Linguistica
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Lunedì 29 Agosto 2016 12:23 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 28 agosto 2016, p. 15]
Di mestiere faccio il linguista. Qualche sera fa ero nel centro di Lecce. Folle di fronte a Santa Croce, le guide spiegano e illustrano, i turisti ascoltano e naturalmente fanno mille foto con il telefonino. Sento risuonare pronunzie di regioni del sud, del centro e del nord Italia, frasi in lingue straniere si diffondono qua e là. Il plurilinguismo mi piace, l’ho detto altre volte, segnala l’incontro tra genti diverse. La città è animatissima, constato di persona quanto in queste settimane leggiamo e ascoltiamo nelle cronache dei media: tanti turisti italiani e stranieri scelgono il Salento per le loro vacanze. Va bene, ovviamente, anche se non tutto è semplice, il cambiamento comporta impegno. Classe dirigente e singoli cittadini, siamo chiamati a gestire l’importantissima partita: sviluppo sostenibile, come si usa dire, a cominciare dalle forme esterne e dal decoro. L’accoglienza si accompagni all’osservanza delle regole del vivere associato: tutti, abitanti del posto e turisti, si sappiano comportare. Centri abitati, strade, spiagge e campagne non siano luoghi sporchi e disordinati, profitto economico e bellezza debbono coesistere. Benissimo ha fatto «Nuovo Quotidiano» a scrivere in prima pagina, il 19 agosto, «Sole, mare vento e spazzatura: sulle strade il peggio del Salento»; e a insistere nel giorni successivi, non bisogna tacere. Non va molto meglio nel capoluogo, specie nelle periferie: la città è sporca. E spesso non va meglio in altre località del Salento, sono sporche. Tutto questo non succede a caso, le cause si individuano facilmente. Inciviltà dei singoli, certo; ma anche negligenza di chi dovrebbe pulire e menefreghismo di chi dovrebbe controllare, nonostante le tasse della TARI, altissime per il servizio reso. Non cito episodi incivili cui ho assistito di persona. Di questo parleremo, forse, in un’altra occasione.
Torniamo al punto di partenza. Il mio sguardo si sposta da Santa Croce a un palazzo sulla destra, un’insegna attrae la mia attenzione: «Palazzo Taurino. Medieval Jewish Lecce». Vi entro, è un museo sotterraneo che illustra un aspetto poco conosciuto della nostra storia, la presenza pluricentenaria degli ebrei in città. L’iniziativa si deve a un gruppo di cinque giovani che, animati da buona volontà, hanno realizzato una mostra permanente. Il percorso si snoda costeggiando la sala delle vasche, la sala del granaio, la sala del camino ed è accompagnato da pannelli e foto, c’è un video, in un angolo si vende cibo kosher (la cucina kosher è quella che rispetta i dettami della religione ebraica sull'alimentazione). Fabrizio Lelli, che insegna lingua e cultura ebraica nella nostra Università, ha fornito l’indispensabile consulenza scientifica.
Lo slogan che leggiamo sui pannelli luminosi diffusi in città recita: «Benvenuti a Lecce, capitale del barocco». È giusto, il barocco segna la nostra storia. Ma esistono, a Lecce e nel Salento, pezzi del passato non meno affascinanti. Il Salento preistorico offre una delle più grandi concentrazioni di dolmen e menhir d’Italia a Giurdignano, un piccolo centro vicino Otranto, vero giardino megalitico d'Italia. In tante diverse località è ben visibile il Salento messapico, greco, romano, bizantino con le mura, gli anfiteatri, gli scavi, le chiese, le cripte che archeologi e storici dell’arte con tenacia recuperano, studiano, sottraggono al degrado del tempo e molto spesso anche all’incuria degli uomini e delle istituzioni (quando la smetteremo di farci male?). Il Salento liberty si lascia ammirare con le dimore borghesi di Lecce lungo viale Lo Re e viale Gallipoli e con la sfilata maestosa delle Cenate (da Nardò verso il mare), dove ville in stile liberty si alternano ad altre barocche, ad altre ancora in stile moresco e ricche di motivi orientali, costruite per la maggior parte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, alcune già nei secoli precedenti (trovo una citazione delle Cenate in un documento della fine del Quattrocento).
E c’è, ancora poco noto, il Salento medievale successivo all’anno mille, di cui oggi voglio parlare. Quella medievale è una storia di incroci, non di isolamento o di separatismo. Popoli diversi hanno avuto contatti, a volte pacifici a volte bellicosi e traumatici, con i nostri antichi progenitori: ebrei e bizantini, già citati; e normanni, angioini, catalani e castigliani; dalla costa di fronte sono arrivati i turchi con le armi (tutti conoscono il sacco di Otranto del 1480, ma non è l’unico assalto) e albanesi e slavi chiamati a lavorare. Erano continue le relazioni, vai e vieni, con altre regioni d’Italia: Napoli (la capitale del Regno), Firenze (il centro culturale più importante), Venezia (in piazza Sant’Oronzo a Lecce, sull’architrave del Sedile, è effigiato il Leone di San Marco). E poi rapporti con le altre zone del Sud estremo, continentale e insulare (la Sicilia e l’area calabro-lucana). La storia culturale della nostra terra nel Medio Evo è animata e multiforme, percorsa da scambi molteplici. Non si viaggiava per turismo: si spostavano di continuo, per le occasioni più varie, mercanti, notai, funzionari di corte, uomini d’arme, monaci, predicatori. Quella medievale non è una società immobile, come spesso sentiamo ripetere. Impariamo a leggere le tracce giunte sino a noi, non solo attraverso i monumenti e gli edifici, ma soprattutto studiando gli antichi testi. Le situazioni del passato si riverberano nei testi, tutto si riflette nella lingua.
Non sono passati molti anni da quando studiosi eccellenti ripetevano che una storia linguistica del Salento e della Puglia era di fatto impossibile per la scarsità della documentazione disponibile. Oggi sappiamo che questa pregiudiziale non è vera: censimenti accurati e nuove indagini hanno portato alla luce molti testi fino a ieri sconosciuti, numerosi e variati. Testi letterari e di contenuto enciclopedico, grammaticale, religioso, trattati di medicina e di veterinaria, statuti, inventari, documenti del mondo giuridico-notarile e dei conventi, testimoniano una cultura varia nei contenuti, fino alla vita quotidiana. Possiamo recuperare un enorme patrimonio di parole riguardanti oggetti d’uso comune e attrezzi di lavoro, utensili, arredi della casa, vesti, tessuti, ornamenti, recipienti, mestieri, materiali e tecniche di esecuzione, animali terrestri e pesci, indicazioni di misura e di peso, monete, anche campi astratti come colori, dignità e cariche, diritto, relazioni di parentela. I testi medievali documentano parole e forme moribonde o scomparse dai nostri dialetti odierni, preziosi. Così il passato si collega al presente.
Allo studio scientifico della nostra lingua antica si dedicano giovani capaci. Mi limito a citare due pubblicazioni recenti: 1. un trattato sulla peste, il Librecto di pestilencia (1448), scritto dal galatinese Niccolò di Ingegne per Giovanni Antonio Orsini del Balzo, principe di Taranto (lo ha studiato Vito Castrignanò ed è stampato a Roma dal prestigioso Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Centro di studi orsiniani); 2. un commento al Teseida di Boccaccio, lo Scripto sopra Theseu re, compilato da un anonimo salentino negli anni ottanta del sec. XV per Angilberto del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò (lo ha studiato Marco Maggiore ed è stampato in Germania dall’editore de Gruyter in una collana di prim’ordine). I due ricercatori, formatisi nel nostro Ateneo, lavorano oggi in un Istituto CNR di Firenze.
Un mio amico tedesco, che conosceva bene e amava la nostra regione, mi disse una volta: «In Salento esistono tutte le condizioni per una stagione turistica che si estenda molto al di là dei mesi estivi. Puntate sui pensionati benestanti del Centro e del Nord Europa. Approfittando del clima mite, attirateli in primavera e in autunno, mostrate loro le meraviglie di cui è disseminata la vostra terra, puntate sulla cultura». Torniamo così allo sviluppo sostenibile e ben educato di cui parlavo all’inizio. Il guanto è lanciato, una nuova sfida potrebbe avere inizio.
p.s.: la serie estiva oggi finisce. Alcuni lettori mi scrivono, fanno osservazioni, pongono domande. Per quanto possibile rispondo ai singoli, ma a volte non ce la faccio. In accordo con «Nuovo Quotidiano» vi proponiamo questo. Scrivete a:
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. I quesiti più stimolanti e di interesse generale saranno da me commentati su questo giornale. |
Linguistica
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Mercoledì 24 Agosto 2016 20:33 |
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 21 agosto 2016, p. 7]
Di mestiere faccio il linguista. Per i miei spostamenti lontano da casa di norma viaggio in treno, in bus o in aereo. Mi è più comodo, e inoltre m’illudo di contribuire al risparmio energetico usando i mezzi pubblici (ma non ne sono sicuro). Contrariamente al solito, una settimana fa ero in macchina in autostrada. Al termine della corsa, in prossimità della sbarra, mi fermo per pagare il pedaggio. Sulla colonnina leggo: «il pagamento del pedaggio si effettua dal lato dove opera l’esattore» e la scritta mi lascia perplesso, per varie ragioni: 1. non c’è nessun esattore, la postazione è vuota, non vi opera nessuno; 2. perché «si effettua», non sarebbe più semplice scrivere «si fa»? Comunque procedo, uso il bancomat, ritiro la ricevuta, la sbarra si solleva, passo, riprendo il mio viaggio.
Ma il pensiero torna a quella frase complicata e troppo lunga. Ricordo che qualcuno mi ha detto che sulle autostrade americane la scritta è «pay here»; non avremmo potuto anche noi scegliere di scrivere «paga qui», non sarebbe stato più semplice? E poi, «si effettua»…, perché mai? Sulla vetrina di un locale leccese leggo: «l’ingresso si effettua dalla porta accanto», in un bar del centro storico c’è il cartello «non si effettua il servizio ai tavoli ». Non sarebbe più semplice scrivere «si entra dalla porta accanto» e «non si serve ai tavoli»? Complicati non sono solo i gestori di quegli esercizi cittadini e della società «Autostrade per l’Italia» (mi pare si chiami così, non ho controllato). Ricordo che un annunzio di Alitalia un tempo recitava: «In caso di necessità un sentiero luminoso sul pavimento …». Una volta feci notare ad una hostess educata e solerte che il sentiero non poteva trovarsi che sul pavimento, non poteva certo essere collocato a mezz’aria o in alto sulla carlinga; lei mi rispose che l’avrebbe fatto presente a un suo capo, forse ha funzionato, oggi quell’annuncio è cambiato.
Mi viene in mente un famoso brano di Calvino intitolato L’antilingua, che racconta il seguente episodio (immaginario ma realistico, sembra vero). Un poveraccio è accusato di furto con scasso, avrebbe rubato un fiasco di vino da una bottiglieria. L’accusato dichiara: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata». E il brigadiere registra la sua dichiarazione “ufficiale”: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».
L’accusato per difendersi usa una lingua concreta, fatta di parole comprese da tutti: «cantina», «accendere la stufa», «fiaschi di vino», ecc. E il brigadiere traduce in una lingua burocratica e lontana, in una “antilingua”, preferita perché sembra più importante rispetto alla lingua di tutti i giorni: «locali dello scantinato», «eseguire l’avviamento dell’impianto termico», «quantitativo di prodotti vinicoli», ecc.
Tutto questo non avviene per cattiva volontà, avviene per abitudine e per superficialità. E non ne risulta affetto solo l’immaginato funzionario di polizia, il fenomeno coinvolge segmenti estesi della popolazione, raggiunge anche chi si occupa professionalmente della lingua, perfino professori e giornalisti. L’antilingua consiste nel ricorrere a parole che sembrano solenni, più elaborate rispetto all’uso corrente, che per questo appaiono preferibili. Ma è vero esattamente il contrario, dobbiamo usare parole facili e comprensibili, migliorerà l’efficacia della comunicazione.
Su un piano diverso, non molto distante, si colloca l’abuso di frasi fatte e di stereotipi, adottati senza badare agli effetti che ne derivano, a volte addirittura comici. In un quotidiano nazionale del Nord alcuni anni fa lessi il seguente titolo involontariamente umoristico: «non piove da mesi e la Brianza è con l’acqua alla gola». Giuro che qualche tempo dopo in un quotidiano del sud (non il nostro, per fortuna) apparve: «non piove da mesi e la Puglia è con l’acqua alla gola». Quei titolisti non si copiano a vicenda, usano la lingua in modo improprio, ricorrendo senza badare a stereotipi linguistici, anche quando sono del tutto inadeguati. Non sfruttano le enormi potenzialità dell’italiano, si accontentano di «minestre riscaldate». Altre volte ho ricordato esempi reali, letti in altri articoli: «il cane, con un balzo felino…» e «i tre, benché calabresi, erano incensurati» (cronaca dell’arresto di tre individui sospettati d’una rapina in banca).
L’uso di espressioni meccaniche e ripetitive farcisce negativamente molte cronache giornalistiche e molti notiziari televisivi. Pensate agli «scafisti senza scrupoli» che traghettano sulle nostre coste migliaia di sventurati, ai «blitz» di polizia e carabinieri che invariabilmente «scattano alle luci dell’alba», alla «morsa del gelo» (puntualmente segnalata dalla «colonnina di mercurio»), che a volte d’inverno ci «attanaglia», specie quando le nostre città sono sepolte da una «coltre di neve». Oppure, «cambiando decisamente argomento», pensate al «transatlantico», dove parlamentari del «cerchio magico» o del «giglio magico», spesso «raggiunti da avvisi di garanzia» oppure sospettatati di attività sottoposte «al vaglio degli inquirenti» («le indagini sono a 360 gradi»), invece di occuparsi dell’«interesse nazionale» si dedicano al «teatrino della politica». O infine, e così «voltiamo definitivamente pagina», veniamo dettagliatamente informati sul «lato B» di molte signore e signorine, non solo quello prototipico di Pippa Middleton, la bella sorella di Kate, «balzata agli onori della cronaca» durante le «nozze del secolo», la «cerimonia da favola» con la quale la sorella ha «impalmato» l’«affascinante/atletico principe William».
Alcuni anni fa Ornella Castellani Pollidori, che ha insegnato a Firenze, per definire questa lingua intessuta di formule consunte e vuote, e perciò stesso vaghe, coniò l’espressione “lingua di plastica” (una variante più diffusa dell’“antilingua” di Calvino). Ci invitava a diffidare dei luoghi comuni linguistici che hanno scarsi margini di precisione, sono poco aderenti alla realtà e alla specificità delle cose e quindi risultano incapaci di esprimere esattamente il nostro pensiero. Peggio, sono fastidiosissimi.
Ricordate il dialogo di Palombella rossa, il film di Nanni Moretti. All’intervistatrice che usa frasi come «matrimonio a pezzi», «rapporto in crisi», «è così kitsch», «io non sono alle prime armi», «il mio ambiente è molto "cheap"», «ma lei è fuori di testa!», il protagonista reagisce aggressivamente: «Dove le andate a prendere queste espressioni, dove le andate a prendere...?», «ma come parla?», «Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parlaaaaaaaaaa!» fino alla conclusione, che mi sento di sottoscrivere: «Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!».
Le parole valgono, senza dubbio. Un video, che ha come protagonista la giovane attrice Angela Curri, gioca in maniera divertente sull’uso ripetuto della parola «carino» per descrivere cose, circostanze, luoghi e contesti differenti. Il video ha grande successo anche in rete, è virale (come oggi si usa dire). L’attrice, con diversi toni di voce, usa «carino» quando vede passare un bel giovane palestrato, quando un signore le cede il posto in autobus, quando commenta un film che le è piaciuto, sospira «che carino» quando abbraccia affettuosamente un cucciolo di cocker, sussurra «carinissimo» quando ammira il panorama dei sassi di Matera. Alla fine si ravvede e capisce che non tutto è semplicemente «carino», termine consunto che non può valere per definire cose o fatti così diversi. La nostra lingua possiede altri aggettivi, che possiamo variare a seconda delle circostanze: «magnifico», «emozionante», «sconvolgente», «eccezionale», «splendido», «grandioso», «fantastico», «bellissimo». Si tratta di una intelligente campagna pubblicitaria a favore del Vocabolario Treccani, potrebbe valere in generale per altri vocabolari pure eccellenti (per fortuna ve ne sono: De Mauro, Devoto-Oli, Garzanti, Sabatini-Coletti, Zingarelli). Il video si chiude con uno slogan semplice ed efficace: «Senza parole? La lingua italiana ne comprende oltre 250 mila, usiamole». La campagna si concentra opportunamente sulla ricchezza della lingua italiana e sulle sfumature dei termini che la compongono. L’obiettivo è condivisibile: spingere tutti noi, indipendentemente dalla nostra attività o professione, ad ampliare e diversificare il nostro lessico quotidiano.
Non bastano le 500 parole (più o meno) che parrebbero sufficienti per le necessità elementari della vita quotidiana: ne risulterebbe appiattita e manichea la visione stessa del mondo. Disporre di un lessico ampio non è un lusso per pochi: la ricchezza lessicale consente di elaborare i concetti, semplici e anche complessi, trovando le parole adeguate per poterli esprimere. |
Economia
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Martedì 23 Agosto 2016 22:09 |
Buona occupazione?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 23 agosto 2016]
L’ultimo Rapporto Istat certifica un leggero aumento del numero di occupati e una contestuale riduzione del numero di inattivi. Il tasso di occupazione aumenta di un punto percentuale, mentre il tasso di disoccupazione (contabilizzato come rapporto fra numero di disoccupati e totale della forza-lavoro) aumenta, raggiungendo l’11.6%. Sembra una notizia positiva e ovviamente il Governo ha il massimo interesse ad attribuirsene il merito. E “fatti, non parole” è stato il commento del Presidente del Consiglio. E’ tuttavia necessario comprendere più a fondo cosa ha portato a questo risultato e se questo risultato va effettivamente considerato positivo.
1. Contrariamente alla tesi governativa, il Jobs Act non ha avuto alcun ruolo. La riduzione degli sgravi contributivi per le assunzioni con contratti a tutele crescenti – misura prevista in quel provvedimento - ha generato, come ci si attendeva, un aumento dell’occupazione precaria. In tal senso, prima di salutare i dati ISTAT come un clamoroso successo del Governo, è necessario interrogarsi sulla tipologia dei nuovi contratti di lavoro. Non si può considerare un successo l’aumento dell’occupazione precaria soprattutto da parte di un Governo che ha scommesso sull’aumento dei contratti a tempo indeterminato. Peraltro, è ragionevole attendersi che molto difficilmente questo obiettivo verrà raggiunto, dal momento che, nelle condizioni date, l’aumento dell’occupazione a tempo indeterminato (ovvero la somministrazione di contratti a tutele crescenti) si rende possibile solo mediante gli sconti fiscali che il Governo asseconda alle imprese che assumono con questa tipologia contrattuale. Di quante risorse il Governo potrà disporre per le decontribuzioni negli anni a venire? A quanto pare, di risorse di entità decrescente, come i fatti stanno a dimostrare: gli esoneri contributivi al 100% sono stati esauriti nel dicembre 2015.
2. ISTAT certifica che l’aumento dell’occupazione ha riguardato soprattutto (se non esclusivamente) individui di età superiore ai cinquanta: più in dettaglio, si è ridotta l’occupazione nella fascia d’età compresa fra i 35 e i 49 anni (111 mila unità). Ciò che verosimilmente è accaduto è che, in virtù di una legislazione pensionistica sempre più stringente, una platea ampia di lavoratori si è trovata nelle condizioni di posticipare l’età del pensionamento. Anche in questo caso, non sembra di poter fare riferimento a un successo del Governo. Semmai, se l’effetto è quello qui individuato si tratterebbe di un insuccesso.
3. Trattandosi di variazioni di entità modesta, occorre anche tener conto delle metodologie di stima utilizzate dall’ISTAT e di quelle utilizzate da altri Istituti di ricerca. EUROSTAT, in particolare, certifica che il tasso di occupazione in Italia è fra i più bassi nel confronto con altri Paesi dell’Eurozona, con una differenza di circa 10 punti percentuali. E che solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore al nostro. In più, la valutazione sull’andamento del mercato del lavoro italiano cambia radicalmente di segno, rispetto a quella governativa, se si guardano le serie storiche, dalle quali risulta che il numero di occupati nel II trimestre 2012 (Governo Monti) ammontava a 22.706.000 unità e nel III trimestre 2015 (Governo Renzi) a 22.645.000 unità;
nel II trimestre 2016 (Governo Renzi) a 22.546.000 unità.
A ben vedere, il fatto che l’occupazione, se effettivamente è aumentata, è aumentata in misura modesta riguardando prevalentemente lavori precari si spiega bene considerando che il quadro macroeconomico non si è affatto modificato negli ultimi mesi.
In particolare, la dinamica degli investimenti privati ha continuato a essere di segno negativo rispetto agli scorsi anni. In più, le esportazioni nette, nel corso dell’ultimo anno, non hanno contribuito a far crescere la domanda, anzi. Su fonte ISTAT, si registra, per il 2015, una contrazione del saldo commerciale dai 5.3 miliardi dell’ottobre 2014 a circa 4.8 miliardi dell’ottobre 2015. Ciò è accaduto fondamentalmente a ragione del pur modesto aumento del tasso di crescita, che si è immediatamente tradotto in un rilevante aumento delle importazioni. La pressoché totale dipendenza del nostro settore produttivo dall’acquisto dall’estero di prodotti energetici, di beni strumentali e di prodotti intermedi ha prodotto una crescita delle importazioni nell’ordine del 5%. In secondo luogo, è continuato, nel periodo considerato, l’aumento dei risparmi per motivi precauzionali. Si tratta di un fenomeno tipicamente associato a un aumento dell’incertezza, che, nel contesto attuale, è in larga misura dipendente dal continuo aumento della disoccupazione giovanile e dei tassi di inattività, nella sostanziale assenza di ammortizzatori sociali. In altri termini, le famiglie italiane hanno reagito e reagiscono alla bassissima probabilità per i loro figli di trovare occupazione trasferendo loro reddito, ovvero sostituendosi allo Stato nell’erogazione di sussidi; il che, sul piano macroeconomico, si traduce in riduzione della domanda e conseguente riduzione dell’occupazione. In più, su fonte ISTAT, l’indice di fiducia di imprese e consumatori ha continuato (e continua) a ridursi certificando che né gli investimenti né i consumi sono (e saranno nel breve periodo) in aumento.
Va detto che il 2016, per il mercato del lavoro italiano, andrà ricordato come l’anno del boom dei voucher, con un incremento, su fonte INPS, del 43% rispetto al 2015. Si tratta di “buoni lavoro” di 10 euro per prestazioni saltuarie e occasionali. Evidentemente, anche per questa ragione, occorre essere molto cauti nell’affermare che il mercato del lavoro italiano dà segni di miglioramento. Ciò che di certo si può affermare è che non si sta andando nella direzione auspicata dal Governo di creazione di “buona occupazione”. |
Linguistica
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Lunedì 22 Agosto 2016 08:21 |
[“Presenza taurisanese" anno XXXIV n. 285 - agosto 2016, p. 6]
Uno dei primi seminari di aggiornamento per giornalisti a Lecce, in osservanza della Legge Severino, fu dedicato al rispetto del femminile nella comunicazione giornalistica (Lecce 2015). Il tema ormai è noto. Tutti i nomi che indicano i titolari di mestieri, professioni, cariche, una volta ad uso esclusivo o quasi del maschile, vanno sic et simpliciter volti al femminile, secondo le circostanze. Avvocato? Avvocata! Notaio? Notaia! Commissario? Commissaria!
Per i nomi maschili che finiscono con vocale diversa dalla "o" basta cambiare l’articolo che li precede: "il presidente" per il maschile? "la presidente" per il femminile!
Questo è il trend anche nella comunicazione orale, quotidiana e popolare. Direi anzi che in questo genere di esercizio il popolo è ancora più pronto alle trasformazioni perché non si preoccupa d’altro se non di farsi capire nell’immediato. Nei soprannomi, che è il regno della comunicazione popolare, spesso il cognome "Barone" diventa "barona" se indica una donna.
Dello stesso parere sono i linguisti. Del resto è l’uso che comanda, contro di esso non valgono ragioni. Già Orazio nella sua Ars poetica ribadiva che tutto nel parlare dipende dall’uso: “si volet usus, quem penes arbitrium est, et ius et norma loquendi” (Epistula III, Ai Pisoni, 71-72).
Ovvio che non si toccano quei nomi che per tradizione hanno il loro consolidato femminile, come, per esempio, professore/professoressa.
Ma è poi vero che la questione sia così semplice? E se invece del "capo", che è stato sempre maschio per indicare il responsabile generico di un’azienda, di un’impresa o di una banda, si deve indicare "la capa"? Francamente suona male.
Ma il problema non si esaurisce ai soli nomi maschili che per tradizione al femminile suonano male. Dire "un politico", per indicare un uomo che si occupa di politica o ricopre cariche politico-amministrative, va benissimo. Ma se il politico è una donna? Si viene meno ad immediatezza e chiarezza se si dice "una politica"; qui non si intende immediatamente una donna che sta in politica, ma una particolare filosofia politica. Se poi usiamo questo nome al femminile plurale è ancora peggio. "Le politiche" non sono donne che stanno in politica, ma i diversi approcci metodologici nell’affrontare problemi politici relativi a vari settori della pubblica amministrazione per raggiungere determinate finalità.
E, allora, che fare? Non ci resta che affidarci ad Orazio e lasciamo che l’uso faccia quello che in altra sede fa la natura, che non sbaglia mai e non fa mai nulla a caso. |
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