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Mercoledì 12 Novembre 2014 07:57 |
["Il Galatino" anno XLVII n. 17 del 31 ottobre 2013]
Viviamo nel tempo dell’affievolirsi della luce in un luogo che era un incanto, un lembo di terra dove non vi era urgenza del fare, vigeva l’orologio della lentezza delle tradizioni, con un sole pacato, un mare azzurro congiunto al cielo, una campagna di alberi d’ulivo, fichi d’india, grano e vitigni, muri a secco, orti e ortolani, sinfonia d’autunno, contadini temprati nell’acciaio della fatica. Questa è la narrazione del Salento, della memoria della gente e del luogo, trascritta da Wilma Vedruccio nel suo libro La casa del sale. Storie di un altro Salento (Kurumuny edizioni).
Un altro Salento. Quello che non è mercificato e riesce a mantenersi nella tradizione orale, svincolato da false ideologie moderniste che fanno perdere il senso di ciò che siamo stati. Che cosa dobbiamo dunque chiederci e fare a questo proposito per evitare il pericolo dell’ovvio? Partire dall’evidenza di tutto quanto è ancora a disposizione dei nostri occhi e della nostra memoria. Non è una questione di verità, né un tentativo di ricerca di un qualunque fondamento veritativo, ma una riaffermazione di un canto corale che nel corso dei secoli si è trasformato in sapienziale esistenza di una gente che non ha mai perso di vista il sacrifico e ha saputo riscattare il dolore dalla brutalità del suo accadere. Gente forte in un luogo che era un incanto. Era. Non lo è più. Il messaggio è fin troppo chiaro: Storie di un altro Salento. Vedruccio nelle sue storie sembra avvertire il sentimento, sempre più acuto, della mancanza di tempo, la fretta che uccide presente e futuro, condensando nella nudità dell’accelerazione l’indifferenza, o peggio la scomposizione di misteri di bellezza naturali in fragili emotività che depauperano la quotidianità di significato.
La Casa del Sale è la casa di un tempo andato, consumato, che potrebbe vivere nella memoria. Era così chiamata in paese, e si diceva un po’ questo e un po’ quello sul suo passato, storie di contrabbandieri, leggende d’amore e di coltelli… Brrr, brividi di paura, che quelle incrostazioni, quelle pietre sgretolate certo non facevano svanire.
La Casa del Sale è il pretesto narrativo per intessere in un ricamo letterario di storie e di personaggi, ma anche di luoghi mitici e irreali.
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Martedì 11 Novembre 2014 07:47 |
Diceva Bertolt Brecht che davanti alla conoscenza dei moventi delle loro azioni, i grandi hanno messo il sudore. E Sergio Luzzatto, nel suo Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi 2009, deve averne spremuto parecchio non per trovare la verità, che non è roba per persone serie, ma per aprire una via di conoscenza della figura di padre Pio con gli strumenti propri della storiografia. Già nelle prime pagine del libro egli dichiara espressamente che obiettivo della sua ricerca non è quello di accertare l'autenticità o meno delle stimmate del frate di Pietrelcina, quanto di misurare la portata storica della devozione garganica e di conoscere quei “rituali d'interazione” che la santità sviluppa come pratica sociale. In questo senso Luzzatto può giustamente affermare che i santi contano non per ciò che sono ma per come appaiono. Aver sviluppato coerentemente e rigorosamente tali presupposti, ha consentito all'autore di ricostruire la vicenda di padre Pio in stretta relazione con la più complessiva storia d'Italia. Ma non nel senso, un po' banale, che quest'ultima fa da sfondo alla storia singolare del frate, quanto in quella assai più interessante degli intrecci e delle relazioni delle quali fu al centro la vita di padre Pio. Una trama impressionante, perché rigurda non solo ambiti diversi, religioso, devozionale, politico, economico..., ma anche ambiti sociali e intellettuali diversi: gente semplice e intellettuali, attori e politici di ogni calibro.
Un trama che Luzzatto ricostruisce non dal punto di vista sociologico, bensì da quello storico, consentendo, anche, di guardare con una luce nuova, o diversa, alcuni snodi della storia nazionale. E' interessante, per esempio, il racconto del legame stretto tra padre Pio e la nascita del movimento squadrista guidato da Giuseppe Caradonna nel Gargano, protagonita di un'azione politica che doveva anticipare i fatti di Palazzo D'Accursio, consentendo così di parlare in modo meno generico di clerico-fascismo. Ma assai interessanti sono anche le pagine iniziali, dove Luzzatto mette in evidenza come padre Pio “raccoglieva” la più drammatica e diffusa esperienza della guerra: il dolore, la sofferenza, sia fisica che psichica. Qualcosa di difficilmente incanalabile in movimeto politico. Padre Pio “ricevette” le stimmate il 20 settembre 1918.
Ma va comunque ricordato che la vicenda del frate di Pietrelcina si inserisce in un contesto di storia millenaria, già attestata da Strabone, e poi resa particolarmente visibile da un'attenta campagna giornalistica che ebbe all'inizio il suo epicentro ne “Il Mattino” di Napoli.
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Venerdì 31 Ottobre 2014 20:02 |
Finita la lettura dell'ultimo libro di Gianluca Virgilio (Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina, 2014, pp. 146), non si può fare a meno di continuare a riflettere e non solo sulle sottolineature o su qualche nota inserita tra le pagine, quanto sul suo significato complessivo. Il volumetto si compone, infatti, di diversi testi, 26 per la precisione più la ‘Premessa’ e un ‘Preambolo’, ognuno centrato su un fatto, su un luogo, una situazione e quindi con una finalità propria. Solo una lettura completa consente di cogliere il filo conduttore che lega l'insieme dei testi e a essa Virgilio affida l’opportunità di cogliere il significato generale del suo lavoro. Prima di cercare di metterlo in evidenza, è opportuno sottolineare un aspetto del volume che non sembra marginale: la parsimonia di riferimenti o citazioni letterarie, filosofiche o culturali in genere, troppo evidente per essere casuale e tanto più notevole se si considera che l'autore ha una dimestichezza quotidiana con testi classici della letteratura italiana e latina. Poche sono anche le ‘pietre d'inciampo’: termini colti inglesi o tedeschi, greci o latini, cui troppo spesso si ricorre con le più diverse finalità. Insomma, non c'è il solito riferimento al flâneur (di Baudelaire e magari di Leopardi) o a Benjamin ecc. Solo qualche toponimo o termine dialettale inseriti come parte integrante del luogo e del tempo.
Nel ‘Preambolo’, però, Virgilio dà un'indicazione importante per afferrare il bandolo del filo rosso che corre lungo tutti i testi raccolti e lo fa invitando a riflettere sul rapporto tra ‘sostare’ e ‘raccontare’. Dove ‘sostare’ è sinonimo di vivere in un certo luogo, senza alcuna concessione a pretese radici o presunte identità culturali; ‘raccontare’ rimanda invece alla necessità di filtrare criticamente il mondo che ci circonda, quello vicino e quello lontano. ‘Raccontare’, infatti, comporta di trasferire le cose in parole, in concetti e non solo le cose, ma anche gli stati d'animo, i sentimenti, le impressioni. Un processo che non è mai meccanico. E tuttavia può essere più passivo o più attivo, cioè critico, quando ci si sforza di vedere ‘come stanno le cose’, ossia di andare oltre quella sorta di specchio dell'apparenza che ci rimanda la realtà per come siamo abituati a vederla e non per quello che effettivamente è.
Né il sostare né il raccontare si esauriscono in se stessi, in uno spazio privatistico o edonistico, come troppo spesso accade. Anzi, una nota di vigile sofferenza accompagna le due attività. Nel momento in cui si rompe l'incantesimo del consueto, del familiare e lo sguardo va oltre la superficie, ecco che si mostra con evidenza ciò che tutti hanno sotto gli occhi ma nessuno vede: lo sfilacciarsi del tessuto economico, l'indebolimento delle relazioni sociali, l’abbassamento del sentimento non solo civico ma anche umano. Il laboratorio di Virgilio è la sua città, Galatina, una realtà tra le più belle, colte e laboriose del Salento. Anche lì chi ha coraggio può vedere quelli che Giovanni Bernardini definiva ‘i segni del diluvio’. Gli edifici vuoti, i teatri chiusi, i luoghi istituzionali dismessi trasmettono un senso di vuoto, di perdita di quella vitalità da cui erano nati e di cui erano la manifestazione architettonica e quindi plasticamente sociale. E poi la campagna deturpata non solo dalle discariche criminali, rese possibili da interessate disattenzioni, ma anche da quelle non meno devastanti prodotte dalla micro demenza diffusa, mentre avanzano i mattoni e i cartellini colorati che fanno comprendere anche ai più pigri la sproporzione tra il valore di scambio e quello d'uso.
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Venerdì 31 Ottobre 2014 19:52 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 30 0ttobre 2014]
Appena tornato a casa ho messo le mani nello scaffale con i libri di e su Leopardi e ho preso la biografia di Renato Minore. Non i saggi, né le Operette morali, né i Canti. Una biografia. Avvertivo la sensazione di dovermi riprendermi quello che conoscevo dell’esistenza dell’uomo, la sua disperazione e la sua tenerezza, la sua fragilità, l’implacabilità del suo pensiero, la sua ansia lucidissima. La tristezza dei suoi amori. Le sue rabbie contratte.
“Il giovane favoloso” mi aveva disorientato, mi aveva quasi sottratto Leopardi: il mio, perché ciascuno ha il suo Leopardi: se lo è configurato nel corso degli anni, lo ha elaborato, ha lasciato che si stratificasse, lettura dopo lettura, con la lettura degli stessi versi in tempi diversi. In tempi diversi ognuno di noi ha dato un significato ulteriore a quella reticenza terribile e stupenda: “altro dirti non vo’”. A quindici anni significa una cosa, a trenta un’altra, a cinquanta un’altra ancora. A quindici anni ci si domanda che cosa non vuole dire, a trenta si comincia ad intuire, a cinquanta lo si capisce perfettamente, e si capisce perfettamente che ha fatto bene a non fartelo capire quando ne avevi quindici. Mario Martone ha raccontato il suo Leopardi. Quando si racconta un gigante, può anche accadere che il modo in cui la storia viene raccontata a qualcuno non piaccia, che non lo convincano le scelte, le interpretazioni.
Elio Germano è bravo. Bravissimo. E’ riuscito a rendere in maniera superba la sofferenza, il progressivo ingobbirsi, il rovello della mente. In certe scene lo sguardo fugge dallo schermo e perlustra l’infinito. Ha saputo perfino a sottrarsi all’incombenza di un passaggio forzato, che fa sprofondare Leopardi in una scena quasi surreale: quella nei bordelli cavernosi di Napoli.
Credo che quella scena non risulti funzionale a nulla, che non sia neppure necessaria. Comunque sarebbe dovuta essere diversa, meno carica di metafora e più aderente alla realtà. Realizzata con un’altra modalità non avrebbe tolto niente al film; forse avrebbe aggiunto. Leopardi era umano, troppo umano, e nella sua umanità doveva essere rappresentato, in quella circostanza. Com’è accaduto, per esempio, con la sua rabbia al tavolino del bar, quando viene accusato di scrivere poesie cupe. Lì c’era Giacomo: autentico, vero.
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Venerdì 24 Ottobre 2014 16:17 |
«Padre, se anche tu non fossi il mio padre,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amarei».
Camillo Sbarbaro
(da Pianissimo, Firenze 1914)
Nei miei ricordi gallipolini, Augusto Buono Libero, uno pseudonimo di un nome che poi tanto tanto non si discosta da quello vero, altro non era che un signore che allora sentivo muoversi nella cabina di comando di una nave a terra, ma fisicamente un po’ lontano da me. Sapevo che scriveva testi letterari, in particolare quelli teatrali, e che, in un certo senso, riusciva a calcare bene le scene del palcoscenico della città ionica. In questo suo poema, i funerali di mio padre, di se stesso scrive: «(augusto buono libero dov’è di scena?/ al sant’angelo o al castello angioino/ al teatro Garibaldi o all’armi/ alla torre sabea o al circolo della vela)» (cap. XIX).
A Gallipoli, mi dicevano, ed io comunque sapevo, che egli era un militare della Marina portuale, un comandante, un signore che aveva a che fare col mare e con gli uomini che vivevano attorno ai problemi e alle bellezze del più sconfinato continente liquido del pianeta Terra. Sapevo pure che, per via del suo amore per il mare, egli dirigeva una rivista (tuttoggi la dirige), «L’uomo e il mare», che da sempre, con i suoi interventi, ha tenuto (tiene) sveglia l’attenzione dei gallipolini sui differenti problemi della città. Confesso che, a suo tempo, non sempre leggevo questa rivista. Sentivo una certa difficoltà ad affrontarla, forse per via di quella mia giovanile predisposizione ideologica verso le cose del mondo. Forse avevo paura di venire influenzato negativamente dalla lettura di quelle pagine; avevo paura, forse, che mi venissero meno alcuni principi che i miei genitori mi avevano conculcato. Principi che oggi posso tranquillamente individuare come provenienti dalla grande tradizione cristiana, che bene si erano coniugati con gli insegnamenti dall’altra grande tradizione, da me acquisita attraverso gli studi e le esperienze vissute in giro per la penisola e per il resto del mondo, cioè la tradizione legata alla storia del movimento operaio e alle sue gloriose battaglie rivoluzionarie.
Sì, Augusto Buono Libero scriveva testi e li rappresentava teatralmente, sapendo fare buon uso di quelle poche e a volte non ancora sufficienti strutture pubbliche della città. Sapevo anche del suo grande amore per Gallipoli, per questa città del sud, affacciata come una bella sull’antico Mediterraneo, una città la cui grande ospitalità deriva direttamente dalla cultura magnogreca. Una città, ancora, la nostra Gallipoli, che sa essere madre amorevole per un qualsiasi figlio del mondo, e amante dalle braccia aperte per una qualsiasi altra persona che qui vi giunga, provenendo da altri luoghi, da altri emisferi. L’amore di Augusto Buono Libero per Gallipoli è come l’amore profondo per la propria donna, un amore sconfinato e fine, che si perde nelle pieghe della dolcezza del miele in riva al mare.
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