La “tristezza d’oro” nell’arte di Ferraro |
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Arte |
Lunedì 24 Giugno 2013 19:00 |
Sul crinale dei rapporti culturali intercorsi fra Salento e Napoli nell’ambito del Novecento, si distingue un cospicuo contributo di Vittorio Pagano al periodico partenopeo “L’approdo del Sud” di Mario Moles. Contributo ancor più significativo ove si pensi che a far da tramite fra i due luoghi maggiormente rappresentativi dell’esperienza artistica e letteraria del Mezzogiorno peninsulare era un artista (scultore-pittore) oggi dimenticato, Giuseppe Ferraro (Castrignano del Capo 1902-Genova 1966), leccese-novolese d’adozione, testimone delle vicende storico-culturali di Terra d’Otranto comprese nel periodo 1923-1966, ossia fra l’esordio di “Fede”, la rivista di Pietro Marti, e la chiusura del “Critone” di Vittorio Pagano. Il quale, pur frequentando e ammirando Vincenzo Ciardo, il maggiore e più noto fra i salentini di ascendenza artistica partenopea, volle assumere in Pittura e scultura di Pippi Ferraro (un lungo articolo apparso sul citato “Approdo” nel marzo 1954, a. II, n. 10-11, pp. 1-4) proprio l’attività creativa di quest’ultimo a segno di un nuovo corso storico, nonché di un’antropologia culturale che aveva ormai «in una sorta di appassionato mitologismo caratteristico della gente del Sud» le sue più recenti e «necessarie» motivazioni. Ferraro, che aveva studiato a Napoli, nel Regio Istituto d’arte, dove si era trasferito dopo il leccese discepolato nell’omonima scuola, appariva a Pagano come uno dei più emblematici rappresentanti di una generazione (iuniore rispetto a quella dei precursori e maestri Vincenzo Ciardo, Geremia Re, Antonio D’Andrea) che, riguardo alle arti figurative del secondo dopoguerra, ne lastricava di nuove ideologie e di nuovi linguaggi il sentiero, in un clima di universale rinnovamento e di riesplose passioni civili. Scriveva, infatti: L’avvenuto risveglio […] può già condurre a una precisa individuazione di valori, può già comporsi in un quadro storico-critico di puntualissima rispondenza e rappresentatività. Risentito nelle varie esperienze del tonalismo, dell’impressionismo, dell’astrattismo, dell’espressionismo, del cubismo, del realismo […], per esempio, il paesaggio salentino risulta del tutto sottratto «alla convenzionalità generica e scolastica del cartolinismo di prima». Ebbene, aggiungeva Pagano, «Pippi Ferraro, pittore-scultore, è a questi effetti che ci va interessando», e rimarcava quanto segue: Egli conta quarant’anni di lavoro (fin dall’adolescenza) ed ora ci induce ad affermare che il suo tirocinio è stato lungo e paziente. Ma, intendiamoci, lungo e paziente, solo se consideriamo come più valida e significativa la fase attuale in cui lo si trova. Infatti, c’è chi lo giudica maturo e formato da un bel pezzo, da quando le sue statue (specialmente i busti) cominciarono a imporsi in virtù d’una severa e disciplinata impostazione, d’una classica olimpicità, d’una sempre espertissima tecnica […]. Siamo noi, personalmente, a preferire l’ultimo Ferraro […] per essersi deciso ad una ricerca come quella dianzi [v. supra: il «risveglio»] messa a fuoco e che ci preme al momento più d’ogni altra cosa […] per ragioni extrartistiche o comunque collaterali all’arte, ma importanti, tremendamente importanti, per la rinascita e la vita della più mortificata terra d’Italia [scil. il Salento].
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