Storia e Cultura Moderna
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Lunedì 22 Luglio 2013 16:01 |
[in Totò. Tocchi e ritocchi, a cura di Giovanni Invitto, Il Raggio Verde, Lecce 2009]
La “filosofia” di Totò
Parlare di filosofia e cinema è diventato uno dei nuovi spazi del pensiero occidentale. Ormai non si contano i volumi, i convegni, i corsi universitari dedicati a questo nuovo binomio che non suscita più meraviglia né perplessità. Ma i filosofi accademici quasi sicuramente inorridirebbero se dovessero sapere che si parla di “filosofia” a proposito di Totò.
Il guitto, la marionetta, il comico per antonomasia paiono essersi preso una bella rivincita dopo la morte anche, ma non solo, con la malleveria di quel Pier Paolo Pasolini che lo volle protagonista a tutto campo di Uccellacci e uccellini (1966) e dell’episodio Che cosa sono le nuvole? (1967) in Capriccio all’italiana.
D’altro canto, è discutibile parlare di una filosofia di Totò se rimaniamo alle sceneggiature dei suoi film, perché non si presentano come testi di per sé con contenuti filosofici ed anche perché Totò non ne fu l’autore. Però, per filosofia qui pensiamo a qualcosa di molto meno strutturato e disciplinare. La accogliamo in una accezione amplissima: quella di un modo di concepire la vita e la morte, i valori correnti e la società, la cosiddetta civiltà e il gusto delle cose non artefatte... Tutto ciò è nei film, negli scritti, nelle interviste di Totò. Potremmo trovare anche una critica anticipata del consumismo (Totòtarzan, 1950).
Rispetto alla premessa di metodo, si può aggiungere che per scoprire questa presunta filosofia di Antonio De Curtis potremmo limitarci alle sue poesie, alle interviste, alle conversazioni depositate in vari libri, ma non dovremmo trascurare neanche i dialoghi dei suoi film perché sicuramente Totò interveniva sui copioni e chi li scriveva lo faceva sapendo che dovevano incardinarsi in una figura, in una icona che si erano costruite da sole. Inoltre l’attore, come è noto, spesso metteva da parte il copione e recitava spinto dall’estro del momento.
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Storia e Cultura Moderna
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Venerdì 19 Luglio 2013 16:23 |

[in Totò. Tocchi e ritocchi, a cura di Giovanni Invitto, Il Raggio Verde, Lecce 2009]
Femmena,
tu si ‘na malafemmena…
chist’uocchie ‘e fatto chiagnere…
lacreme e ‘nfamità.
Femmena,
si tu peggio ‘e ‘na vipera,
m’è ‘ntussecata l’anema,
nun pozzo cchiù campà.
Femmena,
si ddoce comme ‘o zucchero
però ‘sta faccia d’angelo
te serve pe ‘ngannà…
Femmena,
tu sì ‘a cchiù bella femmena,
te voglio bene e t’odio,
nun te pozzo scurdà…
Probabilmente ciò che rimane come emblema, nella memoria collettiva, del rapporto tra Totò e il genere femminile è dato dalla canzone Malafemmena composta, secondo la versione ufficiale sottoscritta ufficialmente dall’attore, per la moglie che aveva deciso di lasciarlo, e, secondo altre versioni, per Silvana Pampanini, sua partner di tanti film, che si sarebbe negata ad un rapporto affettivo. D’altro canto egli stesso dichiarò, relativamente alla sua esistenza in quanto Antonio De Curtis: “Se non amassi tanto le donne, sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, vado a messa e faccio la comunione. L'obbligo della castità, però, non lo capisco. Lo trovo disumano, innaturale, insopportabile. Il Cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca: sono cattolico-apostolico-napoletano”1.
Ma non è questo, invece, ciò che può chiudere il discorso tra Totò e le donne: o, meglio, come sarebbe più corretto dire, tra il personaggio cinematografico Totò e il genere femminile, così come appare nei film. Analisi non semplice, anche perché nel cinema, come esercizio dello sguardo, Totò rende plurale la lingua e esibisce il superamento delle identità e degli stereotipi. Proprio questo diciamo in anticipo: Totò presenta gli stereotipi del suo tempo, e non solo gli stereotipi del femminile, per radicalizzarli e, insieme, relativizzarli presentandoli come luoghi comuni.
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Storia e Cultura Moderna
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Martedì 16 Luglio 2013 10:12 |
Traduzione di Annie e Walter Gamet
Quand on m’a demandé d’accompagner mes élèves à Lecce, j’ai tout de suite accepté de bon gré, savourant d’avance le plaisir d’une promenade en ville en leur compagnie, le matin, au lieu de devoir rester en classe à faire cours. J’ai fait un peu la grimace quand j’ai su que nous visiterions Le Train de la mémoire. J’ai quarante-deux ans et toute ma vie j’ai entendu parler d’Auschwitz, de solution finale, de génocide des Juifs, de Shoah, etc., toutes choses auxquelles je crois fermement sans demander de preuve d’aucune sorte, comme le chrétien croit, parce qu’il a la foi, au mystère de l’incarnation ou de l’immaculée conception. Je pense que celui qui nie l’holocauste n’est qu’un m’as-tu-vu ou un provocateur.
Mais ceci dit, les scènes filmées par les Alliés à la fin de la seconde guerre mondiale, quand ils découvrirent les infamies et les horreurs qui se cachaient derrière les barbelés des camps de concentration nazis, les monceaux de cadavres, les squelettes déambulants, les enfants décharnés échappés au massacre, les malheureuses rescapées, toutes ces images qu’on ne cesse de montrer à la télévision et qu’on repasse sans distance critique à l’école, suscitent en moi un profond dégoût et même de l’ennui. Les présenter sans arrêt, c’est faire preuve de mauvais goût, puisque le seul but poursuivi c’est de persuader le spectateur de l’abomination nazie à travers la présentation de violences atroces et indicibles ; ce qui est inutile et redondant à partir du moment où ces choses-là sont parfaitement connues, même sans aller revoir les images pour la énième fois. C’est aussi pour cette raison qu’elles m’ennuient, et qu’au cours des années, leur répétition m’est devenue insupportable. La répétition détermine « la désémantisation » des images, c’est-à-dire la perte de leur sens pur et véridique ; comme il est advenu à celles des avions qui se sont fracassés contre les tours jumelles le 11 septembre 2001. Vues et revues mille fois, elles finissent par nous faire oublier la réalité qu’elles impliquent : la mort d’environ 3000 personnes et les deuils infinis qui en ont découlé. Manifestement, la mémoire s’en trouve ici affaiblie et non pas renforcée, et cela précisément à cause de ces choix iconologiques qui annulent la signification des choses et déforment notre façon de les percevoir. J’appelle choix iconologique un choix idéologique transmis par l’image. L’Occident post-nazi a fait ce choix iconologique après la défaite de l’Allemagne en 1945. Depuis, le nouveau cours de la politique mondiale semble demander à ces images de mort (je pense au film de Spielberg, La Liste de Schindler), sa propre légitimation puisque celles-ci, mieux que beaucoup d’autres, mettent en relief la vitalité du nouveau pouvoir sorti vainqueur de la seconde guerre mondiale.
Ce jour-là, une fois arrivés en bus à la gare, après une promenade dans les rues de la ville, où quelques élèves avaient fait du shopping, d’autres consommé un chocolat chaud, d’autres encore fumé en cachette des cigarettes en regardant les belles filles, nous avons trouvé au quai n°1 un train de marchandises, en tous points semblable à celui qui transportait les détenus jusqu’aux camps d’extermination, seulement un peu plus neuf. La décontextualisation de ce train était frappante, son existence anachronique, comme dans certains films où des protagonistes, lors d’une plongée dans le passé, se retrouvent à l’improviste, en costume-cravate, destinés aux fauves dans un cirque romain ou bien devant un château fort médiéval à la merci d’un chevalier, sabre au clair, et doivent s’en sortir tout seuls.
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Lunedì 15 Luglio 2013 16:09 |
[in Totò. Tocchi e ritocchi, a cura di Giovanni Invitto, Il Raggio Verde, Lecce 2009]
Nei film di Totò è spesso presente il tema dell’italiano tipico che va all’estero (per es. Totò le Moko), che si confronta con l’estero. In questo caso l’ironia è diretta tanto sull’identità italiana quanto su quella straniera, ma l’identità italiana è presentata come unitaria: l’italiano è lo scaltro, scafato, ironico che riesce a prendere in giro l’identità altra dal punto di vista del “parla come magni”. Nei film di Totò è presente anche il tema del Nord e del Sud dell’Italia: se infatti Totò presenta il tipo unitario dell’italiano quando questi si confronta con il non-italiano, presenta invece vari tipi di italiano, spezzando l’unitarietà del carattere nazionale e dividendolo a sua volta in tipi regionali, locali, campanilisti. In questo caso è l’identità nazionale a essere presa di mira dall’ironia, dallo sberleffo di Totò: è resa macchietta, stereotipo, tic, battuta.
L’Italia di Totò è prima di tutto ed essenzialmente divisa in due: il Sud (e il Sud per eccellenza è Napoli, la Sicilia non esiste) e il Nord (rappresentato da Milano, ma anche da curiose località non centrali nella geografia nazionale eppure significative, si pensi a Cuneo: “Sono uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo.”). Il Nord è già estero: Totò e Peppino si vestono con cappotto e colbacco come se dovessero andare al Circolo polare artico quando si recano in treno a Milano. Non solo: nella scena della richiesta di informazioni, si rivolgono al vigile urbano in francese (ma pensando di parlare tedesco), e si stupiscono che questi parli italiano.
Ma la sensazione di incontrare lo straniero non emerge solo nella discesa dal treno a Milano: anche nella scena dell’on. Trombetta in Totò a colori si incontrano non tanto due professioni o classi o ceti diversi: si incontrano due tipi che non fanno parte dello stesso Paese. L’onorevole parla un italiano perfetto, Totò parla come sempre italiano ma con un forte accento napoletano. L’onorevole è razionale, aderente alla realtà, Totò è irrazionale (getta le valigie dalla finestra invece di metterle sul portavaligie, ride del Parlamento, della sorella che è sposata con un certo signor Bocca – Trombetta in Bocca, e così via). L’onorevole è l’Italia legale – come si sarebbe detto in altri tempi -, Totò è l’Italia reale. L’onorevole è la politica, Totò l’antipolitica, come si direbbe ora. L’onorevole è l’Italia ufficiale, parlamentare, della Costituzione; Totò è l’Italia del popolo, del buon senso, dello sberleffo.
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