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Venerdì 22 Gennaio 2016 19:29 |
[in "Presenza taurisanese" anno XXXIV n. 1 (279) del gennaio 2016, p. 6.]
Ludovico Ariosto è tra i poeti italiani più visitati, forse secondo solamente a Dante. E’ in un certo senso l’autore che più di altri esprime l’italianità, col suo essere duplice, critico e nello stesso tempo rispettoso della realtà, con quell’equilibrio tipico di chi cerca la libertà nel sentirsi necessariamente servus dei tempi e dei loro dominatori, con la sua straordinaria apertura e il suo sentirsi bene nel chiuso della sua piccola casa di Ferrara. In essa a nessuno può sfuggire un moto di sorpresa pensando alla grandiosità della corte estense, alla meravigliosità dei castelli incantati e alle mirabilanti invenzioni poetiche del suo abitatore.
Su di lui tornano periodicamente i critici e gli scrittori con contributi sempre molto suggestivi e innovatori, da De Sanctis, a Croce, a Caretti, a Calvino, per segnare solo alcune tappe.
Ludovico Ariosto (Roma, Ediesse 2015, pp. 260) di Luigi Scorrano, nel cinquecentesimo anniversario dell’ “Orlando furioso” (1516), non coglie di sorpresa chi conosce l’Autore e sa che per l’Estense ha una particolare predilezione. Forse per quel comune ritrovarsi nelle strettoie del lavoro-servizio, che non consente di darsi interamente all’otium, come chi ama la scrittura vorrebbe.
C’era da “impazzire” dover studiare diritto e sentirsi vocato alla poesia, dover obbedire agli ordini, a volte svilenti, della corte – da poeta mi feo cavallaro, dice l’Ariosto pensando al Cardinal Ippolito – e non sentirsi considerato per il proprio valore di poeta, dover amare una donna di nascosto, dover mantenere la numerosa tribù di fratelli e accettare di fare il governatore di una regione infestata da ribaldi, in cui non era facile neppure distinguerli dai non ribaldi.
La via d’uscita Ariosto la trova con la narrazione poetica. Il suo personaggio principe, Orlando, vive l’angustia della vita al massimo grado di avvilimento e d’impazzimento. E se alla fine l’Autore lo salva facendogli recuperare il senno perduto, vale anche per sé. «La richiesta di Orlando – dice Scorrano – è di essere sciolto dai vincoli in cui è stato stretto nel suo periodo di follia; ma adombra l’istanza, amabile, del poeta di essere sciolto dal vincolo tenace della narrazione in modo da riacquistare la libertà sua prima» (p. 97).
E’ un discorso complesso, intrecciato, dove autore e personaggio si fondono, si sciolgono e si propongono al pubblico ognuno con la sua peculiarità esistenziale ma entrambi in esempio all’individuo di ogni tempo. Il parallelismo autore-personaggio Scorrano lo esplicita: «Ariosto è Orlando, entrambi un tempo savi ora resi matti dall’azione di Amore. Orlando è il modello al quale si conforma, non per scelta ma per impossibilità di sfuggire a una sorta di fatalità, il poeta. Il romanzo di Orlando è, in controluce, il romanzo di Ludovico, però con le attenuazioni introdotte nel racconto dalla capacità di rivolgere verso i propri comportamenti e sentimenti uno sguardo ironico, disincantato» (p. 183).
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Martedì 22 Dicembre 2015 09:41 |
["Il filo di Aracne" anno X, n. 5, novembre-dicembre 2015, pp. 20-21]
S’intitola Respiri di pietra. Monumenti megalitici del Salento (Lupo Editore, Copertino 2014) il libro fotografico che il ligure, ma milanese d’adozione, Leonello Bertolucci ha voluto donare alla Terra fra i due mari, l’antica Messapia. Un libro dalla copertina nera, dal cui centro sorge come un astro lucente la silhouette del maestoso trilite denominato Chianca di S. Stefano di Carpignano Salentino. La luce che dalla pietra si fa cogliere dal fotografo è strana e coinvolgente: infatti, il gioco di luci e ombre l’antropizza a tal punto da farcela percepire come energia vitale.
Dal suo blog sappiamo che egli è «nato in Liguria e approdato a Milano negli anni Ottanta, ha intrapreso la strada del reportage fotografico lavorando per alcune testate e agenzie italiane; in seguito hanno avuto inizio collaborazioni internazionali tra cui quella con l’agenzia “Sygma” di Parigi. Sue foto sono apparse su testate quali “Time”, “Newsweek”, “Stern”, “Paris-Match”, “Epoca”. Ha fondato e diretto per alcuni anni un’agenzia fotogiornalistica, mentre oggi continua a fotografare e condurre tutta una serie di attività nel campo della cultura fotografica: vengono pubblicati suoi libri d’immagini e allestite sue mostre, organizza eventi ed è docente in corsi e scuole di fotografia. È consulente in campo editoriale e multimediale, ed è chiamato anche a ricoprire il ruolo di photo editor in redazioni di giornali; ha scritto il primo libro in Italia sull’argomento, col titolo Professione Photo Editor. Della sua attività si sono occupate riviste di fotografia come “Fotopratica”, “Il Fotografo”, “Nuova Fotografia”, “Photo”, “Photographia”, “Techno Photo”, “Gente di Fotografia”, “Fotocomputer”. Gli piace giocare, e nelle edizioni del “Pulcinoelefante” [editore d’arte, che stampa in proprio rari esemplari di bibliofilia] le sue fotografie giocano con testi, tra gli altri, di Alda Merini, Tonino Guerra, Enzo Sellerio».
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Mercoledì 09 Dicembre 2015 11:56 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 6 dicembre 2015]
Quando ho cominciato a leggere La parte cattiva dell’Italia, il poderoso saggio di Valentina Cremonesini e Stefano Cristante su Sud, media e immaginario collettivo, il pensiero è andato immediatamente ad un vecchio libro di un grande vecchio amico: il libro si intitola Terzo Sud e il grande amico è Aldo Bello, che dopo aver fatto l’inviato in tutto il mondo per la Rai, adesso starà battendo qualche reportage sui tasti della sua Olivetti in qualche parte del cielo.
Era il Sessantotto e Aldo Bello scriveva che a quel tempo tutti parlavano del Sud. Non solo coloro che ne erano direttamente interessati, ma anche organismi non investiti esclusivamente del problema; uomini e fogli d’informazione che con il Sud non avevano mai voluto avere niente da spartire; politici, tecnici, economisti, che avevano sempre guardato con sospetto alla questione; scrittori e giornalisti italiani e stranieri che il Sud d’Italia lo avevano appena sfiorato nelle loro scorribande letterarie e gazzettiere.
Così, diceva, dunque. A pensarci appena appena, viene da considerare che forse in quasi mezzo secolo non è cambiato niente. Tutti parlano e scrivono del Sud, ma pochi ci entrano davvero, pochi trivellano le superfici, osservano, leggono e interpretano con metodi e strumenti coerenti i suoi fenomeni, analizzano e comparano gli elementi particolari riconducendoli in una visione complessiva. Negli ultimi anni, per esempio, la letteratura e la saggistica divulgativa sul Sud molto spesso hanno avuto l’obiettivo dello scoop: pienamente raggiunto. Perché il Sud fa comunque sempre notizia e mercato.
Il volume di Cremonesini e di Cristante, invece, ha altre finalità, altre qualità, altro spessore: è un’analisi che mostra com’è veramente il Sud: da dentro. Gli strumenti sono quelli della ricerca sociologica, ma c’è una condizione che costituisce il movente della ricerca, che l’attraversa e che affiora anche se – forse - gli autori avrebbero voluto che restasse sempre sotterranea: una passione. Del Sud. Per il Sud. Una passione civile. Che vuole smantellare luoghi comuni, falsi miti, logore figure dell’immaginario, facili alibi, rappresentazioni da folclore, artificiose elaborazioni. Perché un Sud falso nuoce a tutti, a tutto, e soprattutto al Sud. Se un dibattito sul Sud e sulla sua questione ci deve ancora essere, ed è giusto che ci sia, deve fondarsi su cognizioni, analisi, e non più su fantasie; deve avere come situazione di partenza un nuovo pensiero di Sud, che contemperi passato, presente e prospettive.
Se questa è la strada da seguire, non si può non considerare che i media svolgono una funzione essenziale non solo nella maturazione di un nuovo pensiero del Sud ma anche nella elaborazione di un nuovo sentimento, di una nuova passione.
Ma in questo senso c’è ancora molto da fare.
Se, per esempio, come rileva Stefano Cristante, le modalità di trattazione del Sud da parte del TG1, non sembrano aver subito nel corso del tempo vistose trasformazioni o innovazioni, se i modi della narrazione sembrano ancora oggi “galleggiare in un’immagine del Sud che promuove l’idea di un luogo aspro, misterioso e difficoltoso (che, aggiungo, se non è proprio come quello dei viaggiatori stranieri del Settecento poco ci manca), vuol dire che c’è ancora molto da fare.
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Venerdì 04 Dicembre 2015 07:07 |
[IN WWW.LINKIESTA.IT novembre 2015]
“L’ombra della madre” di Paolo Vincenti, pubblicato da Kurumuny Editore, non è solo un noir in cui si intrecciano le storie di Francesca, Riccardo e Fabrizio, ma è soprattutto un romanzo psicologico nel quale si possono trovare sottili congiunzioni nella mente dei protagonisti che rivelano tra le pagine di un libro avvincente e ricco di pathos, dell’incredibile.
La trama ambientata nella cittadina leccese con vari richiami all’arte, alla storia, alla cultura, alla musica e alle tradizioni del Salento, è resa intricata per via dei misteri che cela con grande abilità Francesca Colasanti, una donna intelligente, affascinante e sensuale, ma con un risvolto inquietante della propria vita. Docente di Storia delle religioni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, dopo gli anni trascorsi a Roma, Francesca agli occhi di chi le sta intorno risulta irresistibile eppure nella sua apparente determinazione e sofisticata spigliatezza c’è un lato oscuro che si svelerà lentamente. Ed è nella sua città d’origine che Francesca tenta di trovare il senso della sua vita. Intorno a questa figura intrigante e amletica c’è Sauro, il suo ex compagno, un uomo violento che non accetta la separazione da Francesca; Fabrizio, il suo amante, e Riccardo Valentini, professore alla sua seconda laurea, al quale è affidato il complesso compito di districare i nodi esistenziali della donna della quale si innamora perdutamente anche per l’aurea di mistero che la circonda. “Privilegio e dannazione: questo significava averla conosciuta”. Riccardo frequentando Francesca diventa sempre più consapevole di qualcosa di imponderabile che caratterizza il loro rapporto: “Sei bella e perversa” le diceva “e io sono caduto nella tua trappola, ci sono caduto e non ne so più uscire”. Con lei “Donna diabolica e bambina innocente, spudorata e selvaggia, eppure fragile e quasi ingenua” il ragazzo scopre una parte della propria natura rimasta per anni quiescente.
Essenza di questa storia è la ricerca storico-religiosa che prevale nel romanzo “L’ombra della madre” tanto da risultare impregnato di un aspetto arcaico ed esoterico come il rito ancestrale a cui lo scrittore già autore di vari testi, differenti tra loro ma simili nello stile raffinato e incisivo, fa riferimento. Si tratta di un culto antichissimo, orgiastico e salvifico che si praticava a Roma durante i primi secoli dell’Impero. “Fra canti languidi, musiche ossessive e danze vertiginose, i fedeli delle Magna Mater Cibele e del dio Attis si abbandonavano completamente alla mistica ammaliati dallo splendore e dalla pompa delle feste” .
Con richiami all’antropologia culturale e dettagli che rendono il volume oscillante tra un fantasy e un noir, padroneggia la bellezza senza tempo di una terra come il Salento alla quale le si attribuisce quell’aspetto magico che caratterizza una storia resa peculiare grazie all’abilità letteraria di Vincenti che squarcia quella patina un po’ stucchevole attribuita ad un territorio che in realtà sa essere in grado di sorprendere e stupire. Ne “L’ombra della madre” emerge un fascino celato da un buio depositario di segreti e rivelazioni.
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Giovedì 26 Novembre 2015 07:18 |
[ne “Il filo di Aracne”, settembre-ottobre 2014]
L'Una e Due, titolo ambivalente, forte, enigmatico, incisivo, versatile, con il quale lo scrittore Paolo Vincenti ci presenta il suo ultimo lavoro. Un' opera composita, che raccoglie alcuni brani già presenti nella sua pubblicazione “Danze moderne” e che nel nuovo scenario letterario divengono “note” debordanti di vita, che animano e ritmano le Disco(r)Danze, sottotitolo altrettanto poliedrico da cui si possono estrapolare svariate chiavi di lettura:
“Guarda questo ritmo come sale senti questa musica da amare guarda questo ritmo che ti prende...” […]
Un libretto a tiratura limitata, edito da La fornace, destinato a pochi e fortunati eletti, che, mi auguro in un prossimo futuro, possa raggiungere il maggior numero di lettori possibile.
“Parole reali parole immaginate parole che camminano nel mondo parole di dolore parole di allegria parole di tristezza parole parole che rincorrono altre parole...” […]
Un “groviglio di parole”, dunque, di cui L'Una e Due ne costituiscono i rispettivi bandoli.
Si può decidere di tendere il filo iniziando da L'Una o, viceversa, da Due. Si può anche decidere, però, di lasciarsi imbrigliare nel “composismo lirico”, quel ludico ingranaggio letterario da cui nasce, come Venere dalla spuma del mare, la bellezza distica e multiforme del verso e della prosa dello scrittore Vincenti, abbandonandosi fideisticamente ai suoi giochi di “Luna”. “Cantami o Diva” potrei citare, in un riverbero evocativo, pensando all'autore che, come un navigante, molla gli ormeggi per solcare il procelloso mare d'inchiostro, lasciandosi guidare dal canto e dall'incanto di una moltitudine di voci diacroniche che soffiano, sulla vela della sua nave, aliti di ispirazione (divinus afflatus), indicandogli, di volta in volta, l'attracco su terre lussureggianti o brulle. E su queste terre, dall' humus così variegato, brulicante di policromie letterarie, è possibile incontrare mentori e muse, di oggi e di ieri, del tempo andato, nel tempo corrente e al tempo futuro...perchè no! Sì perchè, il filo teso da un capo all'altro de L'Una e Due, vibra scandendo proprio il tempo che, come conferma lo stesso autore nella sua nota personale, rappresenta il leit motiv che lega e muove tutta l'opera.
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