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Home Saggi e Prose Economia SAGGI DI CRITICA DELLA POLITICA ECONOMICA 50 - (14 settembre 2012)
SAGGI DI CRITICA DELLA POLITICA ECONOMICA 50 - (14 settembre 2012) PDF Stampa E-mail
Economia
Venerdì 14 Settembre 2012 15:06

A chi serve la povertà

 

[nel “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 settembre 2012]

 

L’ultima indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane fa registrare che, dal 2006 al 2010, la povertà è aumentata di 6 punti percentuali fra chi ha meno di 45 anni, è cresciuta poco nella fascia d’età compresa fra i 45 e i 65 anni, e si è ridotta al di sopra di questa età. La motivazione è agevolmente comprensibile. Gli individui di età inferiore ai 45 anni sono, nella grandissima parte dei casi, collocati in condizione di disoccupazione (e, spesso, di sottoccupazione intellettuale) o lavorano con contratti precari. Si tratta di due fenomeni che occorre tener distinti, a ragione del fatto che le cause che li determinano sono diverse. La precarizzazione del lavoro si è resa possibile a seguito di una lunga serie di provvedimenti legislativi finalizzati a “riformare” il mercato del lavoro, a partire almeno dagli anni Novanta. La Legge 30/2003 (la c.d. Legge Biagi) ha dato una eccezionale accelerazione a questo processo e la sostanziale abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – fortemente voluto dalla Ministra Fornero – ha sancito il definitivo superamento delle pur minime garanzie delle quali i lavoratori dipendenti potevano godere. Il notevole aumento della disoccupazione giovanile è in larga misura imputabile alle politiche di austerità, messe in atto negli ultimi anni. La riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno disincentivato (e continuano a disincentivare) le assunzioni, in una condizione nella quale le aspettative imprenditoriali continuano a deteriorarsi.

Il fatto che gli individui più anziani non si siano impoveriti trova la sua causa nelle elevate retribuzioni medie che hanno percepito negli anni lavorativi, in fasi nelle quali – soprattutto in virtù della crescente spesa pubblica – l’economia italiana ha sperimentato elevati tassi di crescita. Va, tuttavia, precisato che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile, erodendo i risparmi delle famiglie dalle quali i giovani disoccupati provengono, avrà prevedibilmente ricadute negative sul reddito medio degli individui di età superiore ai 65 anni.

 

E’ bene chiarire che la povertà non è un problema che rientra (esclusivamente) nella sfera morale; ovvero non è (solo) per ragioni di equità che si richiede un impegno delle istituzioni politiche per farvi fronte. L’esistenza di povertà diffusa ha anche effetti negativi sul tasso di crescita, in considerazione del fatto che una forza-lavoro con basso reddito è scarsamente produttiva. Come certificato dall’ISTAT, la produttività del lavoro in Italia, a partire dai primi anni Duemila, risulta stazionaria e in sensibile declino a partire dagli anni settanta. Si registra anche che nei periodi nei quali i salari sono stati più alti – ed è stato più incisivo l’intervento pubblico in economia, per il potenziamento delle reti di welfare – è risultata maggiore la produttività del lavoro. Esiste, dunque, un nesso fra povertà e produttività, che può essere razionalizzato come segue.

1)  Una condizione di povertà assoluta – derivante da redditi percepiti inferiori al livello di sussistenza - è associata a condizioni di malnutrizione, che, a sua volta, generano un basso potenziale produttivo dei lavoratori. Si osservi che, stando all’evidenza empirica, la povertà nutrizionale non è più solo tipica dei Paesi sottosviluppati, ma sta drammaticamente crescendo anche nei Paesi industrializzati e, fra questi, in Italia e ancor più nel Mezzogiorno.

2) Il crescente impoverimento delle famiglie italiane si traduce anche in minore scolarizzazione, come testimoniato dal notevole calo delle immatricolazioni nelle Università italiane. Dunque, maggiore povertà implica minore accumulazione di capitale umano e, anche in questo caso, minore dotazione di capitale umano implica minore potenziale produttivo della forza-lavoro.

3) In una condizione di progressiva riduzione del welfare, il problema è notevolmente accentuato dalla difficoltà, da parte delle famiglie più indigenti, di accedere a servizi sanitari efficienti. Il che determina – anche per questa via – peggiori condizioni di salute e, dunque, minore produttività.

A ciò si aggiunge un problema derivante dalla distribuzione anagrafica dell’indigenza. Come testimoniato da numerose ricerche condotte soprattutto in ambito psicologico, la produttività del lavoro decresce sensibilmente al crescere dell’età, sia a ragione dell’affievolirsi delle abilità cognitive, sia a ragione della crescente difficoltà – per gli individui adulti – di adattarsi all’avanzamento tecnico, ovvero per fenomeni che attengono all’obsolescenza intellettuale.

La spirale viziosa che si innesca è così riassumibile. I lavoratori poveri sono poco produttivi. Le imprese, se li assumono, accordano loro bassi salari. I bassi salari contribuiscono a rendere ancor meno produttivi i lavoratori, generando una condizione per la quale coloro che versano in condizioni di povertà, per l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, tendono a diventare sempre più poveri. La malnutrizione, la riduzione della dotazione di capitale umano, la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e l’invecchiamento della popolazione sono fattori di massima rilevanza nel frenare la crescita della produttività e, dunque, la crescita economica.

Il Presidente dell’ISTAT ha recentemente denunciato, in un’audizione al Parlamento italiano, la pressoché totale inesistenza di interventi di contrasto al crescente impoverimento di quote crescenti della popolazione italiana. L’inerzia governativa, in questo campo, ha una sua ragion d’essere. La struttura produttiva italiana è composta, salvo rarissime eccezioni, da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco internazionalizzate. Esse operano in un contesto di ‘globalizzazione’ che impone loro di competere attraverso compressione dei costi di produzione (e dei salari, in primo luogo). La ‘globalizzazione’ tende a ridurre l’orizzonte temporale nel quale le imprese pianificano i loro investimenti, rendendo le imprese più ‘miopi’, e incentivando strategie di ‘hit and run’: si effettuano investimenti nei Paesi nei quali i costi di produzione sono bassi, si acquisiscono profitti e si destinano i profitti ottenuti in altri Paesi (o si minaccia di farlo), innescando un meccanismo di concorrenza fra Stati al ribasso delle retribuzioni,  e al ribasso di tutti i vincoli (e i costi) connessi alla libertà d’impresa. In tal senso, una condizione di povertà diffusa risulta pienamente funzionale alla riproduzione capitalistica, quantomeno nei Paesi periferici e soprattutto quando questa si dispiega in un assetto istituzionale nel quale l’intervento dello Stato è pregiudizialmente precluso.

 

 

 

 

 

 


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