Ti sono stato accanto |
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Poesia |
Sabato 16 Ottobre 2010 20:28 |
al mio babbo, Mario NOTA
Elaborazione del lutto: ho dovuto impratichirmi vivendo. La morte ha sempre avuto un ruolo di primo piano nello spettro delle mie personali paure. Ricordo, come momento dei più teneri tra me e mio padre, la sera in cui lo chiamai singhiozzante dal mio letto di bambino per essere rassicurato, o soltanto confortato, dall'angoscia che il pensiero della morte mi aveva acceso nel petto. Adesso che il pensiero è fatto dato e compiuto, lo spavento agitante e sconsolato non è che una eco di paradossale nostalgia. L'amarezza della fine da un certo punto in poi diviene compagna inseparabile, che sconfessa ogni ricerca di pura felicità.
Si rompono le amicizie, ci si disamora di uomini e donne, si soffre da matti, perché ogni rottura è perdita di una parte di sé, bella o brutta che sia. In un certo senso, difatti, le persone da cui ci si allontana o separa sono proiezione di noi verso l'esterno, e anche noi rappresentiamo una parte delle e per le altre, guai se così non fosse, ci sentiremmo traditi, uccisi: e quale peggior cosa dei morti ammazzati?! Quando poi la perdita diviene reale, non più soltanto metaforica, non ci sono parole che possano dire più. Proprio alle parole mi sono rivolto nei giorni che hanno seguito la recente perdita del mio babbo, pur conscio della loro inadeguatezza e inefficacia, loro a descrivere l'intorno, lui tutto il resto: al centro. Inutile quindi esplicitare quanto questo doloroso fatto mi abbia cambiato, avendo perduto parte di un me stesso che, riavvicinata a luoghi e affetti, allo stesso tempo ritrovandosi si è moltiplicata. E c'è la malattia. Acida, spietata, inesorabile. La malattia che non è solo delle persone colpite, anche dei familiari o di chi resta. L'odore degli ospedali ti si appiccica addosso, come la luce gialla di certi ascensori e sempre si ha l'impressione di scendere verso un giù senza gioia. La prima poesia è forse la più significativa e articolata, e necessita di una piccola spiegazione. Racconta, in maniera non certo lineare ma poetica - accumulando impressioni e immagini –, il senso di impotenza suscitato dalle storie che la notte di un ventoso maggio sono venute a intrecciarsi, nello squallore del reparto di oncologia dell'ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, e che raggiunse il suo acme quando una donna colpita nelle funzioni cerebrali cominciò ad urlare e ripetere ossessivamente frasi sconclusionate. Ricordo i suoi “urgente”, i “siediti”, i suoi “sabato”, … nella ripetizione le parole venivano a trovarsi esautorate dal senso compiuto, e il sabato diventando “sabado” pareva mettere esemplarmente a nudo il meccanico orrore, ma anche l'umanità, di quell'assurdo mantra - modalità forse suggerita dall'istinto, a protezione dal male, dal dolore, dalla perdita delle regolari attività della persona. Chissà… quando si è col malato si soffre per il suo stato, eppure la tensione empatica non è mai tale da comprenderne tutta la sofferenza, fisica e psicologica. La malattia vuol farsi dire, si parla in continuazione con conoscenti e amici... e vengono magicamente fuori le dolorose storie: ho raccolto confidenze in questo periodo inaspettate e commoventi, i reduci hanno bisogno di consolarsi a vicenda, si guardano negli occhi ed è tutto un capirsi, un farsi coraggio, un volersi bene. Sono i retaggi culturali che suggeriscono vergogna per la malattia e la narrazione del tramonto terreno, la condotta di vita di mio padre, aldilà delle tante divergenze di pensiero, mi ha insegnato che la vergogna deve essere per il ladrocinio, per quella disonestà - minuta o all’ingrosso - che il nostro tempo sembra aver trasmutato in virtù. Non ho versi che rasentino la perfezione, in compenso ho sempre creduto nella potenza esplosiva della verità. Devo averlo già detto: la poesia non è degli uccellini cinguettanti e dei prati in fiore, quella è vera poesia certo!, che non si lascia impressionare, catturare, fotografare, ma che l'uomo nella sua incessante foga creatrice continuamente distrugge. All’aedo il difficile compito di ricomporre il quadro, con la consapevolezza di quella distruzione e l'orgoglio o la mestizia della ferita. La lirica letteraria agisce dunque in differita, l'esperienza umana serve a riempire questa distanza, mediando la realtà con il vissuto personale, unico, irripetibile del poeta, come di qualunque altro vivente. La morte del babbo ha dato una sterzata anche al mio essere artista, sono in un certo senso – come si dice - sceso dal pero, ho uno sguardo più tenero, avendo oggi perso la proiezione di me verso l'esterno che mi rappresentava quale Forza, se non assoluta, quantomeno consolatrice. Non ho versi che rasentino la perfezione, spero solo che nei seguenti vi sia una verità in grado di muovervi l'interno.
Bologna / Galatina, maggio – ottobre 2010
IL CANTO DEI MALATI TERMINALI
Il canto dei malati terminali è un concerto per fiati corporali, naturali o mutuati dai linguaggi umani, la corona della Madonna nella rientranza del corridoio non luce abbastanza per accompagnarmi nella lettura di uno Sciascia, una vecchia d’improvviso intona un urlo e vende il Sabato, un Urgente, un Siediti, … e nel suo mantra orripilante la T del Sabato si gonfia in una D (d’orrore) la figlia che piange nella sala d’aspetto la luce del neon è l’unico spiraglio per aprire e leggere questo libro: il babbo che si sveglia nella notte in stato confusionale e con l’atroce sentore della fine, il tricolore svolazza al secondo piano dalle finestre dell’ospedale - in stato confusionale - tra il vento e la pioggia del tavoliere pugliese cui basta poco per allungarsi e sparire nel mare. Sarà così che svaniscono le convenzioni moltiplicandosi, come le cellule tumorali in questo reparto crepuscolare, con la terra che sprofonda nelle acque salate, muoia il nome dunque dello Ionio, dell’Adriatico, di tutto il Mediterraneo e questo mare abbia un solo principio, una sola fine un solo nome: l’amore d’un figlio per il proprio genitore.
GLI STRAORDINARI
ci siamo frequentati per tanto l’eternità dei musi duri dei musi sbattuti contro i muri degli abusi dei silenzi tragicamente comici le durevoli asperità così ci hanno avvicinato al Cosmo adesso invece è bastata una falla improvvisa - certo! preannunciata dai rimproveri della mamma per il tuo accanirti sulla sigaretta - è bastata dicevo questa falla per distruggere un niente immenso, profondo come il profondo male ed eccoci adesso nella melma della vita coi tuoi catarri, i piedi gonfi, la merda il piscio la cataratta il tuo momentaneo disamore per la vita la famiglia la politica, dopo un’esistenza dedicata agli altri o alla negazione di te stesso, e adesso che ti dovrei ammazzare farla finita sul serio - per il tuo bene - adesso, sì, mi ritiro e ti pulisco il culo, ti lavo i denti, cerco di farti dormire, ti serbo amorevoli attenzioni, ma non era questo che avremmo desiderato? stringerci in un abbraccio d’amore o morte, al di fuori di questi due: solo il gesto dettato dalle contingenze dettato delle contingenze ah ma adesso … ama adesso
ci siamo frequentati per tanto ma adesso che ogni gesto non ha più la forza dello scontro ammutolisco, faccio gli straordinari come tu con i tuoi uffici previdenziali
TI SONO STATO ACCANTO
ti sono stato accanto gli ultimi giorni nel bagno dell'ospedale davanti allo specchio ti guardavi incuriosito forse per salutarti tornavi a sedere quindi, e con un colpo di spazzola ti sistemavi i capelli “sii orgoglioso” vorrei dirti hai fatto bene vivendo
ti ho accompagnato come una mamma un babbo un figlio una sorella e guidandoti da parte a parte ti ho stretto le spalle, del costato serbo ancora il calore di te-corpo che una notte in un tempo eterno mi ha acceso, proprio adesso che sei dappertutto ti amo
di un amore grande babbo mio bello per questo uomo di ossa, polvere, per questa distesa rosa di pelle a tratti liscia a tratti dura, mai incerta
ti sono stato accanto gli ultimi giorni io ti guardavo di lato tu ti scrutavi furtivo inquieto forse, dal fondo nel tagliente argento di uno specchio in un triste ospedale andarsene sì ma in un modo così brusco non capisco no, non capisco il dolore che non lascia un sereno
sei morto due volte sbarrando gli occhi l'anima d'un colpo e noi lì tutti nella stanza 109 all'oncologico del Vito Fazzi di Lecce, poi a casa tua al quinto piano col respiro che piano piano salendo è sceso scendendo noi tutti intorno piangendo morendo tu tutto al centro noi tutti intorno
LA PAGELLINA
ci sei stato sorridente e dentro al pianto ci sei stato da babbo, marito, fratello, amico e grande nonno ci sei stato nelle reali o conflittuali distanze ci sei stato nella fatica e nella gioia di ogni giorno ci sei stato nel sacrificio e nell'impegno ma sei stato soprattutto un cuore grande rivolto all'altro
ci sei stato e ci sei adesso, Mario che con Dio, tu per noi, potrai essere dappertutto
UN TUO RICORDO
ho voluto soltanto il tesserino dell'inps e quel bel cappello che comprasti a Bologna lo scorso inverno a malattia avanzata, l'ultimo gesto di vanità in cui possa specchiarmi e rinascere padre io a me stesso ogni giorno, col tuo ricordo
LA CAMERA ARDENTE
la camera ardente non era perfetta a prima mattina, prima che la gente per le condoglianze si accalcasse al centro un nugolo di mosche, tu nel fondo nella cassa in legno, a terra un tappeto, fiamme artificiali ai lati, non fuoco vero, uno squallido neon appeso al soffitto t'illividiva ancor di più il volto spento e piano piano fiori dappertutto nel dolore improvviso uno squarcio di silenzio, col maggio entrasti col canto degli uccelli, non morto ma sorridente e azzurro, il nostro pianto
QUANTE QUANTE QUANTE QUANTE (una canzone)
Quante occasioni perse ci siamo lasciati quanti bei momenti abbracci quanti baci mancati
l'idea che non esista nient'altro che il reale mai ci chiarirà il mistero dell'amore
quanti film perduti ... cose che avrei voluto dire tu che non torni io che strada dovrò fare?
l'universo in una lacrima il fluire del mare quante quante quante quante che vale contare...!?
l'idea che un aeroplano ti possa riportare così banale così infantile è il cuore
quanti fili persi ... gesti che avrei potuto fare tu che non passi io (maledetto io), una strada da provare!
che lasciarci soli non ci salverà dal vero morire
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