Programma maggio 2022
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Convocazione Assemblea dei Soci 22 aprile 2022
Convocazione Assemblea dei Soci   L’Assemblea dei Soci è convocata nella Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse venerdì 22 aprile alle ore 16,00 in prima convocazione e 17,00 in... Leggi tutto...
Programma Aprile 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Aprile 2022 ●       Venerdì 1 aprile, ore 17:00, Officine di Placetelling - L’Università del Salento... Leggi tutto...
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Inaugurazione Anno accademico 2021-2022
Venerdì 22 ottobre alle ore 18:00, nell’ex Convento delle Clarisse in piazza Galluccio, avrà luogo l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Popolare “Aldo Vallone”:... Leggi tutto...
A rivederci. In presenza, Forse anche a distanza. Ma sempre attivi. E comunque uniti.
Il nostro Anno Accademico è finito, come sempre, con l'arrivo dell'estate, anche se il contemporaneo "sbiancamento" della nostra Regione e la possibilità, finalmente, di organizzare incontri in... Leggi tutto...
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L'opera lirica 1. Due prime di Butterfly in una settimana: a Torino e Firenze PDF Stampa E-mail
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Martedì 18 Febbraio 2014 10:49

Nella prima settimana di febbraio abbiamo assistito a due prime di “Madama Butterfly”  di Giacomo Puccini: martedi 4  febbraio la prima dal Teatro Regio di Torino, una prima virtuale grazie al collegamento satellitare, e  giovedi 6 la prima dal Teatro Comunale di Firenze dal vivo. Due Butterfly a distanza di due giorni, molto differenti fra loro, per gli interpreti ma soprattutto per la regia e le scene.

Epoca moderna, periferia degradata di una non ben identificata popolosa città asiatica, in mezzo a bancarelle di pesce, traffico di prostitute e insegne luminose occhieggianti al turismo sessuale: questa l’ambientazione della Butterfly di Damiano Michieletto, il trentottenne regista veneziano, ormai famoso per le sue regie azzardate. Pinkerton, il cattivo americano abituato soltanto a nutrire il suo ventre, diventa come logica conseguenza un vile pedofilo che profitta di una quindicenne. Scena carica e straripante di simbolismi, come le bambole che giacciono a terra nella “casetta-gabbia” con le pareti a soffietto.

Al contrario, la Butterfly di Firenze colpisce per il minimalismo (forse un po’ eccessivo) delle scene, eleganti e sobrie, icona di un Giappone fuori dal tempo, che accompagnano con discrezione lo spettatore-ascoltatore nel dipanarsi della vicenda fino al compimento della tragedia estrema, lasciando libero di gustarne a pieno tutta la forza e di abbandonarsi, volendo, al rivolo (magari secondario) che si sente scaturire da quella fiumana travolgente di sentimento che caratterizza la musica di Puccini. Perché lasciarsi imprigionare da una visione, neppure tanto originale poi, come quella di Michieletto, che in troppi punti risulta senza dubbio farsata e stridente, visto che altri autori hanno fatto altrettanto, come ad esempio Zeffirelli che ambienta una delle sue versioni di Pagliacci in una decadente periferia non ben identificata, ma con un risultato ben diverso? Così è per tutto il primo atto dove, dall’inizio alla fine, si cerca di capire come possa la delicatezza e la dignità di Butterfly amare così tanto un Pinkerton che si sposa palpeggiando ragazze squillo e canta il suo amore la prima notte di nozze scolandosi una bottiglia di liquore. Secondo Michieletto è il desiderio di riscatto che Butterfly identifica con il diventare “un’americana”, come quando accoglie il console Sharpless con le parole “Benvenuto in casa americana”. Ma come si può essere così limitativi e falsificatori!? Cio-Cio-San è giapponese fin nel midollo, ama le sue tradizioni, pensiamo a quando porta con sé la scatola (a Torino una valigia di plastica) con gli oggetti da donna e alla disperazione quando viene rinnegata, ma è disposta a rinunciare al suo mondo per amore. È proprio da questa giapponesina esotica, da questo fare di bambola, da questa figura da paravento che Pinkerton rimane abbagliato. Allo stesso modo Cio-Cio-San ama il modo di fare dell’americano, il suo ridere così “palese”, il suo essere “alto e forte”, i suoi movimenti così diversi da quelli giapponesi, fatti di gridolini e ventagli sulla bocca. Sono due mondi tanto diversi (quanto sconosciuti ai tempi di Puccini) che si attraggono, non per il turismo sessuale da una parte e per il desiderio di riscatto dall’altra, ma perché si piacciono. Solo in questa prospettiva si può apprezzare fino in fondo il sacrificio di Butterfly, dal rinnegamento dei parenti al karakiri finale.

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La lettura 3. Da Montmatre a Montparnasse PDF Stampa E-mail
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Sabato 15 Febbraio 2014 08:11

["Il Galatino" a. XLVII, n. 3 del 14 febbraio 2014, p. 4]

 

Quel territorio intellettuale che Enrique Vila-Matas cercava quando passò due anni del settimo decennio del Novecento a Parigi, nella soffitta di Marguerite Duras – ho già ricordato su queste pagine –, lo sfiorò soltanto, forse per età, forse solo per ventura. Quel territorio, quello che il nome Duras sembrava da lontano promettere implicitamente all’allora giovane Vila-Matas, aspirante scrittore, era abitato da altri, molti di quelli che avevano attraversato la guerra, la ricostruzione successiva della società, le dispute ideologiche, talvolta trasformatesi in ottuse e irragionevoli battaglie. Edgar Morin è stato ed è ancora un abitante del centro di quel territorio: l’ambiente dell’Intelligenza francese e del Novecento.

Il padre, sefardita di Salonicco, aveva il sogno di Parigi e lì riuscì ad andare a fare il commerciante, e lì il figlio Edgar nacque l’8 luglio 1921, in rue Meyran, nel nono arrondissement, ai piedi della butte Montmatre, e da lì le strade del padre e del figlio si divisero, almeno nello spirito, alla scomparsa della madre quando il bimbo aveva dieci anni, per poi ricongiungersi quando il tempo del padre ormai declinava nella vecchiaia.

Edgar Morin attraversa la guerra nella resistenza, una sorta di ufficiale di collegamento che si avvicina prima all’esperienza socialista, connesso al Fronte Popolare, e poi s’iscrive al Partito comunista, pur continuando a interagire con gruppi diversi: un sommergibile, per il gergo dell’epoca. È quello il tempo in cui cambia nome e documenti varie volte, per le esigenze belliche. Alla fine, il suo nome proprio rimane, Edgar, ma il cognome da Nahoum diventa Morin (nome di battaglia). Le ragioni della decisione del cambio e la circostanza sono lasciate sfumate nei pensieri biografici che Morin ha raccolto nel suo Mon Paris, ma mémoire, tradotto in italiano lo stesso anno della sua edizione francese pubblicata da Fayard (La mia Parigi i miei ricordi, Raffaello Cortina Editore, 2013). Chiaro è invece il motivo del suo iniziale rifiuto, dopo la seconda guerra mondiale, di intraprendere la carriera dell’insegnamento per il fastidio provato al pensiero di dover rifare lo stesso corso per trent’anni. Accetterà il ruolo di addetto allo Stato Maggiore francese, nel 1944, e di Capo Ufficio Propaganda del governo militare, nel 1946, così passerà tempo a Berlino, trovando materiale per il suo primo libro, L'an zéro de l'Allemagne, che gli permetterà, una volta rientrato a Parigi, di cominciare a scrivere per riviste e giornali. Nel 1950 entra nel CNRS (la versione francese e forse più funzionante dell’italiano Consiglio Nazionale delle Ricerche), nella sezione di antropologia sociale, e comincia la sua carriera di sociologo e filosofo, accompagnata da un’intensa attività pubblicistica: fonda e dirige dal 1956 al 1962 Arguments, una rivista culturale ispirata dall’italiana Argomenti, partecipa alla scrittura di una sceneggiatura, ma poi se ne distacca prima della fine, diventa un onnivoro conoscitore di cinema e ne scrive (l’idea iniziale era una ricerca per il CNRS), e così di seguito, seguendo essenzialmente la propria curiosità e un forte sentimento di liberta intellettuale, esercitato con prudenza, sebbene questa non gli abbia impedito di essere espulso dal Partito comunista nel 1951, pur rimanendo nell’ambito della sinistra francese. Erano gli anni di quella che Milosz avrebbe chiamato “lingua di legno”: la non ammissibilità ideologica di posizioni critiche. E Morin ne aveva progressivamente prese con i suoi scritti, in contrasto al nucleo leninista-stalinista dell’esperienza comunista. L’iniziale critica istintiva si nutriva poi degli strumenti del sociologo e rafforza il punto di vista della sua analisi sociale.

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Le Omelie di padre Francesco La Vecchia PDF Stampa E-mail
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Sabato 08 Febbraio 2014 07:58

“Per un editore che ha scelto la linea laica per la pubblicazione di prodotti editoriali, non sembri strano di aver scelto un volume di omelie. Intanto la scelta laica (non laicista) è dettata dalla necessità di non privilegiare prodotti letterari in funzione di una propria e limitata visione ideologica del mondo, ma dal bisogno di privilegiare espressioni, sensazioni, percezioni, prose, poesie, capaci di esprimere il meglio dell’esperienza umana.” Con queste parole, nella sua Nota dell’Editore, Aldo D’antico, spiega le ragioni che hanno portato la sua casa editrice, Il Laboratorio Parabita, a pubblicare “Omelie. Presenze e testimonianze a Parabita” di Padre Francesco La Vecchia (2013), nella collana “Contributi”. L’autore è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita fino a qualche tempo fa e questo libro raccoglie le sue predicazioni, ovvero le omelie, rivolte ai fedeli durante la Messa dopo le letture. Le occasioni sono le più disparate del calendario liturgico e si può riscontrare come Padre Francesco sia un religioso di grande preparazione il quale unisce al solido fondamento culturale che è proprio del suo ordine religioso, il pathos, ossia quella compartecipazione umana che è propria invece dell’autore. E’ sempre l’editore a parlare: “Che senso hanno le omelie di Padre La Vecchia? Egli è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita, un paese nel quale l’ordine dei predicatori di San Domenico arrivò nel lontano 1405, marginalizzando il culto greco che ivi si officiava, edificando un Convento e una Chiesa (Santa Maria dell’Umiltà) dichiarato monumento nazionale e successivamente scerpato, tagliato, suddiviso con uno scempio unico nel suo genere. Al loro ritorno hanno custodito la Madonna della Coltura per i Parabitani, la loro storia, memoria, cultura. Padre Francesco, nelle sue prediche richiama il senso della storia e della vita, propone il culto non solo come fatto di fede ma anche come dimensione dello spirito, fatto civile di adesione all’uomo e al suo valore. Leggendo le sue omelie un credente rafforza la propria scelta di fede, un non credente riflette sui destini dell’umanità. Motivi abbastanza validi per proporle come edizione”. Presentato nella Parrocchia di Sant’Antonio in Parabita, il 14 dicembre 2013 da Don Angelo Corvo, Parroco della Chiesa matrice di Parabita, Remigio Morelli e Luigi Cataldo, il libro contiene un estratto da un’opera di Don Tonino Bello (“Parole d’amore”) e alcune lettere indirizzate da Luigi Cataldo, curatore del libro, all’autore. Da queste si evince il grande legame di affetto e fraterno vincolo di fede che unisce Cataldo a Padre La Vecchia, e il dispiacere di Cataldo, che è poi il rammarico dell’intera comunità parabitana, in occasione della partenza dalla città di Padre Francesco quando egli, a fine 2010, dovette andare perché destinato ad altro incarico. Si comprende che sia abbastanza forte il segno lasciato dal domenicano nel paese della Madonna della Coltura se è vero che oggi esce questo libriccino che lo vede protagonista indimenticato nel cuore dei  fedeli  e degli amici parabitani. Contributi, quindi, di importanza storica, affettiva, contestuale, sociale, politica, con questa collana de “Il Laboratorio”, che risponde ad un bisogno di conoscenza e più ampia diffusione della cultura a tutti i suoi livelli.


La lettura 2. Mansarde parigine PDF Stampa E-mail
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Sabato 01 Febbraio 2014 08:27

["Il Galatino" a. XLVII, n. 2 del 31 gennaio 2014, p. 4]

 

Un tempo pensavo che non avrei mai visitato Parigi né altro luogo della Francia, con il determinismo che accompagna la gioventù. Poi mi sono ritrovato più volte a Parigi, anzi ho scritto anche versi sulla Ville Lumière in un momento d’incoscienza.

 

Mon Voyage

 

Parigi ha il colore della pioggia lenta,

dell’asfalto dei viali,

dei muri, dei tetti, dello sguardo assorto delle finestre.

 

Valéry camminava

“estremo nel disprezzo”

“assoluto nell’ammirazione”.

 

Proprio questi versi, nonostante la loro inguaribile debolezza e l’approssimazione, non vengono dalla percezione del disagio sociale delle periferie, quei sobborghi che in francese prendono il nome sonoro, ingannevolmente esotico, di banlieue. Semmai emergono da quel sentimento che può cogliere qualcuno fermandosi tra gli scaffali di Shakespeare and Company, al 37 di rue de la Bûcherie, libreria e sala di lettura dal 1919, o mangiando a Le Procope, nel mezzo del quartiere latino, al 13 di Rue de l’Ancienne Regime, da dove partì l’assalto alla Bastiglia, o sedendo da soli, fuori da un piccolo ristorante, in una Place Dauphine spoglia di gente, con l’illuminazione immota e i battelli che passano lenti sulla Senna di là della cerchia di case, accompagnati dal silenzio. È quella stessa atmosfera che ha fatto sì che Parigi fosse concepita come luogo principe dell’arte e della cultura in lunghi tratti dell’Ottocento e del Novecento, prima che il primato andasse a New York e poi si delocalizzasse infine in rivoli differenti, ritoccando città che erano già state punti di coagulo della fantasia e che in periodi diversi riprendono a tratti il loro ruolo antico. Si tratta di quell’atmosfera che la percezione della storia dei luoghi comunica. Quella stessa atmosfera che ha spesso spinto chi voleva intraprendere una strada artistica (che di arti figurative o di musica o di letteratura si trattasse) a scegliere Parigi come luogo che potesse accogliere parte della propria esistenza, sia perché in fuga per situazioni politiche – gli esempi sono molteplici – sia per scelta, come per due anni fece Enrique Vila-Matas, muovendosi da Barcellona, quando cercava di capire se e quanto sarebbe potuto diventare scrittore. “Andai a Parigi verso la metà degli anni settanta e lì fui molto povero e molto infelice. Mi piacerebbe poter dire di essere stato felice come Hemingway, ma allora tornerei semplicemente il povero giovane, bello e idiota, che ingannava se stesso ogni giorno credendo di aver avuto una discreta fortuna a poter vivere nella sudicia mansarda affittatagli da Marguerite Duras al prezzo simbolico di cento franchi mensili, e dico simbolico perché così lo interpretavo o lo volevo interpretare io, che non pagavo mai l’affitto, di fronte alle logiche – anche se per fortuna solo sporadiche – proteste della mia strana padrona di casa, e dico strana perché a me sembrava di capire tutto quello che mi veniva detto in francese tranne quando ero con lei”. Così Vila-Matas scrive nel suo “Parigi non finisce mai” (Feltrinelli, 2006). È un memoriale, il suo, che si stempera nella finzione dell’immaginare una conferenza a Barcellona che si sviluppa in tre giorni, in tre seminari di due ore ciascuno, un memoriale affrontato in maniera obliqua rispetto al modo con cui Canetti o Chatwin furono assidui narratori della memoria degli eventi personali. In Vila-Matas il discorso sulla vita si mescola al chiedersi come si debba fare letteratura e cosa sia in realtà farla – è un atteggiamento che è poi presente in altri suoi scritti; lo stesso pretesto della conferenza riappare altrove. La vita e la letteratura si mescolano, come realtà e discorso sulla realtà. L’illusione del giovane Vila-Matas a Parigi era di potersi immergere nell’atmosfera che, nella distanza di Barcellona, sembrava avere tangibile la ricchezza che la storia le attribuiva. In realtà quest’atmosfera non era densa, anzi era un po’ svanita, forse non aveva mai in realtà permeato i viali e i bistrot, ma era rimasta solo nell’intorno di chi l’aveva in sé e forse ora non c’è più o ritorna talvolta quando la storia vuole. Di questo si accorse Vila-Matas e tornò a Barcellona. Così era accaduto a Tomasi di Lampedusa quando, in un convegno di letteratura a San Pellegrino Terme, nel 1954, accompagnatore del cugino Lucio Piccolo, lì invitato da Montale, dalla conoscenza diretta dei letterati in auge del tempo si convinse che era futile avere paura di mettere su carta quanto aveva in sé maturato in anni di letture e pensamenti. Anche Vila-Matas, dopo essere tornato indietro, è diventato uno scrittore, diverso da Tomasi di Lampedusa, ma uno scrittore. “Uscii dalla sua vita come si esce da una frase. Poi andai al Flora a mangiare un croque-monsieur. Bevvi un liquore alle more e analizzai la situazione. L’analizzai per sei giorni e il settimo tornai a Barcellona”.  Così fu e alla fine, nel mio piccolo, neanch’io mi sono fermato a Parigi.


Un volo sulla cenere PDF Stampa E-mail
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Domenica 26 Gennaio 2014 10:51

[Prefazione a “Un volo sulla cenere” di Claudia Petracca, Lupo Editore, 2013]

 

E’ tutto nel volo di quel pettirosso che compare sulla copertina del libro,  il senso di questa storia semplice eppure intensa, delicata ma sofferta,  che ci regala la raffinata penna di Claudia Petracca. È ambientata fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, la storia che ci racconta questo breve romanzo, preceduto da una bellissima poesia opera della stessa autrice. Nello specifico, è la Seconda Guerra Mondiale con gli eventi ad essa connessi, a fare da sfondo a questa storia di sentimenti, forgiati al fuoco della sofferenza, levigati dall’assenza e dalle difficoltà del vivere. Ho conosciuto Claudia Petracca  con “Pietre”, il suo libro precedente che mi aveva favorevolmente impressionato. Ora la riscopro, narratrice attenta e scrupolosa, cimentarsi con una storia d’amore tormentata e ingarbugliata come la trama complessa che si dipana lungo le pagine della fabula. Il sacrificio dei protagonisti, Sofia e Giacomo, immolati sull’altare della violenza e del fanatismo, è il sacrificio dei tanti che hanno lasciato la vita a causa della repressione dittatoriale. Quella dei lager nazisti, enorme piaga aperta nel cuore dell’Europa del XX Secolo, è una pagina dolorosissima della nostra storia contemporanea, scritta col sangue di migliaia e migliaia di poveri testimoni innocenti che hanno dato, con il loro amaro tributo,  un insegnamento a tutti noi, uomini del Duemila. L’esperienza dei campi di orrore di Aushwitz, Dachau, Ravensbruck, Flossenburg, Mauthausen, impressa nei muti volti dei deportati di ogni nazionalità, i quali, con il loro sguardo di sconfitta e rassegnazione, ci colpiscono a fondo dalle fotografie in bianco e nero nei libri e nei documentari televisivi, vuole essere un monito, perenne e universale, affinché ciò che è accaduto non debba più ripetersi. Claudia Petracca parla direttamente al cuore del lettore, con questo libro che rientra perfettamente nel milieu della letteratura femminile salentina che, in questi ultimi tempi, sta dando prove certo notevoli. Dalla sua narrazione, come avevo già notato con il precedente romanzo, emerge una interiorità devota ai particolari, attenta a cogliere i minimi dettagli, insieme ai momenti rivelatori della coscienza. La sua scrittura si presenta piana e regolare, niente effetti speciali della lingua, non c’è manierismo e nemmeno sperimentalismo. Genus tenue, dicevano i latini, ossia uno stile umile che non ricerca le vuote frasi ampollose o che non fa solo uno sterile esercizio di stile. I personaggi del libro sono ben studiati, le loro psicologie adeguatamente delineate ed è notevole lo sforzo di Claudia di creare un racconto storico  che sia il più possibile coinvolgente. Uno sforzo, certamente premiato dal risultato finale di un intreccio ben ordito, di un libro del tutto godibile nelle brevi pagine della sua trattazione. Letteratura salentina, dicevo prima, ma non si tratta di un “romanzo salentino”,  ambientato com’è in una  città e in un tempo lontani. E’ una storia che parla di dolori, di inquietudini, di fughe e ritorni, con un linguaggio semplice e leggero. Sofia e Giacomo vedono i loro destini intrecciarsi con quello  della guerra e della segregazione razziale e la fuga di Giacomo dall’abominio di un  regime spietato, per salvare non solo la propria vita ma anche quella della sua amata, lo porta  a compiere un lungo giro per poi ritornare nello stesso posto da cui è partito: quel ghetto ebraico di una città senza nome che, dopo averlo accolto e protetto come un abbraccio caldo di madre, gli sarà fatale. Più che mai attuale questa storia di Claudia Petracca, se si pensa agli accadimenti politici degli ultimi anni e a quelle ondate di revisionismo storico con cui alcuni ideologi  e “pseudo scienziati” europei hanno cercato di negare l’evidenza dell’Olocausto e dei campi di sterminio.  Non so se per qualche motivo personale o famigliare, per rabbia, o per il bisogno di reagire ai negazionisti, ma Claudia Petracca con questo racconto ci ricorda quanto sia importante conservare il dovere della memoria.

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