
Soli siamo ora, soli e soli terribilmente nella rete del ragno che ci morde, dentro l'orizzonte di sangue raggrumato di un cielo a lutto vestito. Nottule disperate la testa divorano. Sorpresi e con gli occhi del mare piogge d'autunno attendiamo costretti nella morsa di orribili assassini, soli e soli terribilmente alla luce del sole che carne d'agosto brucia.
Dal cielo fax arrostiti giungono di resti di poveri corpi ammazzati, senza più croci, soli e soli terribilmente senza scampo, indifesi nel deserto di cuori di pietra. D'inverno triste è il suono della cornamusa che l'uomo dei curli rompe nei pressi della macchina dei fax con una betissa che a Badisco urla sotto l'antica colonna tra sibili lunghi nel mare. Il vuoto di un palazzo di una Lecce infelice alto è, il cielo tocca, con un sei piani d'atroce tormento che tu colombella triste e violata col corpo attraversato hai. La tua vita, le nostre speranze: quella dell'uomo dall'occhio sbilenco, quella dello zallo salentino, quella dell'uomo-civetta sulla quercia appollaiato: un libro squinternato siamo. Un percorso a serpente su di un muretto a secco dalle parti di Badisco, là dove nostra Magna Mater si dispera e muore e nostro Padre non ha più voglia di vivere. Con gli occhi del mare, fragile Claudia-Mesar-lì, dentro la nostra stupidità affondi. Non so se i sesti piani siano stati sempre assassini, questo di Lecce sì. Per questo ora siamo soli, terribilmente soli e soli sotto un cielo a tempesta sempre. Ti ho raccolto, donna dagli occhi del mare, ai piedi di questo barocco infelice. Il tuo corpo fiore di campo aperto era, petali rotti di margherita a sangue vivo spezzato in un giardino antico di fuori le mura. Alla nostra pena nessuno sconto è stato dato mai, tutti sanno che tutto abbiamo pagato, sempre, fino alla fine, perché lor signori sesti piani non fanno sconti in questa Lecce che uccide e dimentica la figlia che per amore la faccia dipinta s'era. Ti raccolsi fiore tra i fiori, rosa più rosa d'ogni altra, donna dagli occhi del mare, con le vene aperte a petali profumati, col sangue che imbrattava il tuo viso, betissa Claudia-Mesar-lì che versi dipingevi. Ricordo che ridemmo e bevemmo dolce vino rosato quella notte che ci abbracciammo dalle parti di Rudiae antica dove Ennius sgomitolava poemetti latini per giovani ingordi di sole e di lune che la strada smarrito avevano alla ricerca di un tempo cannibale. Quella volta anch'io ti cercai filo di rugiada su trifogli smorti nel campo proibito all'odio degli dèi, donna dagli occhi del mare, Claudia-Mesar-lì che smuovi e rigeneri la morte che nel mare fugge e annega. Ora, nell'Adriatico hidruntino, non ci sono più percorsi pericolosi, per questo siamo soli, terribilmente soli e soli nel deserto che il fuoco acceca. Urlava il mondo urlava, quella volta che quel sesto piano ti chiamò donna che in faccia fiatavi l'odore acre del vino messapo dall'uomo coreutico spremuto nella pila di nostra Magna Mater Salento. Quella notte i tamburi tuonarono a fulmini quando mi chiedesti di danzare con te, donna dagli occhi del mare, betissa Claudia-Mesar-lì che più non dormivi, alla finestra affacciata in attesa che la luna passeggera sul suo calesse ti cogliesse. Ricordo che con te ballai, Matto com'ero, la danza del ragno che tormenta sui cornicioni delle nostre case antiche di tufo di cava forata sfatte dal vento e dal tempo che con la falce ogni cosa rapisce. Nella gola profonda crollammo infine morti sfiancati due volatili pennuti ubriachi eravamo, il fiore della nostra vita cercavamo nella roccia che il mare stringeva, dalle parti di Badisco, dove il nostro cuore al sole d'agosto si disfece. In silenzio ti amai, donna dagli occhi del mare nella disperazione urbana di una notte, nascosto sotto le porte antiche tra i rumori del sonno, i profumi di poesia. Una pajora costruito avevo, donna dagli occhi del mare, con le pietre della specchia degli amanti, che pure specchia del diavolo era, là dove dall'Est il vento respira, dove non ci sono mai stati sesti piani assassini. Come serpente quella volta mi acquattai tra ginestre e carciofi variopinti, il nido volevo finire di fare, nell'attesa del tuo arrivo, della tua bocca odorosa di vino stompato dall'uomo dall'occhio sbilenco. Volavi, donna dagli occhi del mare, gabbianella di luce nel cielo di questa Lecce barocca e infelice, ali di poesia avevi e collane di lune messape. Il vento tra le case l'inguine implume ti accarezzò alla ricerca di un varco di Vergine che da quelle parti sapeva trovarsi tra pietre odori sapori che solo tu sapevi dare. Volavi teneramente, Claudia-Mesar-lì, donna dagli occhi del mare, spada lucente sul vuoto delle rovine dell'anfiteatro lupiense tra vecchi cantori messapi che ninne nanne suonavano a te. «Fija ci t'aggiu persa sta matina... t'aggiu persa pe sempre core miu... fija fija fija mia....».
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