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Martedì 20 Settembre 2016 06:38 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 18 settembre 2016]
Come l’universo, anche il testo, per Antonio Prete, è infinito. Nel testo convergono e si riuniscono e si addensano storie, memorie, concetti, parole, suggestioni, emozioni, sentimenti, letture, interpretazioni, linguaggi, trasalimenti, fantasticherie, sguardi, perplessità, riflessi di colori, analisi approfondite, lucidissime, scandagli delle profondità di un verso, di una prosa, di un’immagine dell’infanzia, l’eco di una voce che canta nel meriggio fra le foglie di tabacco. Ogni elemento rimanda ad altri elementi uguali o diversi, ogni cosa rassomiglia ad un'altra o se ne distacca nettamente. Ancora una volta Antonio Prete si muove sui confini fra il saggio e la narrazione; al saggio appartiene l’argomentare, mentre il passo, la forma, lo stile, appartengono alla narrazione. Ancora una volta tesse con sapienza, con leggerezza, con accuratezza, con un gesto amoroso una parte della sua lunga conversazione con i testi. L’ultimo libro è una parte di questa conversazione: Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, edito da Bollati Boringhieri. Non è necessaria una lettura che proceda dal principio alla fine. Si può aprire una pagina a caso e ci si ritrova sprofondati nell’ermeneutica delle figure e delle parole che dicono, raccontano, i significati di dentro; si assiste alla scena di un corpo a corpo delicatissimo ma impietoso anche con quelli che sono i sensi dell’interiore che si sottraggono non solo alla definizione, ma anche alla dicibilità.
Ma il percorso critico di Prete ha sempre avuto un movimento trasversale, obliquo, interdisciplinare; è stato sempre attratto dall’andare lungo gli argini. Il suo insegnamento universitario di letterature comparate è stato la perfetta coincidenza tra definizione giuridica e connotazione metodologica. Ogni sua interpretazione è sempre un viaggio che orienta lo sguardo ora sul paesaggio ora su un particolare del paesaggio; lo sguardo osserva, scruta, indaga, discerne, individua l’elemento che di quel paesaggio si costituisce come condizione unica, irripetibile, essenziale. Parte da lì, da quella irripetibilità, e tesse riferimenti provenienti da sfere diverse del sapere, raduna testi e autori, li chiama a testimoni delle sue rappresentazioni del pensiero. Come in questo libro, che si confronta con una materia più profonda di ogni abisso, con i misteri dell’anima. Come in questo viaggio, nel quale chiama per compagni Agostino e Calvino, Montaigne e Joyce e Proust, e tanti altri, e poi i compagni di sempre, quelli con i quali ha attraversato tutta la vita: Leopardi e Baudelaire. Si apre una pagina a caso, dunque, e ci si ritrova coinvolti nelle riflessioni sulle relazioni fra poesia e cosmologia, per esempio, sul legame fra il sentire umano e la sua rappresentazione linguistica, sul rapporto profondo fra il sentire e il mondo, fra lo spazio dell’interiorità e gli spazi stellari. Si apre una pagina a caso e si fa esperienza mediata della parola silenziosa nella sua significanza di meditazione, di indagine sul sé, di interrogazione intorno agli accadimenti della coscienza. Una parola interiore. La parola della scrittura è parola interiore, dice Prete: perché lo è stata prima di salire verso la luce e la fissità della lettera e perché continua ad esserlo quando il lettore l’ascolta nel silenzio, e la protegge, sentendola come propria. E’ proprio attraverso la parola silenziosa della lettura che si stabilisce prima una condizione di prossimità e poi una relazione di intimità con il testo: con l’universo di sensi che il testo spalanca.
I libri di Antonio Prete credo – spero- di averli letti tutti, e ho sempre pensato che il punto più profondo dell’analisi, l’armonia dell’espressione, li avesse raggiunti con il Trattato della lontananza. Più di questo non può fare, mi dicevo. L’ho pensato fino a quando non sono arrivato alla pag 106 del Cielo nascosto, dove cominciano le cosmografie interiori. Ha potuto fare di più. In questo luogo del libro, Prete espone – indirettamente- il suo concetto di teoria, come spesso ha fatto in altri saggi, riferendosi alla scrittura critica, al metodo. Dice a un certo punto che la teoria è, nella sua origine, un vedere che si dispiega in sapere, un osservare nella luce che si svolge come conoscenza. E’ stata questa, infatti, la teoria di Antonio Prete: una visione tradotta in parola, un’osservazione che ha portato conoscenza resa in espressione, una curiositas verso le storie d’ogni genere, quelle della vita e quelle della letteratura, che poi sono esattamente l’identica cosa. Ecco: Antonio Prete ha dimostrato questo: che le storie della vita e quelle della letteratura sono esattamente l’identica cosa. |
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Mercoledì 17 Agosto 2016 08:05 |
["Presenza taurisanese" anno XXXIV n. 285 - agosto 2016, p. 6]
Ecco due autentiche strenne alieno tempore: un libretto di Luigi Scorrano, fattomi pervenire dall’autore con il comune amico Luigi Marrella, mio paese e altri paesi [tutto rigorosamente in minuscolo] (Tuglie, Tipografia 5 emme, 2016, pp. 78), “stampato in solo 365 esemplari numerati: più uno, secondo il giro del sole. Dono a familiari ed amici”; e un altro, di poco più corposo, libretto di Antonio Resta, Un paese, due mondi. Il Salento dalla civiltà contadina alla società globale (Lecce, Grifo, 2016, pp. 124), direttamente speditomi dall’autore.
E’ proprio vero – pensai subito tra me e me – accade che senza neppure darsi voce più persone con emozioni ed interessi diversi finiscano sorprendentemente per confluire se non proprio in un comune sentire in una comune disposizione d’animo.
I nostri due autori sono due italianisti; la sanno lunga sulla letteratura italiana e la sua storia. Bisogna dirlo subito, però: il , di cui essi parlano, non ha niente a che fare con lo “Strapaese” di Maccari e di quegli scrittori del primo Novecento, i Longanesi e i Malaparte, che tanto fecero dibattere e che tanto arricchirono la nostra cultura letteraria, con chiari intenti politico-integralistici del regime. Allo “Strapaese”, movimento d’impostazione tradizionalistica e di gelosa conservazione dei valori patriarcali e contadini, la cui massima espressione nazionalistica era il “Comune rustico” del Carducci, si contrapponeva “Stracittà”, con Bontempelli ed altri, movimento tendente a sprovincializzare in direzione modernista l’ambiente culturale italiano e fascista sulla scia del futurismo e del tecnicismo.
I nostri due autori non dimostrano di soffrire di nostalgia né si propongono scopi di alcun genere. Con serena apertura mentale e umorale, parlano dei loro paesi, di quel che erano, di quel che sono e implicitamente fanno pensare a quel che potranno diventare.
Il paese o i paesi di cui parlano sono proprio i paesi con le loro chiese e i loro campanili, le loro piazze, le loro vie, i loro personaggi tipici, che poi ci sono in ogni paese di una regione o di una subregione, come Ennio Bonea definiva il Salento, rivissuti sull’onda del ricordo e della storia. Li narrano senz’altro scopo se non di recuperare e passare agli altri le loro bellezze e le loro atmosfere ormai scomparse, mentre noi immaginiamo sul loro volto un mezzo sorriso di compiacimento e di tenerezza al ricordo di certe presenze umane e sociali.
Luigi Scorrano è di Tuglie, comune vicino a Gallipoli, ma ha insegnato lettere a Casarano e conosciuto altre realtà salentine per la sua attività di conferenziere. Il “suo” paese è dunque il Salento. Le sue “cartoline” a momenti ricordano, per certi lampi metafisici le “Città invisibili” di Italo Calvino. Sono luoghi dell’anima e della mente: Gallipoli, Otranto, Casarano, Parabita, San Cassiano; e poi la campagna, le vie, i personaggi, ovvero le “figure”, ovvero ancora le “facce”. Certo, un atto d’amore e di poesia, che si coglie attraverso una prosa lieve e pur calibrata su oggetti materiali, che le stratificazioni però non hanno appesantito.
Antonio Resta è di Neviano, è un ricercatore e docente universitario e vive da vari anni a Pisa. Vien giù per le vacanze e per le ferie. Il suo trovare sempre una realtà paesana diversa deve averlo spinto a coglierla nel suo lento dinamismo in un racconto narrativamente essenziale e fluido, lessicalmente puntuale. Qui niente è immateriale. L’autore riavvolge il nastro della storia di questi ultimi cinquant’anni facendo “vedere” al lettore scene, luoghi e personaggi che hanno l’incanto della rievocazione personale ma l’approccio scientifico. Pur leggendo di Neviano ognuno ritrova il proprio paese, i suoi abitanti, le sue cose.
E’ un libro che personalmente – appartengo al mondo della scuola – farei entrare organicamente nella programmazione scolastica di tutte le scuole di ogni ordine e grado, perché a tutti, dai più piccoli ai più grandi discenti, si rivolge informando e soprattutto ponendo delle domande, incuriosendo. Nulla è didatticamente più valido di un immediato confronto tra ciò che è stato e cià che è. I due mondi, di cui parla esplicitamente l’autore, sono il prima e il dopo di quest’ultimo cinquantennio, che è stato così rapido e decisivo nei cambiamenti da non sorprendere solo chi vi era immerso. Stando lontani dal proprio paese in genere ci si accorge di più di quel che non trovi più, ritornandovi, e del nuovo in cui ti imbatti. Un processo solo apparentemente paesano; in realtà il processo di omologazione, già in essere ai tempi di Pasolini, e di globalizzazione è assai più vasto. Il valore di questo libro sta nell’osservatorio: i cambiamenti del paese dal paese. |
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Venerdì 12 Agosto 2016 09:13 |
L’osceno del villaggio di Paolo Vincenti si presenta come un libro perfettamente inutile: ma inutile per gli apatici, per gli abulici, per coloro che vivono senza interessi, non preoccupandosi invece di essere criticamente e consapevolmente partecipi dei fatti e dei comportamenti propri e degli altri; incapaci di mettere in funzione la propria materia grigia; per chi trascorre tutta la sua vita in un dolce riposo mentale.
A differenza delle sue ultime pubblicazioni, NeroNotte. Romanza di amore e morte e L’ombra della madre, L’osceno del villaggio non è un romanzo, ma la raccolta di 53 interventi pubblicati su diverse testate giornalistiche o sul web tra il 2014 e i primi mesi del 2016, che sarebbe più corretto definire “libere associazioni mentali” sollecitategli da quel demonietto che abita in lui che lo porta a dare una sua lettura personale ai fatti di cronaca, ai ricordi della propria adolescenza, ai comportamenti che ci sono abituali e ai quali ci siamo assuefatti, prodotti dalla nostra inconsapevole stupidità e che a ben guardarle appaiono “osceni”…
Uno scrittore, un intellettuale, un operatore culturale poliedrico, vulcanico, con uno stile e un approccio tutto personale, tra il goliardico, lo sperimentale, il classico, il censore ironico, il bastian contrario. In poche parole: un moderno giullare di corte, dove però la corte altro non è se non “il villaggio globale”…
Gli antichi giullari di corte sono state figure rilevanti nella storia non solo della cultura, ma anche in quella della società, perché da emarginati come lo erano fino al XII secolo, successivamente, da mimi e istrioni, diventano poeti, sono persone colte padrone del latino e delle tecniche poetiche, conoscono le tradizioni e le leggende che rielaborano in versi, segnano il distacco dalla formazione ecclesiastica portando ventate di laicità, esprimono le aspirazioni della loro epoca; saranno poi parte integrante delle corti feudali per allietare i principi durante i loro ozi e le feste.
Lo facevano in tante maniere, non solo cantando, suonando e recitando, ma anche e soprattutto diventando spregiudicati, scanzonati, caricaturali, permettendosi quindi il lusso di ironizzare sui comportamenti della corte, sullo stesso principe.
Al giullare tutto era concesso e godeva di una specie di immunità, per cui, assumendo la maschera dello scemo, poteva permettersi il lusso, di dire scempiaggini, ma con il suo dire rivelava le contraddizioni, i capricci, le magagne, gli intrighi, le oscenità che avvenivano nella corte.
Il giullare era una figura poliedrica: poeta, attore, cantastorie, affabulatore, animatore di feste e festini, ironico castigatore di costumi.
Paolo Vincenti possiede e padroneggia tutte queste caratteristiche: ergo, è un giullare, non ne veste i panni, lo incarna.
Paolo Vincenti, da buon poeta, scrittore e affabulatore, gioca tra “lo scemo del villaggio” e “l’osceno del villaggio”.
Lo “scemo del villaggio” è una persona di scarsa intelligenza, oggetto di scherzi e lazzi; uno che parla a vanvera.
Nel villaggio di una volta, grande o piccolo che fosse, di “scemi” c’era un numero abbastanza limitato; oggi, nel “villaggio globale” sono spaventosamente aumentati e con l’avvento poi di Internet, dei social, di WhatsApp, ognuno si sente legittimato, in nome di una mal compresa “libertà di parola” ad intervenire, esprimere giudizi, commentare, condividere o dissentire su fatti solo su reazioni viscerali.
La televisione è piena di “scemi del villaggio” e sulla loro perenne presenza si fa affidamento per aumentare l’audience; ancora più numerosi lo sono nel mondo del web, ove la rete è piena di bloggers che con i loro commenti, oltre ad essere sgrammaticati e sintatticamente incomprensibili, dimostrano la più totale assenza di minima conoscenza delle complessità che certi temi comportano.
Anche Paolo Vincenti usa il web, ma i suoi interventi sono pregni di analisi critica; la lettura dei fatti, la loro riproposizione è frutto di riflessioni razionali, basate su solide fondamenta filosofiche, etiche, sociologiche..." (www.unigalatina.it). |
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Giovedì 11 Agosto 2016 09:57 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 26 luglio 2016]
E’ sempre più diffusa la convinzione che il c.d. neoliberismo, a seguito dello scoppio della crisi del 2007, abbia fallito e debba essere superato, sia perché i modelli economici sui quali si fonda sono caratterizzati da totale scollamento rispetto alla realtà nella quale viviamo, sia perché propone prescrizioni di politica economica che non hanno altro esito se non accentuare la recessione. Le teorie neoliberiste, si può aggiungere, si sono rivelate del tutto fallimentari anche per la loro incapacità di prevedere la crisi. E tuttavia restano egemoni sia nella ricerca scientifica sia nel campo della politica economica.
Un significativo contributo alla critica delle teorie e delle politiche economiche neoliberiste viene ora proposto nel libro curato da Filippo Barbera, Joselle Dagnes, Angelo Salento e Ferdinando Spina (Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Donzelli 2016). Il volume è parte di un importante progetto di ricerca europeo avviato dal Center for Research on Socio-Cultural Change dell’Università di Manchester, certificando il fatto che nella nostra Università si produce elevata qualità della ricerca in un contesto di forte internazionalizzazione.
La critica formulata dagli autori viene impostata con massimo rigore logico, avvalendosi di solidi argomenti teorici e di ampia evidenza empirica. Essi si soffermano principalmente, nella loro pars destruens, sugli effetti perversi dei processi di finanziarizzazione e sull’interazione perversa che sussiste fra questi ultimi e la crescente precarizzazione del lavoro, con particolare riferimento al caso italiano. Essi evidenziano, contro una vulgata diffusa, che la finanziarizzazione – intesa come crescente propensione delle imprese a fare profitti attraverso scambi nei mercati finanziari in una prospettiva di brevissimo periodo (la c.d. economia di carta) – è ormai parte costituiva del nuovo assetto del capitalismo italiano. La finanziarizzazione è associata alla riduzione degli investimenti produttivi (nella c.d. economia reale), dunque a crescente disoccupazione e precarizzazione e all’aumento delle diseguaglianze distributive. E si rende possibile perché i mercati finanziari sono pressoché completamente deregolamentati. La base teorica, di matrice liberista, che legittima questa scelta la si ritrova nella c.d. teoria dei mercati efficienti. Una teoria che si basa sull’ipotesi secondo la quale gli agenti economici, anche quelli che operano nei mercati finanziari, sono perfettamente razionali e perfettamente informati. Di conseguenza, effettuano le loro scelte di acquisto/vendita di titoli sulla base della profittabilità attesa degli investimenti delle imprese quotate nei mercati finanziari. In tal senso, i mercati finanziari selezionano le imprese più efficienti e, conseguentemente, contribuiscono a generare crescita economica.
E’ del tutto evidente che si tratta di un’impostazione teorica basata su assunzioni eroiche. I mercati finanziari non sono popolati da agenti perfettamente razionali e perfettamente informati. Sono semmai “luoghi” nei quali poche Istituzioni finanziarie internazionali, in regime oligopolistico, decidono quali e quanti titoli vendere, e quando farlo. E sono seguite da una scia di imitatori, per lo più piccoli risparmiatori, che, per così dire, attribuiscono una patente di razionalità a queste scelte. Gli esiti sono sostanzialmente due: i) contro la visione dominante, la speculazione genera instabilità e tende a produrre recessione; ii) i percettori di rendite finanziarie, oltre ad acquisire elevati e crescenti guadagni attraverso operazioni di acquisto/vendita di titoli, acquisiscono anche crescente potere politico (come peraltro gli autori evidenziano, facendo riferimento in particolare al caso italiano).
La pars construens del libro riguarda la c.d. economia fondamentale. Gli autori la definiscono “l’infrastruttura della vita quotidiana”, cioè ciò che ci si aspetterebbe come ovvio dall’attività produttiva: che questa sia orientata innanzitutto alla produzione di beni e servizi essenziali (cibo, istruzione, sanità), che sia finalizzata al benessere dei consumatori, che fornisca, come recita il titolo del volume, il nostro capitale quotidiano. Si tratta di una prospettiva condivisibile e del tutto ragionevole. E’ praticabile?
Ad avviso di chi scrive, lo è molto difficilmente, ma non per questo non vale la pena perseguirla. E’ difficilmente praticabile, almeno in un orizzonte di breve termine, per una fondamentale ragione della quale gli stessi autori sono ben consapevoli. L’attuale fase storica è caratterizzata da quella che il sociologo Luciano Gallino definì la ‘lotta di classe dall’alto’, ovvero un radicale ribaltamento dei rapporti di forza a danno del Lavoro e a beneficio del Capitale (e della rendita finanziaria). La prospettiva dell’economia fondamentale si scontra inevitabilmente con la resistenza delle nuove classi agiate a modificare l’assetto socio-economico che le rende tali. Ma, a fronte di questa constatazione, occorre riconoscere – come gli autori di questo libro invitano a fare – che non solo già esistono “pratiche sociali che … rivendicano spazi di vita economica sottratti alla dinamica della massimizzazione del profitto” (si pensi ai fenomeni di ritorno alla terra, alle reti dell’economia solidale, al commercio equo), ma anche che l’economia fondamentale è oggi parte consistente (e crescente) dei sistemi economici, radicata soprattutto in contesti locali. Vi è di più. Occorre immaginare, proporre e perseguire nuove forme di regolazione che pongano al centro quella che nel libro viene definita la “licenza sociale”: l’attività economica, pubblica e privata, deve ritenersi legittima soltanto se opera a vantaggio dell’intera società. Qualcosa di più delle “forme molecolari di autodifesa”, che di fatto già esistono.
La proposta potrebbe essere letta come irrealizzabile e utopistica. Va tuttavia riconosciuto agli autori la capacità di renderla estremamente persuasiva e di non difficile implementazione. E, più in generale, va riconosciuto agli autori il merito di aver prodotto una ricerca di ampio respiro, di impianto multidisciplinare, che può essere letta e agevolmente compresa anche da non ‘addetti ai lavori’. In fondo, l’interminabile crisi che viviamo e l’evidente insostenibilità di questo modello di sviluppo dovrebbero indurre gli analisti sociali a evitare attitudini conformiste, a esercitare il pensiero critico, a diffondere i risultati della loro elaborazione teorica anche al di fuori degli steccati della Torre d’Avorio delle Università. |
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Lunedì 11 Luglio 2016 16:48 |
Recensione semi-seria di Ilaria Ferramosca
“Non si esce vivi dagli anni ‘80”, cantavano gli Afterhours già nel 1999.
Forse vivi se ne può anche uscire, ma indenni decisamente no. Ne sono la prova lampante quasi tutti quei bambini nati negli anni ’70 che hanno vissuto l’adolescenza nei mitici eighties, oggi adulti (si fa per dire) “con la testa sopra un altro pianeta” (come Eta Beta), ancora pronti a inseguire i restyling dei cartoni di Jeeg Robot, le repliche di Hazard, i jingles pubblicitari e le sigle cantate da I Cavalieri del Re o gli Oliver Onions.
E se per caso qualcuno non ha capito un accidente delle prime 515 battute spazi inclusi, molto probabilmente non ha vissuto quel periodo. Ve lo dice una bambina di nove anni! Sì, insomma, sarebbero lustri, ma ognuno ha il calcolo temporale che si merita.
Tornando al futuro, però, che poi sarebbe l’epoca contemporanea (vi ricordate quanto ci sembrava lontano il Duemilauno dell’Odissea Kubrickiana?) se vi dovesse capitare tra le mani un libro che s’intitola “L’osceno del villaggio” (ArgoMenti Edizioni 2016), maneggiatelo con cura. E per più di un motivo.
Primo tra tutti: nuoce gravemente al riposo mentale, sarete obbligati a ragionare, per cui se volete crogiolarvi sotto l’ombrellone o rosolarvi fino a farvi evaporare, lasciate perdere, non è cosa, sareste obbligati a dar fondo sino all’ultimo neurone rimasto (e poi vi spiegherò il motivo). Secondo, perché non è un libro, è una DeLorean DMC-12 camuffata, per cui, se ci salite sopra, accertatevi di avere una potenza elettrica di 1,21 gigawatt, o almeno del plutonio per assicurarvi il ritorno.
Vi dicevo, dunque, che non è una lettura estiva. Ma non lo è neanche invernale, perché ciò che è osceno non ha stagioni, è osceno sempre. Cosa c’è di più licenzioso e triviale, infatti, della messa a nudo della società odierna, con il suo torpore indotto dal circo mediatico? Panem et circenses, del resto, sono sempre serviti a ottundere le facoltà di raziocinio della popolazione mediocre, oggi incline alla polemica del politico che bussa porta a porta e del coniuge risentito che si rimette al verdetto finale di fior fiore di opinionisti e psicologi da salotto (il lettino è ormai archeologia sanitaria), per ottenere una ragione certificata dall’audience.
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