Le traduzioni di Giovanni Francesco Romano |
![]() |
![]() |
![]() |
Critica letteraria |
Martedì 27 Gennaio 2015 20:37 |
Le traduzioni di Leonida sono apparse nella Rivista Sudpuglia: cinquanta nel numero di settembre-dicembre 1979, cinquantuno in quello di gennaio-marzo 1980. Le traduzioni di Nosside sono apparse, sempre in Sudpuglia, nel numero di aprile-giugno 1981. Le traduzioni di Anite sono state pubblicate postume nel volume già citato del 1994; presumibilmente sono posteriori alle traduzioni di Nosside e quindi, in mancanza di altre precisazioni, appartengono al periodo 1981-1989 (anno della morte di Romano). Si definiscono così due blocchi di traduzioni, che si possono scandire grosso modo in questo modo: Leonida e Nosside, più antiche, da una parte, Anite, più recente, dall’altra. Questa distinzione (che è oscurata dalla successione Leonida-Anite-Nosside, adottata nel volume degli Epigrammi) rende ragione di una particolarità versificatoria che mi sembra sfuggita sinora. Mentre le traduzioni di Leonida e Nosside sono in versi della tradizione italiana (endecasillabi per lo più, inframezzati da misure più brevi, ad esempio i settenari) e ciò spiega come il numero dei versi della traduzione sia di solito eccedente rispetto a quello dell’originale), le versioni di Anite sono in versi apparentemente liberi, ma in realtà esametri e pentametri della metrica ‘barbara’ carducciana. L’esametro è reso per lo più con settenario + novenario, il pentametro con settenario + settenario (o con misure ad essi riconducibili). Ciò si traduce in una esatta corrispondenza di versi tra originale e traduzione. Diamo come esempio il primo epigramma di Anite (Epigrammi, p. 117): Lancia omicida, fermati, e più dal tuo artiglio di bronzo non gocciolare sangue, luttuoso, di nemici; nella casa di marmo, qui, alta, di Atena, riposa esaltando il valore del cretese Echecratide. “Echi carducciani” sono stati rilevati da Aldo Bello (Introduzione a Il vento e le stagioni, Matino 1990, p. IX) nella prima raccolta poetica del 1942 Solingo liuto, che non ho potuto consultare, come le due successive raccolte del 1950 (Mentre la luce è piena e Il deserto attende). Ma, dopo la svolta ungarettiana e quasimodiana che caratterizza la successiva produzione poetica di Romano, il ritorno tardivo a Carducci, sia pure sul piano strettamente metrico, non è privo di significato. Ciò dimostra un certo sperimentalismo metrico di Romano: comunque è un dato evidente che l’esigenza ritmica era preminente nella sua ricerca poetica e giustifica l’osservazione sulla “perfezione metrica” dei suoi componimenti fatta da Aldo Bello (Ibid.). Anzi, io credo che un’indagine metrica su tutta la produzione di Romano potrebbe riservare delle piacevoli sorprese. [Continua a leggere l'allegato] |