad impiccarsi rientra nella chiera dei personaggi mitici femminili travolti dalla mania nella forma dell'impulso suicida per impiccagione: ma la fanciulla lidia non realizza il suo impulso in quanto Athena la trasforma in ragno e le concede la vita a patto di pendere, come ragno, dalla tela. L'episodio di Arachne mostra dunque come nel mondo classico non fosse estranea la connessione simbolica fra l'impiccagione e l'oscillazione del ragno appeso alla tela: e mostra altresì come tale connessione facesse da orizzonte ad un momento critico ben definito, quello delle fanciulle al telaio, cioè duramente impegnate in un lavoro monotono, favorevole all'insorgere di disordini psichici» (cfr. E. De Martino, “La terra del rimorso”, Milano, Il Saggiatore 2008, pp. 237-238). Nel passo di De Martino appare evidente che quei «disordini psichici» altro non sono che la rottura tra l’umana esperienza e quella divina. È stato proprio lui ad introdurre con la sua ricerca sul campo alcuni elementi di riflessione che portano ad un ulteriore approfondimento. Ad esempio, la “comparazione etnografica" e la “ricerca degli antecedenti” lo portarono a ricercare l’originalità storica del tarantismo con l’analisi e la verifica della dinamica culturale del fenomeno. Pur non mostrando l’aggregazione forse desiderata con antecedenti classici, ha mostrato di non produrre in questa specificità culturale danni peraltro attentamente valutati dallo stesso antropologo nel momento in cui la sua tecnica si basa sulla organicità della cultura. È senz’altro temeraria l’ambizione di studiare il fenomeno del tarantismo con la stessa cautela di De Martino. Tuttavia la presunzione è però limitata ad un elemento che richiederebbe per la sua cifra una scrittura più adeguata. In attesa che questa evenienza si mostri è utile individuare la logica soggiacente nel simbolo del ragno e nella transe. Referenti del tarantismo sono la divinità e il piccolo animale, il cui morso durerà fino a quando non se ne sarà conosciuto fin nelle sue radici il ritmo musicale che lo sostiene. Per questo, anche il tarantismo appartiene, e De Martino lo ha ampiamente dimostrato, a quelle esperienze originali (riti di possessione) che svelano con forza l’essenza del rapporto di identificazione fra l’uomo, il divino e il mondo della natura. |