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Scritto da Antonio Campa
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Mercoledì 18 Novembre 2020 08:26 |
La musica parla e le sue parole sono quelle che le note compongono, e il tutto nasce dall’interno di ognuno di noi, dall’ineffabile che abita e si manifesta. Esiste una relazione tra il suono e l’emozione suscitata ed è una relazione diversa per ognuno.
E primariamente c’è una relazione tra ciò che dentro muove la coscienza e quanto di questo intimo moto si esprime in musica e poesia. Le parole hanno loro stesse un suono che risponde alla esigenza di significare un sentimento. Spesso l’uso di alcune parole invece di altre determina di una poesia la sua atmosfera, rarefatta, spaziale, aleggiante oppure dura e intrisa di polvere e sangue: l’autore nella creazione sceglie inconsapevolmente le parole che non solo rispondano al significato che egli vuole dare, ma anche indissolubilmente al suono che tali parole racchiudono in sé, favorendo la creazione di quell’humus d’ambiente anche sonoro dove passeggiare tra i versi è un ritrovare con l’autore empatia, costruita proprio sulla base di questa scelta. Il poeta come lo scrittore o chiunque usi le parole, sa che la loro disposizione, la scelta di un sinonimo, le pause con una punteggiatura particolare, l’uso degli spazi bianchi di separazione o dell’”a capo”, possono ingigantire un ritmo o annullarlo, e di conseguenza possono appiattire l’emozione a una linea con poco senso oppure lievitarla e farla divenire padrona di chi ascolti.
Anche nella musica, chi crea sente dentro il tamburo dell’armonia che batte e manda segnali ritmati: e sceglie le note, come il poeta le parole, per trascinare una emozione con il suo intimo logos nel cuore di chi ascolta o legge. Siamo tutti immersi in questo ordine armonico che inspiegabilmente ci raccoglie e ci affratella soprattutto nel provare comuni sensazioni: l’Arte ha il pregio si permettere ai pensieri stretti alle emozioni di circolare dagli autori ai fruitori.
Maria Rita Bozzetti |
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Giovedì 05 Gennaio 2017 07:58 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 3 gennaio 2017, p. 29]
Alla morte di Constantino, mentre i suoi figli erano designati come Augusti, un tumulto militare eliminò il resto dei suoi parenti maschi. All'eccidio sopravvissero solo i figli del fratellastro Giulio Costanzo, cioè Giuliano e Gallo. Tenuto sotto stretta sorveglianza, Giuliano si dedicò agli studi letterari e filosofici, cui si sentiva particolarmente incline. Da tali studi fu distolto nel 355, quando l'Imperatore Costanzo lo nominò Cesare e gli affidò il governo della Gallia, allora percorsa da torbidi interni. A caldeggiare con vigore questa nomina era stata la moglie dell'Imperatore, Eusebia, che aveva dissipato alcuni sospetti che gravavano sul giovane principe, aveva insistito sul suo nome contro il parere della corte imperiale e aveva vinto alcune titubanze dello stesso Giuliano, che esitava ad abbandonare la tranquillità dei suoi studi. Giunto in Gallia, Giuliano sentì il dovere di sdebitarsi nei confronti dei sovrani scrivendo due elogi per Costanzo e l'elogio di Eusebia. Se però l'elogio di Costanzo rientrava nella tradizione del basilikòs logos, era eccezionale l'elogio dell'Imperatrice, che, secondo la consuetudine del tempo, poteva trovare posto solo nell'elogio dell'Imperatore. Invece qui, pur motivata dalla gratitudine verso Eusebia, affermata nei capitoli iniziali, troviamo una trattazione autonoma che tocca i punti canonici relativi a: "la patria, i genitori e come si sposò e con chi" (cap. 3). Così veniamo a sapere che Eusebia è di origine macedone, è nata a Tessalonica, è figlia di un console e per le sue doti personali è stata prescelta come moglie dall'Imperatore. Naturalmente queste scarne notizie trovano ben altro sviluppo nel testo, che dà ad esse lo sviluppo richiesto da un discorso di lode sia sul piano dei temi narrativi (della inventio, potemmo dire), che sono arricchiti da continui riferimenti storici e mitologici, sia sul piano della esposizione (della elocutio, quindi) che si avvale di una lingua elegante e retoricamente sostenuta e da frequenti citazioni (soprattutto da Omero).
Tutti questi aspetti del contenuto e della forma (di cui si può dare qui solo sommario cenno) sono ben presenti nel lavoro di traduzione e commento fatto da Adele Filippo nella recente edizione dell'elogio pubblicata con la consueta cura dall'Editore Fabrizio Serra, con il contributo del Dipartimento di Studi umanistici dell'Università del Salento e dalla Fondazione Puglia. La traduzione segue da vicino il testo greco offrendone una lettura chiara ed elegante; il commento illustra esaurientemente i vari referenti del testo ma si sofferma con particolare attenzione sulla sua articolazione argomentativa e sulle strategie discorsive che alimentano il contatto con il pubblico, cui l'elogio era destinato. Una Introduzione e due indici (dei luoghi citati e delle parole), curati da Marco Ugenti, arricchiscono il volume.
Entrando brevemente nel merito del testo, e seguendone la traduzione, possiamo osservare che, volendo celebrare le virtù di Eusebia (e cioè "la sua intelligenza e bontà e moralità e umanità e clemenza e liberalità", cap. 8) Giuliano ricorda in particolare due sue doti.
La prima è la sua capacità di farsi amare dal marito, e qui il paragone ovvio è con la Penelope omerica della quale (dice Giuliano) "questo, in particolare… ammiro, l'avere… indotto il marito ad amarla fortemente e teneramente, disdegnando, come dicono, nozze divine e sprezzando non meno la parentela dai Feaci", cap. 8). Si può rilevare, en passant, che Penelope è anche un termine di confronto per la madre di Eusebia alla quale, rimasta vedova, nessuno osò rivolgersi come pretendente, mentre la moglie di Ulisse molti giovani si proposero come marito (cap. 6): una matrona romana entro una cornice greca.
La seconda è la sua umanità, per cui ella interviene presso l'Imperatore per fargli usare, nei casi possibili, una particolare indulgenza nei processi; in tal modo Eusebia "diviene partecipe delle decisioni del marito e sollecita il sovrano, per natura mite e nobile ed amabile, più confacentemente a quelle sue inclinazioni naturali e indirizza l'esercizio della giustizia al perdono", cap. 8).
Naturalmente larga parte hanno nell'esposizione gli interventi dell'Imperatrice in favore di Giuliano, che culminano nel colloquio decisivo avuto con lei: "Ed io, non appena fui, per la prima volta, al cospetto di lei, ebbi l'impressione di vedere, come edificata in un tempio, la statua della modestia. Un sentimento di rispetto m'invase l'animo e tenni gli occhi, assai a lungo, saldamente fissi al suolo, finché ella mi incitò a farmi coraggio e: «Alcuni appoggi - disse- già li possiedi, te ne verranno anche altri con l'aiuto di Dio, se solo sarai fedele e leale nei nostri confronti»". Le parole dell'Imperatrice, riportate da Giuliano, testimoniano la sua benevolenza ma anche un certo pragmatismo. Pragmatismo che lo storico Zosimo mette all'origine vera della scelta di Eusebia, come commenta Adele Filippo: "Se… la fortuna gli fosse stata propizia, il giovane Cesare, secondo Eusebia, avrebbe ascritto a Costanzo il merito dei suoi successi, se, invece, fosse morto, sarebbe scomparso l'ultimo superstite della stirpe imperiale, ipotetico aspirante al potere" (p. 152). Ma di ciò non vi è traccia nel discorso, e non altera la lode tributata, così come non incide su di essa il fatto, riferito sempre da Giuliano, che ella, sfruttando la benevolenza dell'Imperatore "ricolmò di onori tutta la sua parentela e i congiunti…; e non solo ai parenti procurò… vantaggi, ma anche a chiunque seppe legato da vincolo di ospitalità acquisito con gli avi della madre", cap. 10). Una prassi normale per quei tempi. Ma, tra gli atti compiuti dall'Imperatrice nei suoi confronti, quello che ha reso "straordinariamente felice" Giuliano è stato il dono di una grande quantità di libri "di filosofi e di validi storici e di numerosi retori e poeti" (cap. 15) che egli ha portato con sé in Gallia, alcuni dei quali lo accompagnano anche nelle campagne militari.
Tuttavia la formazione letteraria e retorica, acquisita con i suoi studi, non gli consente di ricevere l'apprezzamento dei "beati sofisti" del tempo che diranno che egli "avendo messo insieme fatti di poco conto e insulsi, li riferisca come se si trattasse di qualcosa di notevole". Una polemica, non isolata nell'opera di Giuliano, con la quale egli, contro gli artifici della retorica ufficiale, rivendica il suo metodo consistente nel "dire la verità come viene"(cap. 17).
L'atteggiamento di Giuliano rivela la sua personalità schietta e talvolta rude, come egli stesso ama rappresentarsi nel Misopogon, "L'odiatore della barba", scritto contro i raffinati Antiocheni, opera magistralmente edita da Carlo Prato.
La menzione di Carlo Prato non è casuale. Nella nota introduttiva sulla tradizione manoscritta Adele Filippo ricorda che la sua edizione si basa su "appunti e scambi di vedute" avuti con lui quando egli progettava di dare una edizione dell'opera omnia dell'Apostata, progetto interrotto dalla sua morte (p. 21). I riflessi di queste discussioni traspaiono nei criteri cautamente conservativi che Adele Filippo adotta nella contitutio textus e in alcune felici scelte testuali. Gli "scambi di vedute" sono (come ella stessa dichiara) "frutto di una frequentazione continua e di un lavoro a tavolino fianco a fianco". L'espressione ci restituisce un'immagine di Carlo Prato che chi ha avuto la fortuna di lavorare con lui conosce bene: quello dello studio condotto "fianco a fianco", senza gerarchie che si traducessero in collocazioni di sapore cattedratico, ma nella modestia di un lavoro comune da compiere, in cui tutti potevano essere nello stesso tempo maestri ed allievi. |
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Sabato 10 Dicembre 2016 11:40 |
["Il Galatino" anno XLIX n. 19 del 25 novembre 2016, p. 3]
Non è la prima volta che Gianluca Virgilio mi fa dono di uno dei suoi libri.
Ecco. Quando succede sospendo quasi automaticamente la lettura dell’altro che ho per le mani per buttarmi a capo fitto e con gran diletto in quella del suo testo. La “parentesi virgiliana” di solito non dura più di un paio di giorni, al massimo tre, tanto scorrevolissimo e vorace, come sempre, è quel che egli scrive.
Stavolta la strenna è il suo “Quel che posso dire”, ancora caldo delle rotative di Edit Santoro di Galatina (settembre 2016); mentre l’altro che avevo per le mani – e che ha dovuto attendere il suo turno – era un classico della Naomi Klein, “No logo” (Bur, Milano, 2015), insieme al centesimo volume di Andrea Camilleri, “L’altro capo del filo” (Sellerio, Palermo, 2016). Sì, in genere me ne porto avanti un paio per volta, quando non di più.
Questo bel libro del prof. Virgilio, dello stesso formato degli altri suoi e, combinazione, dei romanzi che Camilleri pubblica con Sellerio, non è un romanzo, come l’autore ci ha tenuto a puntualizzare, ma una raccolta di disiecta membra, brani d’esistenza, punti di vista, racconti di vita vissuta, edite e inedite riflessioni di un osservatore, pensieri sfregati perlopiù su pagine di rubriche tenute sul quindicinale salentino per antonomasia: “il Galatino”.
Non una trama, dunque, visto che nemmeno la vita ne ha una, ma una serie incommensurabile di orditi, schizzi, flash, colpi di scalpello che, tuttavia, all’occhio più attento non sono mai stocasticamente indipendenti uno dall’altro, come direbbero gli statistici, ma legati in qualche modo da un fil rouge, una visione d’insieme, direi pure una concezione politica dell’esistenza.
Non solo nella prima parte del libro (“Scritti cittadini”), nella quale il Virgilio analizza la microsociologia della sua città, ma anche nelle restanti cinque (“Passeggiate con Ornella”, “Scritti scolastici”, “Prose”, “Racconti” e “Incontri”) affiora potente l’urgenza di una Politica (finalmente con la maiuscola) volta al bene comune, al rispetto dell’altro, alla formazione culturale di un popolo, alla realizzazione dei principi costituzionali negletti da troppa dimestichezza con la sbadataggine locale, e ultimamente minacciati anche da una riforma centrale pensata male e scritta peggio.
Mentre leggevo i brani di questo libro, non so perché, nella mia mente si andava delineando, dapprima sfocata e poi sempre più nitida, la figura di chi potesse assumere il ruolo di prossimo venturo sindaco di Galatina. E il profilo che in tal senso pagina dopo pagina si stagliava con connotati sempre più netti era proprio quello del prof. Gianluca Virgilio (erede, oltretutto, di Zeffirino Rizzelli nella direzione e nell’organizzazione dell’Università Popolare di Galatina).
Galatina in effetti ha bisogno di una persona, che dico, di una classe dirigente virtuosa. E Gianluca Virgilio, per spessore e impegno culturale, padronanza morfo-sintattica nell’eloquio e nella scrittura, onestà intellettuale, capacità di ascolto e di comunicazione, e dunque visione strategica della Polis, potrebbe rappresentare un punto di riferimento importante, un’insegna, anzi un insegnante per il nuovo gruppo dirigente. Abbiamo bisogno di qualcuno a Palazzo Orsini che finalmente, come Virgilio, faccia “l’elogio degli alberi” (pag. 31), che comprenda che qui è pieno di “decine di case monofamiliari chiuse e abbandonate, e con tanto di cartello VENDESI” (pag. 41), e che dunque un buon sindaco non si misura da quanto asfalto mette a terra o da quanto cemento farà colare, che il vero cittadino non può vivere “del poco, e di molta televisione, e si nutre di fiction” (pag. 20) ma di cultura e partecipazione, che “rottamazione è parola magica del consumismo” (pag. 43), che “la Buona Scuola ha dato il colpo di grazia alla libertà di insegnamento” (pag. 59), che non bisogna “prestare orecchio alle sirene del mercato” (pag. 61), che “la classe dirigente degli ultimi anni ha perseguito l’affossamento della scuola e la distruzione delle biblioteche scolastiche per dare i soldi alla scuola privata oppure favorendo l’ingresso nella scuola pubblica di privati sempre più rapaci” (pag. 76), che i giornali stanno diventando sempre più inutili, pieni zeppi, come sono, di pubblicità e di “commenti e opinioni tutti dalla parte del vincitore di turno, salvo dirne male quando per lui è giunta l’ora del tramonto” (pag. 95), ogni riferimento agli orrori di stampa locale è puramente causale…
Ho già passato questo bel libro a mio papà Giovanni. Mio padre ha 93 anni, è contadino, va ogni giorno in campagna, vive di poco, ha la terza elementare, non ha dunque una libreria (pag. 113) come quella del prof. Giuseppe Virgilio (compianto papà di Gianluca), ma quando è libero legge, legge tutti i libri che gli passo. Conosce Gianluca molto bene perché è il suo vicino di campagna. Tra i nostri due contigui appezzamenti di terreno non c’è muro di cinta, non soluzione di continuità. Sicché Gianluca e mio padre, il professore e il contadino, si vedono spesso, si scambiano consulenze, derrate agricole, e qualche volta anche i ruoli. Ho sempre pensato che quelle di mio padre fossero braccia strappate alla cultura. |
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Venerdì 09 Dicembre 2016 07:52 |
Continua l’inarrestabile corsa letteraria di Paolo Vincenti, giornalista e scrittore salentino, il quale continua a ottenere, come accade per ogni sua pubblicazione, consensi e successi. Dalla scorsa primavera, è la volta de “L’Osceno del Villaggio” ArgoMenti edizioni.
Lo scrittore ruffanese giunge, con “L’Osceno del Villaggio” da un percorso che sostiene la sua intera esistenza e ce lo racconta la sua ricca, anzi ricchissima ed eclettica produzione letteraria, tra romanzi, racconti e articoli pubblicati su numerose riviste letterarie cartacee e testate online.
Con questo lavoro lo scrittore salentino ha percorso altre formule di scrittura dove comunque resta, ineluttabile, l’innata passione per la carta stampata, un mezzo che usa con abilità e competenza. La pubblicazione è una antologia, una raccolta di articoli racchiusi in 53 capitoli brevi, pubblicati, nel giro di 2 anni, dal 2014 al 2016, in diverse riviste che con tanta passione e tenacia propone nelle differenti realtà culturali salentine.
Un filo unisce i capitoli che dipanano l’arduo percorso esistenziale lungo il quale lo scrittore affronta una gamma sorprendente di temi di attualità. Molto interessanti sono le tante esperienze quotidiane in una società che va cambiando così velocemente. Fatti di cronaca, esperienze e problematiche sociali e culturali, episodi legati alla politica e alle ultime mode e vizi, in continui nodi che si riavvolgono e si sciolgono con intuizioni illuminanti.
Un caleidoscopico paesaggio antropologico, realistico e a volte, visionario, doloroso, ma vibrante alla ricerca della parola… giusta! Tutto questo trasformato in una esperienza editoriale, tradotta, così, in questa originale pubblicazione.
Il titolo è un calembour, è un gioco di parole con cui l’autore si riferisce, naturalmente, allo scemo del villaggio, una figura, un personaggio dalle particolari caratteristiche che notoriamente esiste in ogni comunità e che un tempo si individuava soprattutto e maggiormente nei piccoli centri. Oggi la contemporaneità si apre a un mondo che ormai appare rimpicciolito, un mondo che è divenuto un villaggio, un villaggio globale. Per cui lo scemo lo si incontra dovunque.
Ma lo scemo è, inevitabilmente, nello stesso tempo, osceno? Sicuramente sì, ma non fa scalpore, perché questa figura possiede dei privilegi: dire liberamente quello che pensa in quanto sorretto e protetto proprio dalla sua pecularità che lo giustifica.
Ma chi è lo scemo del villaggio? E chi L’osceno? Molto interessanti sono le riflessioni che propone, nella prefazione al volume, Antonio Soleti, il quale sottolinea che “L’osceno del villaggio dice quello che noi pensiamo ma, per prudenza , pudore o codardia, teniamo per noi”, e che “L’ osceno esplora i comportamenti stereotipati, il basso profilo culturale che caratterizzano la società globale”.
I numerosi titoli, spesso, si ispirano a motti della tradizione popolare come… “Chi ben comincia…” oppure “Al pelo si conosce l’asino” o a modi di dire come ad esempio “Quando il gioco si fa duro” e così via, consegnando al lettore intitolazioni accurate ed efficaci, e come molti aneddoti che ancora e per fortuna resistono come in “Natale ai tempi della crisi” dove Paolo Vincenti coglie l’occasione per parlare di purciddhuzzi , pucce e taraddhi, pittule e limoncello, ancorandosi al folklore e alla superstizione.
Il libro possiede delle peculiarità: ciascun capitolo è introdotto da brani di cantautori da Paolo Conte a Zucchero a Elio e le storie tese, da Fossati a Jovanotti, per fare solo alcuni esempi. Le pagine sono sorrette da straordinarie illustrazioni e vignette in bianco e nero realizzate da Melanton che puntellano la scrittura ora sarcastica, ora più seria, ora di denuncia, offrendo, come afferma lo stesso vignettista e illustratore, nella sua introduzione, “un ironico e filosofico complemento di divagazione”.
Lo scrittore trova l’occasione in “Uomo calvo mettiti in salvo” per quella sua erudita predilezione per i classici, di narrarci di Sinesio di Cirene autore di un “Elogio della calvizie” vissuto tra il 300 e il 400 d.C. per poi, con un salto ultra millenario giungere ai nostri giorni elencando le diverse soluzioni alle quali ricorre chi si avvia alla calvizie. Frattanto ironizza su se stesso che già nota con sottile sgomento, ma non troppo, i primi segnali di una incipiente calvizie, concludendo, con canzonatoria consolazione, che tutto sommato meglio perdere i capelli che la ragione!
Sfogliando il libro, verso l’ultima parte Paolo Vincenti, nonostante non abbia scritto una introduzione al corposo volume, dà delle esplicitazioni come in “ L’Oscena Italia” parlando della trasmissione televisiva che ha ispirato il titolo della sua rubrica: “Glob, l’osceno del villaggio”trasmessa da Rai Tre, condotta da Enrico Bertolino che parafrasava un’altra trasmissione, “Blob” e alcune pagine più in là in “Decadenza”. Aprendo con una canzone di Ivano Fossati, ci riferisce, senza mezzi termini che: “L’osceno del villaggio è a piede libero. Si aggira tra noi, è il concentrato di vizi e delle dissolutezze degli italiani… È una maschera tragica e comica… è il mostro che aspetta al varco della nostra addomesticata e borghese serenità”…. L’osceno è lo “scemo più scemo” del villaggio globale degli anni duemila”.
Nonostante le tematiche impegnative, l’Osceno si lascia leggere con fluidità e leggerezza, e il lettore si ritrova con quella libertà e possibilità, tra pagine scritte e vignette, di saltare da un capitolo all’altro, a seconda degli argomenti che possono interessare in una certo proprio, personale stato d’animo!
È una passione viscerale quella di Vincenti che si propone in ogni opera letteraria con una scrittura ricca, colta e straripante. Un volume robusto “ L’Osceno del Villaggio” sia nella impostazione grafica sia nella parola, dalla copertina originale da tenere se non proprio in borsa, sul comodino o in auto!” |
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