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Giovedì 17 Aprile 2014 08:26 |
["Il Galatino" anno XLVII n. 7 dell'11 aprile 2014]
Domenica, 30 marzo 2014. Il prete che officia la messa in Orsanmichele è sintetico ed efficace, ed è solito fare così. Parla del miracolo dell’uomo nato cieco. A quell’uomo chiedono ancora e ancora come sia successo che abbia riacquistato la vista. Risponde che l’ha già detto. Di quanto è successo sa solo una cosa: non vedeva e ora invece sì. Non risponde come gli altri avrebbero voluto. Lo cacciano.
Il prete ricorda come spesso siamo ciechi, anche se i nostri occhi vedono. S’interrompe e poi, dopo alcune preghiere di rito, prima di preparare alla comunione, ritorna con una frase – a scriverla poteva bastare un rigo appena – che porta altra luce sul significato della grazia di cui ha letto prima. Accanto a lui, nell’altra navata (Orsanmichele ne ha solo due, uguali l’una all’altra, una con l’altare), c’è la Madonna delle Grazie di Bernardo Daddi, luminosa e beata nel tabernacolo dell’Orcagna.
Dopo la messa, uscendo dalla chiesa, ci s’incammina in una giornata di sole. E il sole illumina le strade di Firenze, le pietre colorate del Duomo, il marrone terrigno del Palazzo della Signoria: Orsanmichele è proprio tra i due, Il Duomo e il Palazzo, in via dell’Arte della Lana. È un parallelepipedo alto che un tempo fu chiesa, poi loggia per il mercato delle granaglie (Arnolfo di Cambio l’architetto della loggia nel 1290) e poi ancora chiesa, completata nel 1350. Oggi l’edificio è anche museo, al piano superiore alla chiesa. Sul retro, Orsanmichele è costeggiata da via dei Calzaiuoli, piena di gente a quell’ora del mezzodì. Più lontano la luce fa risaltare il verde delle colline intorno: Firenze è in una specie di conca attraversata dall’Arno.
Camminando verso Piazza della Signoria e poi girando da una parallela di via dei Calzaiuoli, andando per stradine in ombra e tornando indietro, si arriva a un negozio di giocattoli, elegante, con un reparto di libri per bambini. Lì Simone – non il nome maschile italiano ma la versione femminile francese, si legge Simón – m’indica un libro con la copertina nera e le pagine di carta dello stesso colore. Ci sono poche scritte in bianco sulle pagine di sinistra, quelle di destra contengono serigrafie di foglie cadute in autunno, delle onde del mare, di erbe, di fragole, della pioggia, di cavallette: rilievi neri su carta nera. Simone lo guarda e riguarda e poi me lo passa: è stata per lei una sorpresa fin dal titolo. È Il libro nero dei colori (Gallucci e IASA Edizioni, 2010), edizione italiana di un originale in lingua spagnola, premio New Horizons nella Fiera del Libro per l’Infanzia di Bologna nel 2007, Prix Littéraire de la Citoyenneté e Top Ten Children’s Books nella New York Times Book Review nel 2008. Al momento dell’incontro con il libro tutto questo è ignoto sia a Simone sia a me. Lo scopro dopo, cercando chi siano le due autrici: Menena Cottin e Rosana Faria, entrambe venezuelane, la prima formatasi nella scuola di design di Caracas, e perfezionatasi nella Parsons School of Design e nel Pratt Institute di New York, l’altra un’ex alunna della Scuola Cristobal Rójas di disegno e dell’Istituto di Disegno gestito dalla Fondazione Neumann di Caracas.
Le autrici immaginano Tommaso, un bimbo non vedente, e raccontano come potrebbero essere per lui i colori che non può vedere. Per Tommaso il colore giallo sa di mostarda ma è morbido come le piume dei pulcini. Così è scritto in bianco su una pagina mancina, in basso. In alto c’è la stessa frase in Braille, quell’alfabeto per chi non vede o è ipovedente, che s’ingegnò a costruire Louis Braille perché, privato della vista a tre anni per un incidente nella bottega del padre sellaio e per la successiva infezione, voleva poter scrivere oltre che leggere. Di fronte alla pagina scritta nei due alfabeti, ci sono in rilievo piume di pulcini. E così si va avanti a coppie di pagine. E si scopre che il rosso è acido come le fragole e dolce come l’anguria, ma fa male quando esce dal graffio di un ginocchio, e si possono toccare, sulla pagina destra, fragole in rilievo, nere sulla pagina nera, perché non hanno colore per chi non vede, ma trasmettono i colori al tatto.
Sui cataloghi di vendita s’indica in 3-5 anni l’età adatta a leggere il libro. Va bene, ma non è solo questo. È un libro che fa riflettere anche chi non è più bambino, ricordandogli la grazia che ha nel poter vedere non solo con gli occhi ma soprattutto con la mente e il dovere che ha di esercitare questa grazia, un dovere che ha un contenuto etico di posizione nel mondo. Il libro nero dei colori suggerisce questo indirettamente e con levità, con poche parole e poche immagini tattili, nere, che sono poi, in essenza, colme di colori. |
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Mercoledì 09 Aprile 2014 06:34 |
Un romanzo prezioso, di salutare introspezione sull’umanità di oggi, attraverso una storia minuta ed un personaggio comune. Questo in sintesi NeroNotte, di Paolo Vincenti. Una lettura piacevole, godibile, che in più (e questo è il pregio dell'opera) induce a meditare.
Nell'ultima di copertina è svelato il tema dell'opera letteraria: è la "storia di un'anima in pena", ovvero la storia dell'uomo di oggi, in crisi; dell’uomo precario in tutti i sensi, senza certezze, senza valori, e per di più privo di speranza.
E’ una storia di amore e morte (con un originale mix di prosa e versi); è anche, forse soprattutto, la storia della "ricerca" di una resurrezione; una ricerca quasi disperata, l'anelito di qualcosa sempre sfuggente, irrangiugibile, inafferrabile: è il paradigma della vita umana di sempre e, ancor più, di oggi.
Il protagonista Ermanno (un nome che è un evidente omaggio ad Hermann Hesse), come Siddharta (protagonista dell'omonimo romanzo di Hesse) è "uno che cerca" di essere protagonista della propria esistenza, scriverne la parte, perchè vede il presente scivolargli via, per le sue contraddizioni ed ambiguità, e tuttavia avverte che c'è qualcosa nel presente che deve accadere, che egli deve fare, se ne avrà il coraggio.
L’ambiente in cui si dipana la storia è uno spazio temporale, molto significativo e più importante dello spazio fisico (una città di mare, il porto): una notte speciale, "la notte delle notti", in cui Ermanno avverte che deve compiere delle scelte (se ne ha la forza!) o quella notte le avrebbe compiute per lui. Con questa tensione, Ermanno vaga nella notte, che gli appare un luogo fisico di passaggio/intermezzo tra il tempo che è stato ed il tempo che sarà, tra la fine e l'inizio.
Ermanno, un artista (pittore e scrittore) per passione, è un uomo rabberciato, come un vecchio giornale, stanco, insonne, che vive all'interno di una pensione, dopo essere stato cacciato di casa dalla moglie per le sue avventure amorose. Uno sconfitto, un perdente, annientato dalle sue debolezze irrisolte (alcol e donne). NeroNotte, dunque, racconta la storia di un uomo allo sbando e tormentato da sensi di colpa, instabile ed irregolare, la cui esistenza è segnata dalla perdita del lavoro, dalla fine della famiglia, dalla dipendenza dall'alcol, dalla depressione. Un tempo la sua vita era stata ordinaria, poi si era aggrovigliata. E' l'emblema di una generazione (quella dei quarantenni), che drammaticamente ed all'improvviso si scopre incapace di prendere in mano la propria vita, ed ancor più di immaginare e costruire l'immediato futuro.
Ermanno si imbatte, in quella notte, in un personaggio, al quale è accomunato da intima sofferenza, come il barbone Gerry: un vecchio e triste ex professore, incontrato al porto. Entrambi, con una vita incisa dalla fine degli affetti, in un caso, per la separazione dalla moglie (Ermanno), nell'altro per la perdita della moglie e dei figli in tragiche circostanze (Gerry); tali vicissitudini sono motivo per l'autore di rappresentare il dolore e lo sconvolgimento, che subisce la vita dell'uomo, in siffatte circostanze. La fine della famiglia, per qualsiasi motivo, è sempre esperienza traumatica e lacerante. Allora, il romanzo si legge anche come un inno all'amore, alla famiglia perduta, caposaldo/nucleo di una vita "regolare" dell’uomo.
C'è nel romanzo un personaggio positivo, è una donna (casualmente?), Elena, legata ad Ermanno da una storia lunga durata tre anni, ormai da tempo finita per la indecisione di lui. Elena è una donna piacente, con forte personalità, colta ed emancipata, ed Ermanno ama di lei l'essere libera e selvaggia.
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Martedì 01 Aprile 2014 13:11 |
Non poesia è un recente libro di Elena Maria Fabrizio, pubblicato per la collana “il Labirinto” dalla casa editrice Il Laboratorio di Parabita. Sulla prima di copertina, un’opera di Chagall, “Schizzo per l’aria dei tempi”, mentre nella quarta di copertina leggiamo che l’autrice, docente di Filosofia e Storia nei Licei, è originaria di Napoli ma vive da molti anni a Lecce. “Attenta e puntuale interprete delle opere del filosofo contemporaneo Habermas, ha pubblicato saggi ed articoli sulle problematiche della Scuola di Francoforte e sul marxismo, interessandosi, inoltre, di Utopia storica”. La sua è una poesia dotta, piena di riferimenti alti, attingendo ella dal proprio campo specialistico sollecitazioni, spunti, ispirazioni che fondano e sorreggono il corpus poetico del libro. Il volume è ripartito in diverse sezioni e i vari nuclei tematici sono costituiti da liriche in versi sciolti che procedono attraverso un tessuto comunicativo che si dipana poematicamente in corso d’opera. Lontana da ogni maniera, l’autrice ricerca una comunicazione con i propri lettori attraverso delle strategie di coinvolgimento che rendono non privi di interesse questi componimenti: ben orchestratI, certo lontanI da una facile cantabilità, nei quali il rispecchiamento poetico avviene principalmente attraverso sophia . Queste liriche, mediante un dire poetico lucido e definitorio, ben sussumono l’habitus da cui nasce la scrittura della Fabrizio.
“Non poesia”: Il titolo vuole essere manifesto programmatico dell’opera che si apre proprio con la sezione omonima che raccoglie le due liriche “Non poesia 1” e “Non poesia 2”. Una dichiarazione di modestia e di difesa preventiva dagli strali della critica titolata o un’apertura al nichilismo più totale da parte dell’autrice di questa raccolta? Né l’una né l’altra, credo, ma la sua poesia del “non” vuole essere una forma di resistenza estrema alla condizione di ingiustizia e confusione in cui versa la nostra società moderna. Una forma di lucida, dotta e razionale difesa dal “dolore del mondo”, tema su cui verte la seconda sezione del libro. Il dolore certo non si può cancellare, come non si possono cancellare la guerra, la fame, la privazione, le sperequazioni sociali, le dittature, la corruzione, non si può negare l’odio, non si possono negare l’ignoranza, il fanatismo, la violenza. Ma se tutto ciò non si può negare, non si può negare nemmeno il suo contrario e questo è il motivo numinoso, l’ancora di salvezza, il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, la luna in fondo al pozzo, insomma il messaggio di speranza che il libro reca in sé. Quella redenzione spirituale cioè che l’autrice, nelle pagine di questa raccolta, cerca accoratamente, di umano, umanissimo bisogno.
In quella negazione, nel “non” del titolo, c’è il Dio nascosto dell’Antico Testamento, che è alla base di tutta la teologia negativa secondo la quale si può conoscere Dio solo a partire dal suo contrario: dunque, forzando un po’ nell’interpretazione, direi che l’autrice, attraverso la via negationis giunge, denunciando le storture e i guasti del mondo, a realizzare cosa certamente Dio non è, cosa certamente non vuole. Proprio la conoscenza del dolore del mondo e quindi la presa d’atto dell’errore, dell’inanità e della fallibilità dell’uomo, la fanno avvicinare a Dio, verso il quale dimostra un anelito costante che sorregge buona parte, o quasi tutta, del suo corpus lirico. In quella negazione, forse, c’è il “deus absconditus” di Pascal secondo il quale il nascondimento di Dio è un omaggio alla libertà dell’uomo di cercarlo, al suo libero arbitrio. Dunque, come non si può negare il male e la nequizia dei tempi, scandagliati nella sezione “Il castello”, così non si può negare la speranza. Anche perché, secondo l’insegnamento di Adorno, uno dei massimi esponenti della scuola di Francoforte, di cui la Fabrizio è una studiosa (e il quale scrive “la vita non vive” in epigrafe alla sua opera “Minima moralia”), nonostante quando speriamo nella salvezza una voce ci dice che la speranza è vana, noi dobbiamo coltivare quella speranza perché, pur impotente, e con i disastri perpetrati dall’umanità che sempre più regredisce ad una condizione quasi ferina, essa è linfa vitale, ci permette di continuare. E la speranza brilla, come prisma di rifrazione, nella sezione intitolata “Eccezioni d’amore”, significativamente suggellata dal dipinto di Matisse “la gioia di vivere”.
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Giovedì 20 Marzo 2014 07:25 |
["Il Galatino a. XLVII n. 5 del 14 marzo 2014, p. 4]
Tomasz Czapski fa la prima apparizione in Butterfly Reasons (Blauer Wald, 2014) dormendo in camicia sotto un tiglio al limitare del bosco mentre lontano, lungo una strada sterrata, passa una colonna di allievi ufficiali polacchi a cavallo, preceduti da autoblindo leggeri. Tomasz Czapski è un idealista come la tradizione e la memoria associa al suo cognome: Czapski è nome di grandi signori.
Le sue iniziali sono quelle dell’autore che non scrive il suo nome per esteso. Nulla mi è concesso di dire sulla sua persona, quindi. Il lettore accetterà con pazienza l’acronimo TC al posto del nome concreto. Sarà forse un po’ sorpreso dall’apparente mancanza di desiderio di vacuo apparire – una strana anomalia nell’ansioso fremere della contemporaneità, l’età del risentimento per Bloom. Così comunque stanno le cose, di cui invito a prendere atto senza cercare intendimenti nascosti. Confidi il lettore che non vi è alcuna motivazione ideologica né spocchia di qualche natura da parte dell’autore nell’evitare l’evidenza del suo nome. Si tratta solo del caso di una persona che aveva e non ha ancora perso capacità narrativa e ha il fervore ancora di scrivere una storia e consegnarla a chi gli sta d’intorno, il lettore, ma ha suoi intimi motivi di stanchezza che gli consigliano, quasi lo premono, dovrei meglio dire, di mantenere un distacco formale dell’opera dalla persona, dalla vita quotidiana.
Ritorniamo però al romanzo del quale la scena iniziale è il paradigma strutturale. Czapski è un giovane non ancora coinvolto nelle obbligazioni militari. Immagina che il ricordo di una grande Polonia possa ridare fiducia e slancio alla società polacca, stretta tra il gigante russo e quello tedesco, senza avere l’ausilio di difese naturali, anzi proponendosi con le sue pianure quale naturale regione di passaggio e di divisioni come previsto nel patto che in quei giorni – il tempo del romanzo – Ribbentrop e Molotov siglavano sulle spalle dei polacchi.
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Lunedì 17 Marzo 2014 17:01 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 16 marzo 2014]
In Spagna non ci sono mai stato. Quando qualcuno mi ci vuole portare, dico che la Spagna già la conosco. Da più di venticinque anni: da che lessi i reportages e le prose spagnole di Vittorio Bodini. Conosco la Spagna, la combinazione di follia e di realismo, le inerzie febbrili, il bianco della calce sotto il cielo. Conosco la chiocciola, il basilico, il gelsomino. Come Bodini dico che, da italiano del Sud, sono quasi spagnolo.
Quando rispondo così, chi mi ci vuole portare sorride con un po’ di compatimento e un po’ d’ironia.
Poi, però, sorride di meno, quando dico che le ho viste le processioni con i confratelli dagli occhi scintillanti nei fori dei cappucci, ho visto il loro passo breve e solenne, l’umiltà dei loro piedi scalzi per penitenza o per voto, e ho visto il simulacro del Cristo con le costole di fuori, e le piaghe e i lividi “che sono piaghe e lividi nel modo più convincente, e il viso in cui si scontrano senza riguardo le convulsioni del dolore con una convenzionale dolcezza”.
La prima edizione del Corriere spagnolo, curata da Antonio Lucio Giannone, uscì con l’editore Piero Manni nel 1987. Ora Besa lo ripubblica, sempre con la cura di Giannone che integra la prima edizione con quattro lettere inedite che Bodini scrisse da Madrid a Enrico Falqui, Giuseppe Ungaretti e Giacinto Spagnoletti.
I reportage e le prose spagnole – scrive Giannone nell’introduzione – “ compongono nel loro insieme un singolare ‘ taccuino di viaggio’, in cui la progressiva esplorazione del paese straniero s’intreccia, da un certo punto in avanti con la ‘riscoperta’ delle proprie radici e della propria terra, la quale diventa spesso un termine di raffronto e di verifica delle sue impressioni”.
In queste, come in tutte le prose di Bodini, c’è una trattenuta tensione verso la poesia. Se la differenza tra prosa e poesia, prima che dalle parole, è determinata dallo stile di pensiero, dal modo con cui si rivolge lo sguardo alle cose e alle creature, dalla relazione che si stabilisce con la sfera del reale e con quella dell’immaginario, dall’intensità e dalla profondità dell’elaborazione concettuale, allora Bodini pensa in poesia: elabora figurazioni che si sottraggono alla linearità della prosa, perfora la superficie, rintraccia il nucleo, il lievito, l’essenziale delle manifestazioni del paesaggio, delle espressioni esistenziali.
Usa un lessico sorvegliato, dal quale si evince la cura per le sfumature di significato; traduce emozioni senza enfatizzarle; costruisce immagini caricandole di effetti. Ricerca la sonorità, il ritmo, la combinazione della frase che non ammette la possibilità di varianti.
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