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Sabato 20 Settembre 2014 16:22 |
L’isola della luce (favola sulla nascita di Gallipoli, 2000), di Augusto Benemeglio, è un libro che narra le vicende leggendarie della nascita della città bella. Nell’incipit della Parte prima, là dove, nella prima edizione (Gallipoli 1982), noi leggevamo una prosa altamente poetica, qui, invece, l’autore introduce il testo con dei versi, bellissimi, di voci di fate, di magie che incantano, di dorate fanciulle trainate su per il cielo da aquiloni iridati: «C’era una volta... tanto tempo fa.../ una fanciulla che viveva sulle rive/ di un ruscello incantato dove giulive/ le gazze blu facevano “cra cra cra”// Da Alixias accorreva tanta gente/ per vedere “la fanciulla del torrente”/ Si chiamava Anxa e sapeva donare/ ....». E via poetando. L’autore si servirà ancora di questa sorta d’invasione “di versi” all’interno della narrazione, per poi lasciare scorrere L’isola della luce così come l’aveva pensata all’inizio degli anni ‘80: narrare facendo fluire continuamente il fiume della poesia ora in prosa ora in versi. In questo lungo poema prosastico l’epica è sempre presente: s’insinua continuamente in ogni anfratto, in ogni incastro, in ogni spiraglio. Si tratta di un’opera eccezionale sulla nascita di un toponimo che fa sognare, che t’inonda di profumi di mare, che ti circonda di melodie ancestrali. Questa di Augusto Benemeglio è una prosa poetica che ti soffia armoniose ventate di zefiro che ti fanno spuntare le ali, che ti fanno volare su cieli azzurrissimi, hidruntini, cieli di un San Giuseppe da Copertino, novello «dio della luce», giunto di primo mattino sulla Cherade Achotus, e lì danzare e volteggiare nel cielo davanti alla città-fanciulla fatata, incantata, baciata che, per il poeta capitano di vascello, come pure per noi che leggiamo, di nome fa Anxa, ma anche Kallipolis, ed oggi Gallipoli, cioè la “Bella”.
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Domenica 13 Luglio 2014 06:37 |
L’occasione del primo incontro con l’artista Claudio Vino mi fu data dalla mostra leccese Pasolini Matera, incentrata sul film Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini, organizzata sui materiali fotografici di Domenico Notarangelo, che a quel film non solo aveva partecipato come comparsa (è il centurione romano che ordina al cireneo di prendere la croce di Cristo, nel momento in cui quest’ultimo, sulla via crucis di Gerusalemme, non ce la fa più a reggerla), ma che aveva svolto (ovviamente su richiesta di PPP) le funzioni di suo vigilante (in quanto segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana di Matera), poiché in quel periodo temeva delle aggressioni fasciste. Nell’occasione delle riprese del film, Notarangelo scattò alcune immagini sul set, divenute ormai famose. Egli non era il fotografo di scena (quel compito lo aveva Angelo Novi, già fotografo di altri grandi registi italiani), tuttavia “scattò”, col tacito consenso del regista, quelle foto così straordinarie che mai nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Ma questa, delle eccezionali foto di Mimì Notarangelo è un’altra storia, che merita un capitolo a parte.
Torniamo alla mostra di cui scrivevo prima. Essa stava nella mente di Alessandro Turco il quale, in collaborazione con i figli di Notarangelo (Mario, Beppe e Tony), l’aveva allestita nei locali del Museo della Stampa “Martano e figli” di Lecce. Tra l’altro, Turco previde anche un incontro con l’artista Claudio Vino, in contemporanea con il critico d’arte Alvaro Spagnesi, che tenne una magnifica lezione sulla pittura di PPP. Quando arrivò il turno di prendere la parola l’artista barese, invece che parlare di sé, lasciò parlare alcune immagini di un video intitolato Il nulla lucente. Fu così che vidi per la prima volta questo video clip-opera d’arte.
Ovviamente, al momento, non conoscevo il pittore Vino, e quella fu l’occasione di conoscerci e scambiarci qualche parola, soprattutto dopo la visione del video e dopo aver saputo che quelle struggenti immagini egli le aveva dedicate a PPP e a sua figlia Ilaria, morta giovanissima in seguito ad un intervento chirurgico importante. Mi disse subito che non si era trattato di malasanità, tuttavia la pena che lessi nei suoi occhi fu così grande, che difficilmente riesco oggi che scrivo a cancellarla.
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Martedì 03 Giugno 2014 21:37 |
Nel libro dello sfortunato ricercatore Giorgio Di Lecce (Lecce, 1953-2003), La danza della piccola taranta. Cronache da Galatina: (dalla parte dei protagonisti): 1928-1993. A memoria d’uomo, alla compilazione del quale avevo contributo, nella parte iniziale, per volontà di Giorgio, riportammo i nomi delle persone che, dicendosi di essere state tarantate, ci avevano rilasciato delle interviste. Alcuni loro nomi sono veri, altri pseudonimi.
I danzatori: Anna di Ruffano, Luigia (La furnara) di Cannole, Donna Pina di Scorrano, Carmela di San Pietro Vernotico, Maria di Nardò, Evelina di Galatone, Ziu Peu di Caprarica di Lecce, Luigi (Cevelli) di Acaya, Paolo di Borgagne, Pino Zimba di Aradeo, Tore (Tremolizzo) di Cannole, Peppina di Muro Leccese, Antonio di Cannole, Tore (Greco) di Badisco.
I musicisti: Luigi Stifani di Nardò, Pantaleo Stifani (fratello del primo) di Nardò, Luigi Cecere di Nardò, Donna Rosa di Muro Leccese, ‘Nzilla di Ostuni, ‘Zì Gaetano di Ostuni.
I testimoni coinvolti, con interviste, o con interventi, o con loro testimonianze: Fernando Antonio Panico di Tuglie, Rina Durante di Melendugno, Brizio Montinaro di Calimera, Michela Almiento di Brindisi, Dario Caggìa (Tuglie, 1936-1988), Gino Santoro di Melendugno, Luigi Chiriatti di Calimera, Edoardo Winspeare di Depressa-Tricase, Gigi Spedicato di Arnesano, Giovanni Pellegrino di Zollino, Alfredo Majorano di Taranto, Don Giuseppe Tundo di Galatina, Comadante dei Vigili Urbani di Nardò, Maresciallo dei Carabinieri di Galatina.
In quel libro riportammo pure delle poesie e brevi prose di Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Gino Locaputo, Ernesto Barba. Il resto del volume, oltre alla bella introduzione di Georges Lapassade, si risolse nel riportare altre interviste e saggi raccolti dal vivo oppure tratti da altre riviste. All’ultimo momento della chiusura del volume da dare alle stampe, a causa della mia disattenzione, a Giorgio sfuggì l’inserimento della mia Avvertenza e la mia proposta di Indice al libro.
Tra l’altro, in quella Avvertenza, c’era scritto che, nella ripresa della riflessione sul fenomeno, col tempo si erano andate configurandosi nel tarantismo tre categorie caratterizzanti: tarantate/i, attarantate/i, attarantanti, intesi come:
Tarantate/i: coloro che sentono la sofferenza del morso e del rimorso per essersi messi in gara con la divinità (Athena greca, Minerva romana, san Paolo della cristianità) la quale perciò li ha “punisce” facendo sì che il loro corpo venga posseduto del ragno.
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Martedì 03 Giugno 2014 06:36 |

Mercoledi 30 aprile, in risposta ad un gentile invito di Paolo Rausa, giornalista, scrittore e regista teatrale, mi sono recato in quel di Poggiardo, Palazzo della Cultura, per assistere alla presentazione del libro “Li fiuri de la Pathria. Poesie sulla grande guerra” di Fernando Rausa (Comune di Poggiardo 2014), a cura di Paolo Rausa. L’evento rientrava nell’ambito della manifestazione “Dialogos. Rassegna culturale di Terra d’Otranto”, patrocinata dal Comune di Poggiardo - Assessorato alla Cultura, ed organizzata dall’alacre operatore culturale Pasquale de Santis. La rassegna, nella sede della Biblioteca Comunale, ha ospitato diversi autori salentini, a partire dal 22 marzo con la presentazione del libro “Il senso dell’incanto” di Laura e Pina Petracca e fino al 31 maggio con “Il sigillo del marchese” di Giuseppe Pascali. Prima della presentazione del libro, ho potuto anche ammirare la personale dell’artista Vincenzo De Maglie, una mostra di sculture in legno di noce e di ulivo, ospitata nel piano terreno del poggiardese Palazzo della Cultura in Piazza Umberto I. L’amico Paolo, milanese di Poggiardo o poggiadese di Milano, mi aveva già informato di questa iniziativa editoriale, in uno dei tanti nostri incontri in occasione dei suoi frequenti ritorni nella terra dei padri. Si tratta di una serie di poesie in dialetto salentino che hanno a tema la Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra appunto, vista dagli occhi un salentino di Poggiardo che ad essa non ha partecipato ma che da essa è stato scosso nell’intimo. E dunque i tragici avvenimenti bellici sono filtrati dalla sensibilità poetica dell’autore, in un canto accorato di umana pietà e compartecipazione, abbraccio solidale. Sostanzialmente Rausa canta la vita e il suo grande valore, tanto più grande quanto più essa è minacciata dalle contingenze. E di fronte al cruento conflitto bellico, la sensibilità del poeta sa cogliere questo valore raddoppiato. “Li fiuri de la Pathria” furono recisi combattendo sul Carso, credendo nell’italia, come scrive Paolo Rausa, il quale si chiede: “ha senso pubblicare in dialetto salentino versi che trattano avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio? Ci siamo risposti di sì! Perché ovunque arda l’amore per la propria terra e per l’estremo atto di sacrificio, ovunque ci si ricordi di un Ettore che sotto le mura di Troia non esita ad affrontare il nemico/avversario in una sfida fatale, lì il verso sprona a veder oltre, a lacrimare sulla sventura nelle trincee della vita”. Certamente ha senso ricordare, soprattutto quando questa operazione viene sorretta da afflato poetico e nobiltà d’intenti, sincerità d’animo e vicinanza umana, tanto più se si pensa che queste poesie non erano nate per essere pubblicate, e quindi lontane da qualsiasi calcolo editoriale-commerciale. Esse rappresentano il canto d’amore, accorato e sincero, di un figlio della patria nei confronti dei suoi fratelli più sfortunati, recisi appunto come fiori e come gigli di campo (per citare il De Andrè della celeberrima “Canzone di Piero”, le cui note sono risuonate durante la serata), strappati ai loro affetti, passioni, interessi e alla loro terra, dall’abominio e dall’odio umani. Fernando Rausa, 1926-1977, operaio edile e poeta autodidatta, pubblicò in vita le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. Ma scrisse tante altre poesie sparse ed anche un racconto inedito. Dopo trent’anni dalla sua morte, grazie alla cura del figlio Paolo, sono state pubblicate “Terra mara e nicchiarica” (Manni 2006), con Prefazione di Donato Valli, “L’Umbra de la sira” (Edizioni Atena 2009), con Prefazione di Rita Pizzoleo. Valeva la pena però far conoscere, fra i materiali rimasti ancora inediti, queste poesie patriottiche, in specie a vantaggio delle giovani generazioni sempre troppo scarse di begli esempi ed edificanti riferimenti: questo deve aver pensato ancora Paolo, infaticabile promoter dell’opera del padre, quando ha deciso di dare alle stampe la presente pregevole raccolta.
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Giovedì 29 Maggio 2014 09:09 |

Due pubblicazioni in occasione del 100° compleanno
["Il Galatino" XLVII n. 9 del 16 maggio 2014]
Il 17 maggio 2014 Mario Marti compie 100 anni. Per l’occasione grandi festeggiamenti sono in corso, com’è giusto che sia. Ad essi si unisce tutta la redazione de “Il Galatino”, di questo giornale che ogni quindici giorni è sul tavolo del salotto di Marti. Auguri, dunque, prof. Marti! E nel fargli gli auguri, conviene dare notizia ai nostri lettori di due pubblicazioni apparse in questi giorni, con le quali si festeggia il genetliaco di Marti.
La prima è un libro che l’Editore Mario Congedo ha donato alla “colonna portante ed insuperata della Casa Editrice”, don Mario, come Congedo chiama Marti amichevolmente: Mario Marti, Recuperi. Scavi linguistico letterari fra Due e Seicento, a cura di Marco Leone. In Per don Mario, che apre il volumetto (pp. 110), Congedo rievoca con vivo senso di gratitudine il quarantennale fecondo rapporto di Marti con la Casa editrice di Galatina (“… il rapporto professionale e umano con Mario Marti è stato per me tra i più belli e coinvolgenti” p. 2). Marco Leone raccoglie nove “tra saggi e recensioni, mai da lui [Marti] riproposti in volume e dunque per questo dispersi nei labirintici meandri della sterminata bibliografia”, scritti “lungo un arco cronologico che va dal 1955 al 2003” (p. 5).
La seconda pubblicazione si deve alle Edizioni Grifo di Lecce: Una vita per la letteratura. A Mario Marti. Colleghi ed amici per i suoi cento anni, a cura di Mario Spedicato e Marco Leone, pp. 454. Il volume è il n. 22 dei Quaderni de L’Idomeneo, editi dalla Società di Storia Patria – Sezione di Lecce, collana diretta da Mario Spedicato. Esso raccoglie decine di testimonianze di almeno tre generazioni di amici e colleghi di Marti, oltre che studi in suo onore, il tutto disposto nell’ ordine alfabetico degli studiosi intervenuti. Un bel volume, dall’analisi del quale il lettore potrà capire quale sia “la scuola di Marti” e quanti studiosi nel Salento e in Italia essa annoveri. I cento anni di Marti, dunque, non sono solo, come dice Marco Leone nell’Introduzione, un “traguardo anagrafico”, “ma soprattutto cifra tangibile di un’intera esistenza dedicata da Marti all’italianistica e alla cultura letteraria italiana, nel rispetto di un metodo rigoroso e sempre coerente” (p. 10).
Tanti auguri, prof. Marti! |
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