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Mercoledì 27 Aprile 2016 22:17 |
[“Presenza taurisanese” anno XXXIV, n 4 – aprile 2014, p. 6]
Sono usciti in volume, a cura di Antonio Lucio Giannone, gli Atti del Convegno Nazionale di Studi, Melendugno-Lecce, 18-19 novembre 2013, Rina Durante. Il mestiere del narrare (Lecce, Milella, 2015). Il lavoro di riflessione critica sull’opera di Rina Durante ha visto impegnati molti studiosi, diversi per formazione e specifici culturali: Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande, lo stesso Giannone, Beatrice Stasi, Eugenio Imbriani, Simone Giorgino, Fabio Moliterni, Raffaele Aprile, Patrizia Guida, Emilio Filieri, Giovanna Scianatico, Maria Teresa Pano, Franco Martina, Gino Santoro, Massimo Melillo e Carlo Alberto Augieri.
Tanti nomi, perché tanti furono gli aspetti della Durante, che non fu solo narratrice, ma anche poetessa, operatrice culturale, sceneggiatrice, appassionata di teatro, di musica, di tradizioni popolari, meridionalista e giornalista “di molteplici interessi”, come ricorda Giannone nella prefazione. A questo aggiungasi, ma si potrebbe meglio dire si premetta, che la Durante fu insegnante di italiano e storia negli istituti superiori e di sceneggiatura al Dams, che non è un dettaglio da poco. Un professore è come un carabiniere, lo è semel et vicies.
Quale il filo che lega le varie esperienze letterarie della Durante? E’ lei che lo dice: “Io ho sempre avuto una vocazione narrativa. Io so che il mio mestiere, il mio lavoro, è narrare, raccontare” (riferito da Simone Giorgino a p. 111).
In verità le motivazioni dominanti nell’opera della Durante sono almeno due, per un verso l’estetico-letteraria e per un altro la politico-ideologica. Per Gino Santoro, che le fu sodale per anni e per iniziative, è “Il lavoro d’impegno civile che ha innervato tutte le produzioni artistiche di Rina Durante” (p. 223). E Massimo Melillo le rivendica “una matrice politica marxista […] che assume in sé il conflitto sociale tra sfruttati e sfruttatori” (p. 233), di qui “la necessità di restituirle un primato politico e culturale” (p. 235). Il che mette decisamente in secondo piano il punto di vista estetico-letterario o, quanto meno, lo problematizza.
In genere, a fronte di intellettuali e scrittori salentini, che in qualche modo ricalcano una sorta di specimen, si parla di poligrafi. La poligrafia in effetti ne caratterizza gran parte; e non da ora. Essi, con qualche eccezione, non vanno quasi mai oltre un romanzo, per lo più breve, alcuni racconti, una raccolta di poesie, qualche saggio e sperimentazioni espressive varie, quasi sempre intorno ad un tema, quello del Sud, della meridionalità e della marginalità, de finibus terrae, raccontato con poetiche importate. Scrittori per una volta, si potrebbe dire. Salvatore Paolo con “Il canale” (Nuova Accademia, 1962) e Salvatore Bruno con “L’allenatore” (Vallecchi, 1963) raggiunsero l’editoria importante, per poi spegnersi o quasi. Anche se bisogna mettere in conto le difficoltà editoriali. Nel caso di Salvatore Paolo, osservava Giannone in un suo scritto di qualche anno fa, numerose sono le opere rimaste inedite (Profilo di Salvatore Paolo, 2008).
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Giovedì 21 Aprile 2016 17:10 |
Al mondo greco- romano ha da sempre rivolto l’attenzione Eva Cantarella nella sua lunga carriera di studiosa, e lo fa anche in questo ultimo libro: “Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico” (Feltrinelli 2015), scritto in uno stile semplice, divulgativo, a vantaggio di un pubblico ampio ed eterogeneo, non composto esclusivamente da specialisti della materia.
Eva Cantarella, che ha insegnato Diritto Romano e Diritto Greco all’Università di Milano, è oggi visiting professor alla New York University Law School. Importantissimi i suoi studi su usi e costumi del mondo greco romano, i suoi saggi sono dei capisaldi sulla materia. Fra i più interessanti, ricordiamo: “Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico”, (Roma 1988), “I supplizi capitali in Grecia e a Roma”, (Milano, 1991), “Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia”, (Milano, 1996), “Pompei. I volti dell'amore”, (Milano, 1998), “Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto” (2002), “ L'amore è un dio (Milano 2007) , “Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell'antica Roma” (Milano, 2009), “L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana”, (Roma 2010), “Perfino Catone scriveva ricette. I greci, i romani e noi”, (2012).
Al centro del libro, i rapporti padre-figlio, analizzati in una luce esclusivamente storica, come l’autrice non manca di sottolineare nella sua premessa: “gli strumenti per affrontarli in campi diversi appartengono ad altri”, scrive, “ai sociologi, agli antropologi, agli studiosi della famiglia moderna…”. È chiaro però che il libro propone una riflessione ampia, articolata, stimolante, anche per chi non possegga competenze specifiche . Partendo da Omero, con i suoi poemi epici, e da Esiodo con la sua Cosmogonia, per arrivare alla tragedia e alla commedia dell’età classica, la studiosa propone uno specimen di rapporti generazionali, fra leggenda e realtà, fra storia e invenzione narrativa, che si presta ad approfondimenti, che chiama in causa il nostro intimo vissuto, che sollecita dubbi, favorisce domande, suggestioni.
Dopo aver accennato alla grande famiglia allargata di Zeus olimpico, l’autrice si sofferma sui poemi di Omero (“il primo storico della gentilità” lo definisce, citando Vico) e, tratti dall’Iliade e l’Odissea, analizza tre rapporti padre-figlio: Ulisse-Telemaco, Nestore-Pisistrato, Ettore-Astianatte, nell’ambito delle rispettive famiglie a Itaca, a Pilo e a Troia. Nella prima, viene fatta luce sul controverso ruolo di Telemaco che, più che dare prova di grande virilità e coraggio, secondo l’autrice dimostra di non essere all’altezza del padre nei confronti degli itacesi e anche della sua stessa famiglia, di non avere insomma la stoffa del capo, nonostante ormai uscito dalla ephebia, cioè divenuto maturo; e anche nel viaggio alla ricerca del padre fallisce completamente la propria missione. In questo brano, l’autrice approfitta per sfatare un mito (e sia perdonato il gioco di parole), cioè quello della fedeltà di Penelope, dimostrando come molti e forse fondati dubbi nutrissero, sia Telemaco sulla propria paternità, e sia Ulisse sulla fedeltà della moglie. Prendendo spunto poi dalla famiglia di Ettore e Andromaca, una interessante parentesi potrebbe aprirsi sulla disciplina dei figli illegittimi, pratica molto diffusa in Grecia, in quanto quasi tutti gli uomini sposati concepivano anche al di fuori del matrimonio; questi figli (“spuri”, venivano definiti) erano di prassi regolarmente ammessi nella casa coniugale del padre e finanche amorevolmente curati dalla moglie la quale, in determinate circostanze, come dimostra proprio l’esempio di Andromaca, era disposta ad offrire il seno ai pargoli per non amareggiare il marito.
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Martedì 19 Aprile 2016 08:46 |
L'ultima raccolta di versi di Daniela D'Errico (Tracce di eden, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2015) si compone di due parti molto diverse tra loro. La prima è costituita, come vuole la consuetudine, da frammenti lirici di varia estensione. La seconda offre un interessante esperimento che ruota attorno al rapporto incrociato tra poesia ed immagine, e si articola in due sezioni: poesie dell'autrice illustrate da immagini di Francesco Cuna e pitture di Francesco Cuna commentate da poesie dell'autrice.
In questa mia proposta di lettura ho deciso di tenere le due parti nettamente separate, in quanto appunto diverse, non solo tipologicamente, ma anche geneticamente: infatti la prima parte è, se vogliamo, crocianamente autonoma, poiché nasce da impulso spontaneo dell'autrice, la seconda è eteronoma perché ha un punto di origine esterno. Un'eccezione si potrebbe fare per le poesie della prima sezione della seconda parte (poesie illustrate da immagini) perché anche qui l'origine dei componimenti è all'interno dell'autrice, ma per comodità in questo caso la tipologia prevale sulla genesi.
La prima parte del libro si può definire più complessivamente con le parole del titolo, che ha una sua ragion d'essere se è dato dall'autore: Tracce di eden. E il titolo si precisa meglio se letto nel contesto della lirica da cui è tratto (Vita n. 2, p. 62):
Sprazzi di senso
nella realtà d'ogni giorno
tracce di eden
epifanie del bello.
Sotto il titolo Vita i versi ci dicono che "nella realtà d'ogni giorno", cioè nello scorrere ordinario della vita, vi sono dei momenti speciali che costituiscono "sprazzi di senso, tracce di eden, epifanie del bello". Diluendo un poco la naturale densità del discorso poetico, possiamo inferire che in quei momenti la vita acquista un senso (ma allora, per implicazione, il resto della vita non ha un senso o un senso minore?), compaiono i residui di una felicità perduta, espressa appunto dal topos dell'eden (senza significati religiosi, per via della minuscola; ma allora il resto della vita è infelicità o soltanto ordinarietà?), si manifesta la bellezza (e quindi il resto della vita è bruttezza o almeno grigiore?). L'uso, poi, di termini quali "sprazzi", "tracce", denuncia il carattere effimero di questi momenti (ed anche, a ben vedere, "epifanie" ).
Comunque il verso "tracce di eden", assunto a titolo del libro, vuole suggerire che i componimenti ivi contenuti rispecchiano i momenti in cui tali tracce si sono manifestate.
Dunque la poesia di Daniela D'Errico è poesia di momenti che balenano nella realtà d'ogni giorno. Anzi di attimi, come ella stessa fa capire, rivolgendosi all'attimo con un tono non si sa se di comando o di implorazione (Un ricordo, p. 58):
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Sabato 16 Aprile 2016 05:45 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 12 aprile 2016]
Come accade in una giovinezza, in una di quelle giovinezze che si ha tanto da scrivere e si sente una frenesia nelle dita, ecco, nella giovinezza dei suoi novantatré anni, Giovanni Bernardini ha tanto da scrivere. Con una differenza, forse. Nella giovinezza, nella stagione che va dai venti ai trent’anni, si pretende, ingenuamente, di scrivere del mondo; in quella che va dagli ottanta in poi si accetta, saggiamente, di scrivere di sé. Con un confronto spietato, senza indulgenze, senza timori, senza false umiltà, senza ipocrisie, senza ambigue mediazioni. Un duello, un corpo a corpo. Anche perché non si può indulgere, non si può mediare, non si può fingere: c’è un’ombra che sorveglia, che smaschera e rivela l’identità autentica. “Il vecchio e l’ombra” è il titolo che Bernardini ha dato all’ultimo suo libro edito da Esperidi con una puntuale prefazione di Franco Martina. Venti dialoghetti. Sulla morte. Quando è questa la cosa che si pensa, che si scrive, quando è questa l’angoscia, il rovello, l’orizzonte, non è che ci sia tempo e parole per premesse, per diramazioni del discorso, per le digressioni. Tutto converge verso quel nucleo esistenziale, semantico, quel grumo. Con una scrittura asciutta, essenziale, che sembra quasi rifiutare l’aggettivazione, tesa alla confessione o alla scoperta, alla metafora esplicita, tagliente. Il modello mi pare quello del dialogo filosofico finalizzato all’indagine, all’analisi, condotto attraverso una logica serrata, che giunge alla dimostrazione adottando il metodo della comparazione. In realtà il lavoro poetico e narrativo di Bernardini è stato sempre caratterizzato da una venatura filosofica, che in questo caso si struttura nella relazione tra la domanda e la risposta conseguente ad un ragionamento che, nel suo svolgersi, scarta progressivamente gli elementi secondari per trattenere quelli fondamentali, dimostrandoli con il riferimento all’io, all’esperienza personale, alle circostanze, ai fatti, agli accadimenti quotidiani. Nell’opera di Giovanni Bernardini, la costante componente autobiografica probabilmente risponde proprio a questo metodo, a questa esigenza. Il vivere serve a fornire la prova di quello che si pensa, e quello che si pensa viene provato dal vissuto. La scrittura costituisce la rappresentazione del vissuto, della riflessione sul vissuto e della riflessione sulla stessa scrittura, che in questo libro si propone in modo significativo sintetizzandosi particolarmente nell’ultimo dialogo, che Giovanni usa anche per ribadire la natura del suo pessimismo.
L’ombra sa già tutto. Di ogni domanda conosce la risposta. L’ombra è il vecchio stesso oppure è colui che ha dato vita al vecchio. (Non so se Giovanni potrebbe accettare di chiamarlo Dio). Le domande incalzanti, assedianti, che pone al vecchio hanno soltanto la funzione di consentirgli il racconto. Quindi, se da un punto di vista psicologico è un alter ego, una proiezione dell’io, da un punto di vista narrativo costituisce un elemento di metodo. L’ombra serve a far raccontare al vecchio quello che sa, quello che sente, quello che vuole. Ma serve anche, o forse soprattutto, a consentire al vecchio di giustificare a se stesso il suo racconto. Gli permette, se è il caso, di dire che non voleva raccontare, non voleva scrivere ancora, non voleva scrivere più, perché a un certo punto il racconto si fa sempre più doloroso, a un certo punto scrivere non dà più consolazione, ma qualcuno – un’ombra – gli ha fatto le domande e il vecchio non ha il costume di negare le risposte. Mai. Su niente. A nessuno. Quest’altro libro forse il vecchio non lo voleva scrivere; ha dovuto; ha dovuto scriverlo per non negare le risposte.
Ma i lettori di Giovanni Bernardini esprimono la loro gratitudine all’ombra che ha posto le domande, costringendo il vecchio a dare le risposte.
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Sabato 26 Marzo 2016 17:22 |
“La malapianta” è un romanzo di Rina Durante (1928-2004), pubblicato nel 1964 nella collana “Zodiaco” della Rizzoli. La Durante aveva esordito giovanissima con una raccolta di poesie, “Il tempo non trascorre invano” (Misura 1951), ed era stata collaboratrice del periodico letterario “Il Critone”, importante rivista giuridico-culturale, guidata per la parte letteraria da Vittorio Pagano. La Durante fu segretaria di redazione della rivista dal 1961 fino al 1966. E proprio sulle pagine del “Critone” pubblicò nel 1963 il racconto “Tramontana”, da cui Adriano Barbano trasse il film omonimo del 1965. Rina Durante, che viveva a Melendugno, si trasferì per motivi di lavoro a Roma e collaborò con Giovanna Marini nell’ambito degli studi demo etno antropologici che divennero poi una costante del suo impegno di intellettuale militante . Dopo “Da verga a Balestrini. Antologia della condizione meridionale” (Saedi 1975), pubblicò “Tutto il teatro a Malandrino” (Bulzoni 1977), poi “Il sacco di Otranto” (Adda 1977), “Lecce e la sua provincia” (Adda 1981), e soprattutto “Gli amorosi sensi” (Manni 1996), con Prefazione di Maria Corti. “La malapianta” rimane dunque un unicum nella sua lunga carriera ed è ormai un classico della pubblicistica salentina. Oggi (2014) questo libro viene ripubblicato da Zane Editrice per le cure di Antonio Lucio Giannone, che ne scrive una puntuale Introduzione. Un unicum, dicevamo, perché la Durante, autrice versatile, profuse i suoi interessi su tante e diverse tematiche, tutte comunque accomunate dal fil rosso della sua passione civile e del suo impegno militante. Si occupò di teatro, di musica e tradizioni popolari, riprendendo gli studi di Ernesto De Martino e fondando il “Canzoniere Greganico Salentino”, e collaborò con la Rai tv e con la radio alla produzione di documentari di carattere antropologico. Proprio dal suo “Il sacco di Otranto”, la Rai trasse uno sceneggiato per la radio trasmesso nel 1977. Pubblicò racconti e saggi, su volumi e riviste. Prestigiosa la sua collaborazione con la Guida dell’Espresso e importanti le sue pubblicazioni sulla cultura enogastronomica del nostro territorio; significativa anche la sua lunga collaborazione con la rivista leccese “Qui Salento”. Nel 2005 venne pubblicato, postumo, “L’oro del Salento. Per una storia sociale dell’olio d’oliva in Terra D’Otranto”, a cura di Massimo Melillo (Besa).
“La malapianta”, come spiega A.L. Giannone nell’ Introduzione, è un romanzo che, pur nato in un periodo storico caratterizzato dal punto di vista letterario dalla corrente del neorealismo, se ne distacca in realtà, sebbene i personaggi e gli ambienti descritti portino a pensare a quell’epopea di miserabili e a quelle atmosfere di arretratezza e di emarginazione in cui viveva il Sud in quegli anni. Si tratta invece di un romanzo dalle forti connotazioni psicologiche e il malessere che accomuna tutti i personaggi della storia conferisce al libro una connotazione esistenzialistica. “Solitudine, incomunicabilità, inettitudine, alienazione, aridità interiore, nessuno di essi sembra sfuggire a questo ‘male oscuro’”, scrive Giannone facendo riferimento all’opera di Giuseppe Berto, appunto “Il male oscuro”, coeva a quella della Durante. Il romanzo narra la storia della famiglia Ardito ed è ambientato a Melendugno negli anni della Seconda guerra mondiale. A proposito della genesi del libro della Durante, apprendiamo che, nella sua prima versione, esso non incontrò il favore di Elio Vittorini, al quale la scrittrice lo propose in lettura. Purtroppo non si dispone della prima versione, sicché non si può operare un raffronto. Tuttavia appare interessante leggere quanto Vittorini scriveva alla Durante e capire poi come l’autrice abbia fatto tesoro dei consigli del grande scrittore e abbia, non sappiamo se parzialmente o radicalmente, modificato la struttura del libro. “La malapianta” venne insignito nel 1964 del prestigioso Premio Salento, la cui motivazione è riportata in Appendice insieme ad una bella foto che ritrae la giovanissima autrice mentre riceve le congratulazioni di Maria Bellonci , che della giuria faceva parte insieme a Mario Sansone, Bonaventura Tecchi e Sandro De Feo. Nella presente ripubblicazione compare anche una scheda bio-bibliografica della Durante, curata da Simone Giorgino. Inoltre, nell’Appendice, vengono riproposti uno scritto di Massimo Melillo, “In memoriam”, e uno di Francesco Guadalupi, “Un mondo magico e disperato”. La foto dell’autrice che compare sull’aletta di retrocopertina la ritrae col cappello da marinaio in testa e rimanda all’altra grande passione della Durante, quella per il mare e la navigazione, e su questi aspetti intimi ma non meno importanti della vita privata della scrittrice e critica letteraria si sofferma proprio Melillo nel suo commosso ritratto dell’amica e collaboratrice. “La malapianta” proiettò la Durante su una ribalta ben più ampia di quella provinciale e segnò la sua affermazione come scrittrice di vaglia e intellettuale attenta alle problematiche del territorio.
Il libro dunque si allontana dagli schemi collaudati del neorealismo per avvicinarsi al romanzo moderno del Novecento. Soprattutto l’analisi psicologica dei personaggi, le problematiche affrontate, della solitudine e dell’incomunicabilità, di una aridità dei sentimenti che si riflette nel paesaggio stesso teatro della narrazione, e poi il linguaggio usato, che, soprattutto nelle parti descrittive, è abbastanza lirico, sul modello della prosa d’arte novecentesca, come ben chiarito da Giannone; tutti questi elementi insomma, ne fanno un esperimento originale, una scrittura di mezzo, fra la prosa neorealista del dopoguerra e l’avanguardia letteraria della seconda metà del Novecento. Ciò detto, il libro è tutto da leggere, non solo per il suo valore documentario, perché è doveroso conoscere un classico come questo, ma anche perché la fabula è ben congegnata, l’intreccio narrativo avvince e convince. |
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