Scritti a bandiera |
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Poesia |
Mercoledì 01 Luglio 2015 06:44 |
Soprattutto nel Novecento i poeti hanno progressivamente abbandonato le strutture metriche, seguendo il verso libero. La conseguente minore difficoltà formale ha spinto a considerare poesia tante scritture a bandiera – alcuni esempi di questo modo d’organizzare le parole su carta sono raccolti nel seguito – e molti a cimentarsi nell’impresa. Non so se sia questo proliferare di produzione poetica una delle cause cui attribuire la riduzione progressiva dei lettori di poesia, diventati forse inferiori di numero ai poeti e a chi è presunto tale. In ogni caso la semplicità indotta dal non doversi attenere alle strutture metriche, con buona pace della costruzione di versi in base a piedi – gruppi di due o più sillabe distinti nella struttura sillabica e nell’accentazione – come il trochèo, il giambo, il dàttilo, lo spondèo, l'anapesto e l'anfìbraco, e di tante altre “figurazioni” sintattiche e fonetiche, è solo formale. Restano invariati, infatti, i problemi del ritmo, della musicalità della frase, della profondità dei concetti che chi voglia scrivere poesia necessariamente affronta, anche quando non ne è consapevole. Ogni volta che si pensa di aver risolto questi problemi al finire di una composizione, si deve avere l’umiltà di ricominciare da capo e l’orgoglio di credere di poter migliorare, e lo sforzo di farlo. Quanto segue, non so se possa considerarsi poesia. Dovrebbe essere il lettore a giudicare. Il giudizio è determinato dalla propria sensibilità – qualcosa che non si acquisisce, si ha e si coltiva, sperando che gli eventi della vita non la inaridiscano –, dalla propria psicologia, dal vissuto, dalla cultura personale. Per questo il giudizio è mutevole, un’onda che si slancia sulla battigia per poi ritirarsi. Per questo un’opera deve essere vista nel tempo, per la sua capacità di parlare ai suoi fruitori attraverso il tempo, in condizioni sociali, politiche, psicologiche, culturali mutate, ma forse a un immutato grado di sensibilità. E ciò talvolta accade, come fosse un miracolo sottile, che deve sedimentare senza vuota alterigia, prima che arrivi lo strepito, prima che l’industria culturale se ne appropri, ove abbia qualche interesse a farlo, stravolgendone il senso talvolta, se non spesso, con ottusa pervicacia. Forse nessuna di queste condizioni si applica al resto di questo scritto, alle sue parti a bandiera, cioè. Non sono io a doverlo dire. In merito l’unica espressione che mi è concessa riguarda un malcelato e non finto pessimismo sulla qualità del tutto. Si può scrivere anche per la gloria. Può darsi che, come tanti altri, Vladimir Nabokov lo facesse, come potrebbe forse emergere dalle lettere alla moglie Vera, ma perché questa tendenza non finisca per inzaccherare il risultato, è necessario essere almeno Nabokov e se lo si fosse non ci sarebbe forse neanche bisogno di bramare la fama, perché comunque si sarebbe destinati a rimanere nel tempo. Tutto questo dovrebbe sconsigliare di cercare la gloria. E semmai la tentazione venisse, forse bisognerebbe ricordare il Qoelet, l’Ecclesiaste cioè, “il cui genio”, ricorda Harold Bloom, “ci mostra come sotto ogni abisso si dischiuda un altro abisso più profondo”, e sta lì dal 200 a.C. a ricordare l’aspetto caduco della vanità.
1. Il vento degli uccelli in una mattina di giugno
Il coperchio del fumaiolo è elmo di soldato Perso nella campagna a cercare riposo.
Gli uccelli guardano l’orizzonte, Il fumo del camino li sfiora E porta odore di pane.
Gli uccelli non ricordano i morti che coprirono la pianura, Non hanno ragione della battaglia che fu, Vanno incontro all’orizzonte Anche quando qualcuno spara Anche quando si posarono sui corpi nel fango di Verdun Anche quando non c’è profumo di pane e c’è fame E la pianura è secca E porta la sete.
Hanno visto gli uccelli senza capire Azzannarsi gli umani Per un rito o per un altro Usati per imporsi Per sentire d’esistere Per colmare il vuoto
Che diventa astio e languore Che fa dimenticare la calma fresca del mattino Il ciangottio dei passeri Il passo incerto delle papere Il volo bianco degli aironi.
(6-06-2015).
2. Un portachiavi di cuoio
Mi ha regalato un portachiavi di cuoio, Nascosto sotto il cuscino, Con quella fresca gioia Che spinge via sempre la notte, Con il gesto lieve del capo, Con le dita affusolate e stanche, Accoccolata sul divano, Cosciente del crudo e del cotto, Della vita e della morte, Del freddo dei monti e del bollore del sole d’estate.
(05-06-2015)
3. Del fiume e degli alberi
Ho seguito l’ansa del fiume Salendo verso la collina
Sotto lo sguardo severo degli alberi Sotto il sole di maggio Sotto il vento del nord Sotto pochi cirri alti
Rimasti dopo la tempesta Dopo che l’acqua era caduta
E aveva ingrossato il fiume E aveva lavato Ed era scesa giù tra le pietre E aveva scavato tra le radici
Per fermarsi nei bacini Per riapparire nelle case Per andare giù nelle gole Per favorire la vita.
*
Ha anche ucciso l’acqua Con impeto incosciente
Per sua violenza Per incuria degli umani Per la miopia di chi si vende Per l’ottusità e la furbizia di chi corrompe,
Come gli umani per l’acqua Come gli umani per l’oro Come gli umani per nulla.
*
Gli alberi guardano silenti, Oppongono i rami al vento, Perdono e acquistano le foglie, Ospitano gli uccelli.
Non si affannano gli alberi, Ricordano che ciò che conta è Il bagliore del giorno Il volo delle coccinelle Il colore dei fiori
E il cammino oscillante di un fagiano Tra gli ulivi, oltre l’inferriata su un muro Su quella via che sorresse Boccaccio Guardata dalla collina di Fiesole Dal sole che la attraversa E non si accorge
Di nulla qui sulla Terra Di nulla lì su Giove Di nulla oltre Plutone
Mentre il fiume porta via il tempo E lascia la vita tra i ciottoli Sotto gli alberi sereni che lo guardano andare.
(13-06-2015) |