La penisola di una penisola |
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Critica letteraria |
Domenica 28 Aprile 2013 19:34 |
Tempo fa, con quel tipo di sollecitazione che in genere suggerisce indirettamente d’essere emersa da articolata riflessione, mi fu chiesto di scrivere alcune pagine sulla pratica letteraria principale di Donato Moro: i suoi versi. Le note qui raccolte sono un modo, forse anche accidentato, di rispondere alla richiesta. La riflessione su quale potesse essere la cifra appropriata ad affrontare il tema ha avuto per me un incedere incerto, quasi claudicante, condizionata dalla personale ritrosia ad affrontare un’analisi prevalentemente metrica, a cui potesse aggiungersi, forse, una statistica sulle ricorrenze terminologiche: una valutazione strutturale, quindi. Né mi sembrava decisivo tentare un’anatomia delle influenze che pure mi parevano corrispondere ad una prospettiva prevalentemente indirizzata all’esperienza letteraria italiana. Queste considerazioni non erano – almeno ne sono convinto, spero non erroneamente – sollecitate da simpatia per un’analisi impressionistica e rapsodica, quanto dalla coscienza che uno dei punti essenziali della lettura analitica dei versi di Moro stia nel pensiero che egli ha della natura e, in particolare, quella della sua terra d’origine, vista in una prospettiva sia esistenziale sia storica, quest’ultima quella del lavoro muto dei campi. L’elemento agreste non è arcadico, semmai è legato alla visione della servitù della gleba. Una volta presa la decisione d’occuparmi essenzialmente di quest’aspetto, è stato naturale ed immediato pensare anche al dialogo sui versi e sull’arte in generale che Moro ebbe con Luigi Mariano. I versi di Donato Moro e parte dell’attività artistica di Luigi Mariano, in pittura, disegno e incisione, emergono, infatti, con tutte le loro distinzioni, dal contatto con la terra avita, il Salento, la cui percezione e la cui rappresentazione sono filtrate attraverso le forme di precomprensione che erano bagaglio di ciascuno e che hanno avuto influenza e risultati differenti. Il Salento è terra di confine, penisola di penisola. È terra ampia, dall’orografia inessenziale, popolata di ulivi. È circondata dal mare ma non è stata così ostile da spingere la gente che la calpesta ad essere popolo di navigatori: è un fatto, è la storia. Al contrario, la tradizione è contadina. La terra si lavora, con fatica ma si lavora, e alla fine si mostra fruttuosa. Si fa crescere la vigna, e il vino che se ne ricava è robusto e viene spesso usato per tagliarne altri, ottenuti a latitudini differenti, con altra fama di nobiltà. Nella frescura ottobrina arrivano le rape dal fusto alto, senza radici bulbose. Sono rape dal cuore frastagliato che si pone a ballonzolare nell’acqua bollente dove si lessa con pochi lembi delle foglie ampie, in gran parte tagliate via nella preparazione. Il lesso cade poi nel piatto per essere condito dall’olio forte – che è il risultato della raccolta dei frutti degli ulivi che sembrano eterni alla brevità della vita dell’uomo – e per essere accompagnato da un pezzo di pecorino e da un po’ di frisella, pane duro che si deve bagnare e che la tradizione vuole sia conservato in vasi di terracotta. È terra di pomodori, di succose angurie enormi, di meloni bianchi, di robuste zucche gialle, di grano, di melanzane e di peperoni. È terra di fichi di differenti varietà, talvolta dolci come il miele. È terra di silenzi e di farfalle, di volpi e di istrici, di tordi e di gazze ladre. Non è forse rigogliosa come le colline toscane ma non è neanche accidentata, pietrosa come Itaca, l’Anatolia, le montagne afgane. È, però, questa terra, una terra solitaria, esposta al sole che in estate la irrora copioso, una propaggine d’Europa che a malapena s’integra con il tessuto continentale, che appare remoto anche in un’epoca in cui la trasmissione delle informazioni accorcia nei fatti le distanze. Il modo con cui la si osserva e la si valuta è influenzato da questa lontananza, dalla cifra esistenziale personale che ad essa si accompagna – il senso di lontananza è, d’altra parte, essenzialmente psicologico –, e dalle radici greche della terra salentina che hanno innestato in maniera ancestrale la propensione al carattere tragico, Per Moro la terra avita è Terra pelle di capra, il titolo che attribuì a versi che scrisse nel 1960 e che riprese nel 1967.
Passa per la mia terra vento di ponente vento di tramontana rapina d’ogni vento.
Sempre quieta sempre immota, fichidindia di pietra cave folte d’ombra, terra priva d’echi la mia terra terra pelle di capra. La fionda del gran sole spinge pecore irsute ad ombre rade di fichi spinge greggi d’uomini dai secoli corrosi ai muri delle case su tormenti di rocce sbiancate dall’arsura.[1]
Non fu l’ispirazione del momento che portò alla revisione del 1967. Venne a seguito di molteplici altre prove sviluppate nei mesi e negli anni precedenti, dove i versi avevano una decisa ispirazione rurale – esempi di essa sono Contadine del Capo del 1963, poi rivista nel 1967, E già la zappa sulla specchia affonda del 1955, con revisione del 1965, o Raccoglitrice di sale a cui si attribuiscono gli anni 1957 e 1969 –, ispirazione tratta dalla vita in famiglia (Muzzi Papuzzi, 1961 e 1980, Epos familiare, 1958 e 1966, A mio padre, 1968), assonanze leopardiane, come in Ti ringrazio, ombra amica … del 1960:
Ti ringrazio, ombra amica della sera. Sto solitario a contemplare il cielo sopra la mia stanchezza come su inerte pietra. Passò il sole canicolare passarono uomini pronti a ferirmi nel cuore, è passato odio e amore. Ora son chiaro sereno a mirare le stelle più fresche di una pioggia estiva.[2]
In Leopardi, però, il rapporto con la natura, sebbene non associato ad una vera e propria cosmogonia, è rivolto alla ricerca di cose ultime. “Solo Leopardi,” annota Harold Bloom, “sia nella prosa che nella poesia, ha catturato in una lingua moderna la nota precisa dell’esuberanza lucreziana, ferocemente cupa.[3]” Per Leopardi, continua Pietro Citati “la natura aveva scelto accuratamente per l’uomo non tutto l’universo, ma una parte ristretta e mediana, quella dove era fiorita la civiltà classica. Ma l’uomo ha troppo appetito. Il suo desiderio di perfezionamento (che Leopardi chiamava «corruzione») lo pone in rapporto con tutto il mondo: egli si procura un’infinità di bisogni, e trasforma le cose che la natura aveva messo al suo servizio.[4]” Delle modalità dell’agire dell’uomo sulla natura Leopardi non apprezzava l’attitudine disossante della ragione, perché pensava che l’analisi riducesse le cose, scarnificandole, ma non ricordava, così, che dando una certa luce ad alcuni misteri, essa poi finisce per metterne in evidenza altri. Così “Leopardi era nudo davanti alla tempesta della realtà[5]”, e lo era con la sua inestirpabile solitudine. Il suo atteggiamento era orfico, legato cioè alla percezione lirica, alla parola che rivela la realtà per il solo suo suono e assonanze di significato, piuttosto che prometeico, tecnico. “È un poeta delle domande, non delle risposte[6]” o meglio, dei tentativi di risposte, perché altro forse non possiamo se non esercitarci in tentativi, senza venire davvero a sapere che almeno uno di essi abbia colto nel segno. Per Moro, invece, vi è una sola domanda: ritiene (o, almeno, così emerge dalla parola scritta) che la cifra della natura sia quella d’essere matrigna piuttosto che madre e chiede perché. È però una domanda a cui non s’aspetta risposta. Nei suoi confronti l’atteggiamento è rassegnato e dolente, lontano dalla battaglia epica, ribelle e quasi delirante, che Herman Melville assegna al suo Achab e gli fa impugnare l’arpione sul ponte della baleniera per colpire il cetaceo, la natura stessa, infine. L’attitudine naturalistica di Moro non è quella che Ralph Waldo Emerson inspirò in Robert Frost, in Wallace Stevens, o nel granitico opus di Walt Whitman. Ed è lontana ovviamente anche dal desiderio di ritorno alla natura che spinse Henry David Thoreau ad andare per due anni e due mesi sul lago Walden (Concord, Massachusetts), in una casa da lui stesso costruita, lontano dal tessuto sociale che comunque guardò e criticò nelle pagine di Walden, or Life in the Woods (Boston, 9 agosto 1854), perché “se vogliamo godere la compagnia più intima con ciò che in ciascuno di noi è al di fuori, o al di sopra, e a cui si parla, non dobbiamo restare solo in silenzio, ma anche essere fisicamente così lontani da non riuscire a sentire la voce dell’altro.[7]” Per Thoureau la vita nel bosco è sì fonte di riflessione sul fare umano ma anche dialogo con la natura stessa, un dialogo che non è ideale ma si sviluppa attraverso il contatto giornaliero con gli alberi, con i ciottoli della riva del lago, con l’acqua su cui si rispecchia l’ombra degli uccelli in volo. “Nondimeno,” scrive Thoureau, “di tutti i personaggi che ho conosciuto, forse Walden è quello che invecchia meglio, e che meglio conserva la sua purezza. Molti uomini sono stati paragonati ad esso, ma pochi meritano l’onore. Anche se i taglialegna hanno denudato prima questa riva e poi quell’altra, gli irlandesi vi hanno costruito vicino le loro stie, e i commercianti di ghiaccio lo hanno scremato, resta immutato, con la stessa acqua su cui si sono posati i miei occhi giovanili; tutto il mutamento è dentro di me. Non ha acquisito neppure una ruga permanente dopo tutte le increspature. È perennemente giovane, e posso alzarmi a vedere una rondine che si tuffa a prendere un insetto dalla superficie, come prima. Mi ha colpito ancora ‘stanotte, come se non lo avessi visto quasi quotidianamente per più di vent’anni. Ecco, qui è Walden, lo stesso lago di bosco che ho scoperto così tanti anni fa; dove una foresta è stata tagliata lo scorso inverno, un’altra ne spunta vicino alla riva, rigogliosa come sempre; lo stesso pensiero di allora zampilla alla superficie; è la stessa liquida gioia e felicità per se stesso e per il suo Creatore, anzi, può essere per me. È di certo l’opera di un uomo coraggioso, in cui non c’è falsità! Ha radunato quest’acqua con la mano, l’ha resa profonda e chiara nel pensiero, e nella sua volontà l’ha lasciata in eredità a Concord. Vedo dal suo volto che è visitato dallo stesso pensiero; e posso quasi dire: Walden, sei tu?
Non è un mio sogno, Di ornare un verso; Non posso approssimarmi di più a Dio e al Cielo Se non vivendo a Walden. Io sono la sua riva pietrosa, E la brezza che lo supera; Nel cavo della mia mano Sono la sua acqua e la sua sabbia, E la sua risorsa più profonda Riposa alta nel mio pensiero.[8]”
Visione opposta in Moro da cui la natura è vista in relazione all’uomo che dal contatto diretto con la terra trae da vivere, un contatto di lavoro, quello dell’attività di quel contadino che ha solo la zappa e le sue mani, ed il volto rivolto verso terra, gli occhi lontani dall’orizzonte. Un contadino in una società chiusa, in un tempo perso che potrebbe anche non esserci, che non è contemporaneo alla storia, ma rimane ancorato ad un senso quasi tribale, in una terra dove il mare intorno è solo landa lontana e non via da percorrere per cercare un approdo nuovo, uno sviluppo. Lo stesso isolamento geografico è sentito come germe di rassegnazione, non solo esistenziale, ma anche sociale.
… Salento chiuso palazzo pietra sempre più vecchia blasone consumato di baroni ed orgogliosa estate a calcinare servi della gleba dentro nicchie di tufo.[9]
È una natura “aspra”, “arsa”, “acre”, procacciatrice di “fatica”, “amara”, per richiamare termini frequenti nei versi di Moro. Scrive a proposito Oreste Macrì: “l’aspro, ricorrente insieme con il nero, è qualità etica o segno simbolico delle stesse cose. Aggettivo nei testi citati in fitta sinonimia con «secco, arido, corroso, arsura, arse vecchiezze, erba secca, Salento risecco come foglia screpolata, rugosa la parola, parola su bocche screpolate, bocca riarsa, secchi timi, ruvidi grembi, sacco tabacco, corrode, mano arsa, volto roso dal sale, fiato secco, dai secoli corrosi, arso ricamo di scogli, case corrose, rocce corrose …»”. È un brano dell’introduzione ai componimenti di Segni Nostri, che Donato Moro pubblicò nel 1993 per i tipi dell’editore Lacaita (p. 16). Non è una natura scenario come in April och Tystnad (Aprile e silenzio) di Tomas Traströmer:
Våren ligger öde. Det sammtesmörka diket Krälar vid min sida Utan spegelbilder.
Det enda som lyser är gula blommor.
Jag bars I min skugga som en fiol i sin svarta låda.
Det enda jat vill saga glimmer utom räckhåll som silvret hos pantlånaren. [10]
Quella che Moro descrive è, invece, una natura Terra pelle di capra, un titolo che schematizza in un’immagine versi che racchiudono gli elementi caratterizzanti un mondo dove “greggi di uomini dai secoli corrosi” si muovono “su tormenti di rocce sbiancate dall’arsura”. Le rocce sono quindi “tormenti”, null’altro. Non vi sono i colori di Traströmer – “det enda som lyser / är gula blommor”: l’unica cosa che splende / sono fiori gialli – e dalla natura non emerge bellezza quanto fatica e sudore, danno infine. Vi è una sorta di muto sostare nel lavoro nei contadini, il portare un fardello senza ribellione. Per essi la natura non suggerisce alcun sussulto come quello che Seamus Heaney coglie in The Haw Lantern (La lanterna di biancospino):
The wintry haw is burning out of season, crab of the thorn, a small light for small people, wanting no more for them but that they keep the wick of self-respect from dying out, not having to blind them with illumination.
But sometimes when your breath plumes in the frost it takes the roaming shape of Diogenes with his lantern, seeking one just man; so you end up scrutinized from behind the haw he holds up at eye-level on its twig, and you flinch before its bonded pith and stone, its blood-prick that you wish would test and clear you, its pecked-at ripeness that scans you, then moves on. [11]
A Moro, invece, la natura non appare amica e solo l’oblio è fonte di speranza.
… Il vento del deserto non ha canti la musica è lamento ogni porta si chiude sul tramonto. È l’ora del governo delle bestie del boccone a fatica masticato dallo sguardo fissato contro il muro. La speranza è la notte.[12]
La notte porta serenità e fa mirare le stelle, “più fresche di una pioggia estiva”[13], che indicano la possibilità di una speranza lontana, forse solo immaginata. Per il resto, alla luce del giorno, la cifra è quella della sottrazione. Per Moro la natura sottrae, ha sottratto, non dà, non ha dato, ormai non darà. Semmai permette solo lievi momenti di serenità, e la commozione di averli raggiunti.
In dono un’altra estate.
Chinato sugli scogli a ringraziare con le mani carezzo l’onda del mare.[14]
La visione serena che consegna questo componimento di quattro versi del 1958, quasi l’autore fosse con Thoureau sulle rive del Walden, è però evanescente, una breve parentesi fuggitiva al tono esistenziale rassegnato e dolente, intimamente personale, direi fisico, che in Terra pelle di capra trova il suo paradigma.
La prima versione di Terra pelle di capra appare manoscritta con penna ad inchiostro nero anche sul passepartout di cartoncino bianco che circonda un’incisione di Luigi Mariano, mio padre. Ed è lì che l’ho letta per la prima volta, testimone diretto, come sono stato, del continuo dialogo sulla materia estetica che ha coinvolto per molti anni Mariano e Moro, talvolta su di un’unica parola di un verso, una virgola appena. Posso riportare un esempio inedito, rinvenuto da mia madre, Rosa Dell'Anna, tra le carte di mio padre. Non si tratta di una poesia; è un brevissimo racconto, intitolato Neve e pupi, scritto a macchina su carta oramai ingiallita, di cui conservo l'originale, che Donato Moro consegnò a mano a Luigi Mariano, dopo aver firmato il foglio ed averlo riposto in una busta, in una data che non riesco a ricostruire. Su quel foglio ritrovato vi sono poi suggerimenti annotati in punta di matita, quasi ad apparire appena. Con essi Luigi Mariano proponeva modifiche. Riprenderlo è un'occasione per pubblicare un inedito di Moro, oltre a dare la cifra del dialogo cui mi sono riferito fin dall'inizio.
Prima versione di Donato Moro: Neve e pupi.
Una giornata di fine autunno gelida, il giorno di Santa Lucia. Passavano sulla strada giacchette dai baveri alzati e respiri di fumo. Mia madre mi aveva tirato giù dal letto per la scuola: una tazza di caffé d’orzo con pezzetti di pane bagnati dentro. Mentre mi raccoglievo libro e quaderni nella cartella e mi preparavo ad uscire, guardavo dalla finestra, e intanto pensavo a piazza S. Pietro, alle bancarelle che forse erano già pronte davanti alla Chiesa Madre con i pupi per il presepe. La mia scuola era nell’ex-convento di Santa Chiara. Mentre tutto infreddolito, con una sciarpa tirata fin sotto il naso, camminavo verso la meta obbligata, immaginavo i pupi d’argilla schierati su panche e tavoli d’occasione in piazza S. Pietro. Il cielo era plumbeo e il freddo penetrava sulle punte delle dita attraverso i miei guanti a maglia. Lì, sicuramente, c’erano diverse Nascite con bue ed asinello, gli angeli con gli osanna, il venditore di formaggi, i pastori, i re Magi, le pecorelle, la donna che fila, il pescatore, l’uomo che porta i cocomeri. Papà ha promesso che oggi mi compra i pupi, sicché potrò fare il presepe. Dovrò procurarmi la sparagina per metterci sopra il cotone, i fiocchi di neve. Chissà se mi comprerà pure il pescatore, ma come potrò fare per il mare? Mi comprerà il calzolaio? L’anno scorso c’era, l’ho visto proprio io su uno dei banchi, volevano dieci soldi. Entrai in classe, e non mi accorsi neppure che il maestro era già seduto dietro la cattedra. A dire la verità, quella stanza affacciata sul cortile era un sottoscala, basso, buio: la luce giungeva dalla porticina a vetri dell’ingresso e da una finestrella. E dentro faceva più freddo che fuori. Mi sedetti accanto a Videa, il mio compagno di banco. “Usciremo prima?” gli chiesi. Non mi rispose, il maestro aveva cominciato a spiegare… Mi comprerà la donna che lava o il cacciatore? Ma mi ha detto che ha pochi soldi. Sia; almeno la Nascita, un angelo e due suonatori. E poi io gli ho dato le due lire che mi ha regalato la zia Nina. Dove andrò per l’asparagina? Per la neve devo rubare l’ovatta alla mamma. Bella l’asparagina con la neve. Ecco un fiocco; possibile? Ma sì, ecco un altro fiocco che scende lento lento, lo vedo dalla porta, nel cortile. E adesso sono parecchi, vanno aumentando. Mamma, quanti fiocchi! Un signore entrò nel cortile con l’ombrello coperto di bianco. Saltai sul banco urlando “La neve, la neve!”. Poi mi accorsi che il maestro aveva interrotto il suo dire e mi guardava sbalordito. Alzò un dito minaccioso verso di me: “Moro, sei sospeso, va a casa”. Non avevo il coraggio di affrontare mia madre, che si sarebbe messa a piangere. Pensai di andare al palazzo, dove mio padre prestava servizio. Stava lustrando la carrozza dei padroni. Si rizzo con un forte respiro. Gli raccontai a capo basso l’accaduto e fu un momento di silenzio; mi arrivò un ceffone. “Prendi i pupi e vattene; non li meriteresti”. I pupi erano già lì, sulla carrozza, in una scatola di scarpe posata in cassetta, ma non avevano più il fascino del mattino.
Di seguito elenco le variazioni proposte da Luigi Mariano.
L’insieme di suggerimenti (la discussione, quindi) riguarda – è evidente – il ritmo, il suono, il linguaggio che si cerca di far diventare più asciutto, essenziale, perché possa riportare immagini per la stessa sonorità delle parole. Nello scrivere, infatti, il fluire della parola è materia musicale. E non è solo questione di ritmo e di sonorità delle parole: lo stesso concatenarsi dei significati contribuisce alla materia musicale. Non sappiamo quale sarebbe stata la versione finale se i due avessero lavorato ancora su questi appunti iniziali lasciati lì in un cassetto (un tentativo appena) e riapparsi come usano fare le carte che non vanno distrutte (Max Brod s’è erto per propria scelta a paradigma di tutte le mancate distruzioni cartacee). Il dialogo li portò anche a prevedere opere che coniugassero le parole del verso di Moro e l’arte visiva delle incisioni di Mariano, incisioni che partivano dalla natura tangibile delle venature del legno per poi diventare cifra astratta. “Non dunque”, ha scritto Pasquale Rotondi, “una xilografia intesa secondo l’ormai plurisecolare tradizione, come mezzo di riproduzione di un disegno” – o di un tema da illustrare, mi sembra di poter aggiungere – “imposto dal di fuori al legno e perciò totalmente disancorato dalla particolare conformazione di quest’ultimo; ma una xilografia scaturente da quella stessa conformazione, in una esaltazione controllata e sofferta dei suggerimenti e delle suggestioni nascenti dai molteplici aspetti delle fibre, dei nodi, delle fenditure, dei tagli.[15]” È quella di Luigi Mariano una xilografia che Rotondi suggerisce di chiamare xilopittura “allo scopo di porre in evidenza i punti di arrivo oltremodo singolari che Mariano ha raggiunto e per porre l’accento su alcune sue espressioni artistiche […] che, a mio parere, inaugurano un nuovo genere di pittura, di cui Mariano è creatore.[16]” È già stato spiegato da Rotondi il senso tecnico del passo in avanti rispetto alla concezione tradizionale dell’incisione: una xilografia in cui si re-incide il legno durante il processo di stampa che fornisce quindi un unico possibile esemplare, esattamente come avviene per la pittura che emerge al posarsi del pennello su tela. Rotondi ha inoltre enumerato e spiegato gli aspetti estetici del risultato[17]. Per queste note, per il punto di vista e per il senso che esse hanno, è però utile ricordare che la matrice fisica delle xilopitture è proprio il legno d’ulivo che popola la campagna, quella che appare ricorrente nella pittura e nei disegni di Luigi Mariano. Il contatto con il mondo agreste, che ho variamente sottolineato per i versi di Moro, riemerge nelle espressioni artistiche di Mariano, siano esse pittura, xilopittura, disegno. L’interpretazione dell’interazione con la natura è però radicalmente diversa, o almeno a me appare in tal modo. E di questo cerco di spiegare qui di seguito la ragione. Nelle xilopitture, il legno di ulivo – segno distintivo della terra avita – diventa il supporto materiale attraverso cui s’intersecano e s’impongono colori in campi larghi (le xilopitture di Luigi Mariano sono realizzazioni di dimensioni medie di cinquanta centimetri per settanta centimetri, valori inusuali per la pratica dell’incisione). E i colori sono spesso accesi, i contrasti luminosi. Non si tratta, però, solo del ricordo del bagliore del sole che spazza la terra salentina in estate, accendendo il giallo del grano o il verde delle verdure. Le xilopitture sono, infatti, principalmente degli anni settanta e dei primi anni ottanta del novecento. Quei rossi che spesso le attraversano nascono dalle emozioni che le turbolenze politiche dell’epoca suggerivano al pittore, dall’inquietudine (e forse il termine è fin troppo leggero) trasmessa dagli attentati che ferivano la società di quegli anni. Non si tratta quindi di coloristica decorativa, né tanto meno di intento illustrativo. Le xilopitture sono il segno di un’emozione che emerge da un dolore sociale contemporaneo alla loro realizzazione e sfrutta la materia arcaica della terra che le accoglie per esprimersi. Ed è un’emozione che si trasforma in valore estetico della forma e del colore che occupano la carta di Cina, il materiale usato nella stampa (che è unica e non ripetibile per ciascuna xilopittura, ripeto, per ricordare ancora gli aspetti tecnici). Questa interpretazione è il frutto dell’ascolto che ho fatto, prima bambino e poi adolescente al tempo, dei commenti che mio padre scambiava con amici interessati a quanto il bulino o il pennello gli permettevano di esprimere. La società contadina, invece, appare sovente nelle espressioni figurative di Luigi Mariano, nella sua pittura ad olio (un chiaro esempio orna la copertina di Segni Nostri, la raccolta di versi di Donato Moro che ho già richiamato). All’occhio di chi guarda le tele, le scene appaiono colte e racchiuse in un singolo istante. I loro protagonisti sono attoniti, non dolenti o rassegnati. Sembra, invece, che attendano d’udire un suono, di ricevere una notizia, di cogliere un segno, che riposino all’ombra d’estate o che siano stupiti come i fanciulli de Il pallone giallo. Lì sono raffigurati bambini che vanno in giro a giocare con il loro pallone, giallo appunto, che s’erge luminoso nella figura quasi fosse il sole in un ambiente peraltro grigio, e scoprono un corpo in terra, ormai privo di vita – non è questa una scena tratta dal mondo contadino, è invece la suggestione che la scomparsa del padre del pittore aveva prodotto. E tutte queste figure, mentre sono silenti, compongono lo spazio, lo ricostruiscono – non vi sarebbe spazio fisico senza la massa a definirlo, in qualche senso. Le figure umane che appaiono nelle scene sono quindi osservatori che organizzano i rapporti volumetrici dell’ambiente. Questo appare anche nei ritratti, sia dipinti ad olio che disegnati in punta di matita, come nella serie dei disegni degli anni cinquanta del novecento. Non è l’attesa metafisica e spesso desolata delle piazze di De Chirico, dove l’identità del singolo è rappresentata solo dalla regione tipo dello spazio che una figura umana può occupare, una regione senza identità specifica, che può essere quindi descritta solo attraverso il “burattino” schematico delle lezioni accademiche di disegno. Semmai è più l’attesa della vita, di quella vita con identità riconoscibile delle tele di Johannes Vermeer. La luce che in Vermeer sospende la scena e le assegna grado di universalità, piuttosto che permettere di riferirla ad una circostanza specifica, è qui però sostituita dalla dinamica del colore, di un colore che diventa materia, come ha insegnato van Gogh, per esempio nel Ritratto del Dottor Gachet che s’incontra al Musée d’Orsay d’un tratto, quasi senza accorgersene. Ed è quello stesso colore – avrei dovuto dire ‘quel senso del colore’ – che nelle xilopitture, invece, emerge dalla materia e da essa si distacca per cercare rapporti geometrici e tonali astratti. Le xilopitture non furono, però, la prima esperienza astratta (sia pur ancorata al supporto materico da cui si esprimeva) di Luigi Mariano. Di non molto precedenti sono tele estese che accolgono rappresentazioni astratte dove la pittura ad olio si interseca con il collage di stagnole dorate, estratte dai cioccolatini e dalle caramelle. Non più direttamente il mondo contadino, quindi; il soggetto cambia, anche se l’immagine astratta richiama alla mente, idealmente, un paesaggio, e la materia non è tanto quella che si rinviene per i campi quando si potano gli ulivi, quanto quella prodotta dall’uomo: la pasta del colore ad olio che quasi s’alza dalla tela, le stagnole inizialmente destinate ad incartare cioccolatini e caramelle. Immagini che possono essere ricondotte al mondo contadino riappaiono nella serie di acquerelli d’ispirazione evangelica, ma sono assenti nei ritratti, essenzialmente femminili, e nella serie di oli dedicata ai ginnasti – un ricordo della pratica ginnica fatta da giovane nella scuola urbinate. In tutti questi esempi il rapporto con la natura d’intorno non è dolente, semmai lo è quello che emerge da situazioni luttuose che appaiono in due oli, uno ricordato in precedenza, e un disegno a tempera e pastello a cera. L’aspetto dolente non è quindi un tratto esistenziale nelle espressioni artistiche di Luigi Mariano, semmai, quando presente, è solo associato al sentimento della fine.
Prepararono, i due, Donato Moro e Luigi Mariano, anche il menabò di un libro dove si susseguivano immagini di xilopitture, di pitture, e versi, non solo di Moro ma anche di Nicola De Donno e di Giovanni Francesco Romano. E fu un libro che non pubblicarono mai, sebbene fosse virtualmente concluso. È quella un’opera che sicuramente dovrebbe essere data alle stampe, assicurandosi però che sia distribuita (perché altrimenti la stampa diventa solo sterile auto-illusione, sostanzialmente inutile), e sulla quale ci sarebbe ampio spazio di riflessione. Nel soggetto, però, personalmente trovo insita una difficoltà estenuante, dovuta alla consanguineità con uno dei protagonisti. Ed è questa difficoltà, però, che mi obbliga, nel parlare del tema, ad essere più rigoroso di quanto la rilassatezza dell’occasione per cui colleziono queste parole suggerirebbe. Non si trattò di un tentativo di figurare dei versi nella tradizione legata all’illustrazione del libro della scuola urbinate, dove Luigi Mariano si era formato negli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale. Per nulla. Né tanto meno – così mi pare almeno – si cercò di avere una voce unica, come fecero per una vita intera Carlo Fruttero e Franco Lucentini, o, in poche ma significative occasioni, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares. Fu, credo, il tentativo di porre accanto opere che interagissero le une con le altre. Quel tentativo che in anni più recenti ha fatto Winfried Georg Sebald, innestando nel suo narrare le foto scattate nel percorrere i luoghi della sua ispirazione. Anzi, invertendo il tempo, potrei quasi dire che è stato in un certo qual modo Sebald ad essere un precursore dell’esperienza d’interazione artistica che Donato Moro e Luigi Mariano – storicamente anteriori a Sebald – cercarono di sviluppare, ciascuno dalla propria poetica, ciascuno dal proprio modo di guardare all’essenza estetica delle cose, al di là delle cose stesse, ciascuno percorrendo al contempo la propria strada indipendente. Con ciò sono cosciente di alludere ad uno di quei paradossi che piace spesso ad Harold Bloom evidenziare nella sua insistita attenzione per l’analisi dell’influenza nella storia della letteratura. Ma lascio ad altri il tentativo di dipanare il paradosso stesso, ove se ne senta il bisogno. Ciò che resta è il ritmo delle parole nell’articolarsi dei versi e la forza visiva delle immagini, aspetti che ciascuno può percepire in maniera differente in base alla sensibilità ed alla solidità culturale propria.
[1] D. Moro, Segni nostri, Lacaita, Manduria, 1993, p. 78. [2] D. Moro, op. cit., p. 70. [3] H. Bloom, Anatomia dell’influenza. La letteratura come stile di vita, Rizzoli, Milano, 2011, p.211. [4] P. Citati, Leopardi, Mondatori, Milano, 2010, p. 164. [5] H. Bloom, op. cit., p.214. [6] H. Bloom, op. cit., p. 218. [7] H. D. Thoureau, Walden. Vita nel bosco, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 158. [8] H. D. Thoureau, op. cit., pp. 204-205. [9] Frammento di Salento, 1963-1969, in D. Moro, op. cit., p. 103. [10] La primavera giace deserta. / Il fossato di velluto scuro / serpeggia al mio fianco / senza riflessi. // L’unica cosa che splende / sono fiori gialli. // Son trasportato dentro la mia ombra / come un violino / nella sua custodia nera. // L’unica cosa che voglio dire / scintilla irraggiungibile / come l’argento al banco dei pegni. (T. Tranströmer, La lugubre gondola, Rizzoli, Milano, 2011, p. 13.) [11]Brucia fuori stagione il biancospino invernale, / mela degli spini, piccola luce per piccola gente, / che non vuole nulla di più da loro se non salvare / dall’estinzione il lucignolo della dignità, / senza doverli accecare d’illuminazione. // Ma talvolta quando il fiato ti s’impluma nel gelo / prende la forma itinerante di Diogene / con la sua lanterna, alla ricerca di un uomo giusto; / così tu finisci per essere scrutato da dietro il frutto / che lui legge ad altezza d’occhi appeso a un tralcio, / e recedi davanti al suo nocciolo e polpa compatti, / al graffio a sangue che vuoi ti provi e renda mondo, / alla maturità beccata che ti esplora, e passa oltre. (S. Heaney, La lanterna di biancospino, Guanda, 1999, p. 33.) [12]Frammento di Da Vicari al tramonto, 1967, in D. Moro, op. cit., pp. 114-115. [13]Ultimo verso di Ti ringrazio ombra amica, riportata interamente in precedenza. [14]In dono un’altra estate, 1958, in D. Moro, op. cit., p. 58. [15] P. Rotondi (1964), Luigi Mariano e Donato Moro, Le Arti, 3, p. 64. [16] P. Rotondi (1981), L’itinerario artistico di Luigi Mariano fino alla xilopittura, Sallentum, IV, 3, 63-86. [17] Si veda P. Rotondi (1981), op. cit. |