La lanterna di Diogene 6. Comunità |
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Prosa |
Mercoledì 30 Aprile 2014 06:34 |
Mentre scrivo sto vivendo, come tutti, il periodo pasquale che, senz’altro, ha anche una valenza laica perché rappresenta una sosta, per quanto breve, negli impegni lavorativi o di studio per adulti e giovani. La cosa che dovrebbe, invece, farci riflettere, come fenomeno da approfondire, è vedere le chiese piene, o quasi, durante le cerimonie religiose o anche quando la chiesa, in quegli orari, è libera da funzioni religiose. Da noi, nel Salento, nel giovedì che precede la Pasqua c’è la consuetudine dell’allestimento e della visita ai “sepolcri”. Forse in nessun altro giorno dell’anno le chiese assistono ad un via vai tanto intenso o vedono un numero così alto di frequentatori del luogo sacro. Perché questo? Solo in quella giornata ci si ricorda della propria fede anagrafica? Credo proprio di no, ma credo pure che questo fenomeno di pacifica e bella “occupazione” delle chiese rappresenti un fatto di per sé positivo. Si tratta del volersi identificare in una comunità di persone che hanno lo stesso linguaggio, che vivono negli stessi luoghi, oramai divenuti familiari, di persone, cioè, che si riconoscono nella stessa realtà urbana e nei suoi abitanti. Non sto facendo il professorino, perché anch’io sono legato allo stesso rituale e vivo le stesse sensazioni. Certo, visitare tutte le chiese di Lecce non è semplice (qualcuno ha chiamato Lecce “città-chiesa”). Io e Marisa, mia moglie, il giovedì sera precedente la Pasqua, entriamo in tre o quattro chiese non molto lontane da casa. In questa situazione incontriamo persone completamente a noi ignote, poi persone che conosciamo “di vista” e che, comunque, salutiamo quantomeno con un cenno della testa e un sorriso non di convenienza. Troviamo anche, com’è logico, amici e parenti e per questi il saluto è più caloroso e va dalla scambio della stretta di mano a un fugace bacio sulle due guance, accompagnato da un sorriso. Non credo che tutto ciò sia ipocrisia, credo invece che sia il desiderio di sentire intorno a sé persone con cui abbiamo tante o alcune cose in comune. Come scriveva, ai primi del 1600, John Donne: “Nessun uomo è un’isola”. Né, aggiungo io, nessuno può diventare un’isola, cioè rifiutare amicizie e la comunità, a parte coloro che vivono situazioni patologiche. Ma temo che il mio sia ottimismo e che invece, finite le feste, ognuno ritorni agli impegni usuali e riprenda a considerare l’altro, a parte le persone a noi care, come qualcuno che è superfluo se, addirittura, l’altro non torna a rappresentare un fastidio che dobbiamo tollerare. Ma non è, per caso, che sto generalizzando il mio sentire che è di per sé portato a sottolineare le cose negative, perché le positive le considero ovvie? Qualcuno, però, potrebbe rilanciare l’accusa e potrebbe dirmi: ma, mentre pensavi queste cose negative, ti stavi guardando allo specchio? E potrebbe aggiungere, traducendo il motto latino: “Allora, medico cura te stesso”. |