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Strutture narrative: letteratura, filosofia, scienza PDF Stampa E-mail
Prosa
Lunedì 13 Maggio 2013 15:24

[Pubblichiamo un estratto della lezione di Paolo Maria Mariano tenuta presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina il 3 aprile 2013. Per il video della medesima lezione, clicca qui.]

 

Letteratura, filosofia e scienza nascono e si sviluppano come discorsi sul mondo. Propongono una narrazione di ciò che appare a noi come reale. Per loro intrinseca natura sono strutture narrative che s’innestano sull’esperienza che fa chi le sviluppa, singolarmente o collettivamente, dei fatti del mondo, inclusi quelli tra gli esseri umani e negli esseri umani. Fanno uso di strumenti linguistici differenti ma che non sono disconnessi, anzi si nutrono in qualche senso l’uno dell’altro.

“La filosofia legge la poesia più alta e a sua volta viene letta da essa. Entrambe intuiscono l’esistenza di un terreno comune, quell’arte e quella musica del pensiero originarie che pervadono il nostro senso del significato del mondo (der Weltsinn)” annota George Steiner (La poesia del pensiero, Garzanti, 2013, p. 120).

E l’osservazione è preceduta dalla dichiarazione della consapevolezza che (pag. 114)

“non possiamo misurarci con l’Iliade o con Aristofane, ma la loro finalità è indispensabile per sbarazzare il terreno alla metafisica. Questa complessa interdipendenza è persistente. Non avremmo la Phänomenologie senza Shakespeare, Cervantes e Defoe. Questa evoluzione simbiotica è la circostanza sempre momentanea ma decisiva della libertà umana.”

La Phänomenologie, cui si riferisce, è, infatti, la Phänomenologie des Geistes di Hegel, la Fenomenologia dello Spirito del 1807.

Per il tempo di Hegel in cui la formazione culturale del singolo era, per così dire, naturalmente polifonica, le affermazioni di Steiner che ho appena ricordato generano un’immediata, generica adesione in chi le legge o le ascolta. La loro connessione con la scienza potrebbe essere ricollegata, ad esempio, agli interessi di Goethe (a suo modo anti newtoniano), alla varietà della sua formazione. Analoga reazione verrebbe, anche se si fosse pensato alle contaminazioni tra filosofia, letteratura e scienza nella cultura della Vienna fin de siècle, più in particolare in Wittgenstein, Musil, Brock, o Freud se ci si riferisce, per quest’ultimo, al risultato letterario d’indagini che volevano essere eminentemente cliniche. E si potrebbe anche discutere dell’interazione tra filosofia e letteratura, tracciando l’influenza di Bergson su Proust e Joyce o la loro interazione con il pensiero scientifico, ricordando la comparazione dialettica con Einstein. L’analisi richiede maggiori approfondimenti quando è riferita al principiare di questo secolo ventunesimo, un tempo di voci, di surplus d’informazione incontrollata nella sua aderenza ai fatti, che diventa rumore sordo, di un parlare che riesce solo a parodiare la ricchezza della pluralità dei linguaggi usati nelle varie discipline in cui comunemente si tende a classificare il sapere. E nell’ambito di ciascuna disciplina la specializzazione è portata a dare connotazioni esoteriche al linguaggio, rendendo autoreferenziali gruppi sempre più ristretti. Favorisce il conformismo con conseguente “cristallizzazione” dei modi d’indagine. La ragione risiede in porzione preponderante nelle maniere con cui si sviluppa la gestione del potere, per quanto esso possa essere flebile, talvolta solo formato nell’immaginazione e da essa rafforzato. Il desiderio di essere riconosciuto da un gruppo ed essere da esso accolto spinge istintivamente il singolo ad accettare gli stilemi del gruppo stesso, facendoli propri. Chi ha una posizione di guida, riconosciuta dagli altri, e non ha un’adeguata statura etica e culturale, guarda con sospetto nuove idee che non sono sue proprie perché ha timore di perdere quella posizione di prominenza che ha raggiunto. Una questione non semplice da dirimere è il significato da dare al termine adeguato. Probabilmente, però, è proprio la capacità di andare oltre miopi ingiunzioni dell’io e di avere l’umiltà e l’istinto di affrontare un cammino di miglioramento che arricchisca di visioni prospettiche la propria funzione a dare la misura dell’adeguatezza di chi è chiamato ad avere ruolo di guida o di gestione. La penuria di questi aspetti ha per conseguenza il declinare delle classi dirigenti sia nell’ambito della gestione della cosa pubblica sia nei contesti ove si formano e si trasmettono contenuti culturali. Con buona volontà si rileva spesso che di cultura si mangia, che le operazioni culturali, cioè, generano un tessuto diretto e indotto di possibilità lavorative che dovrebbe da solo – se non si avesse a priori interesse intellettuale altro – giustificare un’attenzione che avrebbe ragione d’essere estesa e persistente, non solo episodica, perché collegata a necessità d’immagine. Si ricorda con meno frequenza, però, che la diminuzione di tenore culturale (indotta scientemente o per puro lassismo), e conseguentemente di capacità critiche, in una qualche struttura sociale permette di essa un maggiore “controllo”, con una progressiva perdita di sostanza nei processi democratici. Non è questa, comunque, una caratteristica peculiare del solo tempo presente. È, però, in questo tempo acuita dal moltiplicarsi delle possibilità di comunicazione la cui gestione può generare rumore banalizzante ma, al tempo stesso, può essere strumento per costruire e diffondere adeguati stimoli costruttivi per l’intelligenza. La questione, però, si addentra nel territorio della filosofia politica secondo percorsi che porterebbero lontano dallo scopo per cui queste righe sono scritte. Mi limito, quindi, solo a ricordare che tutti questi aspetti determinano lo spirito del tempo (Zeitgeist) in cui una persona si trova ad agire. Se è vero, però, che l’espressione letteraria e la ricerca filosofica mostrano una possibilità immediata di reciproca fertilizzazione, ci si può ancora chiedere quale influenza reciproca ci sia con la scienza. Per esemplificare: quando leggo con attenzione la prosa di Milosz o di Sebald, che porta lontano come un fiume quieto e dal moto incessante, quale influenza ne traggo sulla mia capacità di determinare teoremi di esistenza di minimi di certe energie utili a descrivere un qualche tipo di comportamento meccanico dei corpi deformabili? E quale influenza può avere sullo stesso problema il passare del tempo nel Kunsthistorisches Museum di Vienna a rimirare in silenzio Vermeer? Possibili risposte a queste domande nascono solo da un vago sentire. È chiaro, infatti, che non vi sia in genere un’influenza diretta. D’altra parte, però, quella prosa e quella contemplazione, nutrono la mente, contribuiscono in maniera essenziale alla determinazione di un humus in cui le idee altre, quelle relative allo specifico problema matematico cui mi riferivo, o ad un altro, perché non v’è differenza, possono decantare, trovare una strada e formarsi. La questione che a me pare qui essenziale, però, non è quella delle interazioni tra campi diversi, peraltro dipendenti dagli interessi e dalle capacità del singolo operatore, quanto quella della natura essenziale di tali campi. Ho già dichiarato una posizione nel cominciare queste brevi note: letteratura, filosofia, scienza sono strutture narrative che nascono dall’esperienza fenomenologica del mondo. Le differenze sono, però, evidenti. La narrazione letteraria (e qui mi riferisco in maniera specifica alla narrativa e alla poesia sole, tenendo conto che un saggio filosofico ha, così come uno scientifico, un contenuto letterario che può essere valutato di per sé – Platone era un magnifico scrittore) ha una precisa connotazione descrittiva che pone le sue radici nella percezione “emotiva” dei fatti del mondo, in un certo senso anche quando si voglia avere di essi una visione quasi entomologica o anche preminentemente ontologica, come può accadere, ad esempio, in alcuni tratti della narrativa di Coetzee. Quello che la scienza propone, almeno nei suoi aspetti teorici, quelli cui qui mi riferisco, è una narrazione che è al contempo qualitativa e quantitativa, sviluppata secondo criteri di essenzialità d’ipotesi. Non possiamo verificare tutte le situazioni che una proposta teorica potenzialmente descrive. E, d’altra parte, l’individuazione di un fallimento della teoria non necessariamente distrugge il costrutto stesso ma sicuramente ne limita il campo di validità (ciò è ovvio). Una teoria scientifica nella sua formulazione è indirizzata dai fatti empirici, a sua volta influenza la loro rilevazione, ma va di là da essi nel consegnare una possibile prospettiva sugli eventi del mondo. Nella sua costruzione spesso si crede anche più di quanto il singolo, che opera chino su carte o pensando mentre passeggia, voglia ammettere. Sono cioè formulate ipotesi che sono in se stesse atti di fede (che il mondo sia come i nostri occhi ed i nostri strumenti percepiscono, ad esempio). Si propongono descrizioni che suggeriscono essenzialmente modi di sviluppo dei fenomeni, un come e un possibile perché, modelli che sono narrazioni parziali, illustrazioni, perché per descrivere perfettamente il mondo sarebbe necessario riprodurlo nella sua interezza. Nel costruire immagini teoretiche del mondo ci scontriamo con la difficoltà essenziale di voler descrivere un sistema di cui facciamo parte. Non è qui in discussione la possibilità di poter raggiungere la verità delle cose (attenzione, non ho detto una ). Semmai quello che è in dubbio è proprio la possibilità di avere un metro a noi esterno per rendersi conto senza possibilità d’errore alcuna di averla raggiunta. Essenzialmente, infatti, crediamo di poter raggiungere la verità e questo atto di fede ha un ruolo cruciale in tutto il processo cognitivo umano. Un elemento discriminante tra possibili rappresentazioni del mondo d’intorno può forse essere – ma crediamo solo che lo sia – il tenore del loro contenuto estetico, che non appartiene solo alla poesia, al romanzo, alla pittura, alla musica ma può permeare una nota scientifica o un saggio filosofico. Che cosa sia il contenuto estetico non lo sappiamo bene. Lo attribuiamo a quella che percepiamo come eleganza, armonia, perfino armonica disarmonia, e dovrei dire istintivamente , anche se l’istinto è in fondo determinato da una combinazione di sensibilità personale e formazione culturale. Pensiamo che sia quella soddisfazione che si percepisce quando si crede di aver colto un senso ultimo delle cose. Il processo non è del tutto chiaro, anzi appare proprio sfuggente. Ciò che sembra realmente rimanere è la consapevolezza di essere in cammino – che resti essenzialmente il ricercare, anche se esso non debba avere fine – e l’intima certezza, da nulla spiegata, che percorrere il cammino che ci è dato con dignità sia un modo per dare ad esso senso.



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