LA MORALE DELLA FAVOLA: LE TRADUZIONI DA SIMONIDE NEI CANTI LEOPARDIANI |
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Critica letteraria |
Venerdì 21 Gennaio 2011 19:40 |
[In Teorie e forme del tradurre in versi nell'Ottocento fino a Carducci, Atti del convegno Internazionale, Lecce 2-4 ottobre 2008, a cura di A. Carrozzini, Galatina, Congedo, 2010, pp. 235-251.]
A Maria Luisa Doglio Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall’intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli. (28. Maggio 1821.).1
Tra le tante pagine dello Zibaldone che parlano di traduzione, ho scelto, per cominciare, una che di traduzione non parla. Parla, però, di arcaismi, e lo fa per dichiarare loro un’avversione che permette di mettere subito a fuoco un ostacolo davvero ingombrante che il Leopardi traduttore dei classici doveva affrontare nel corso del suo lavoro. |