“Non ha l’ottimo artista alcun concetto…”: il platonismo estetico-erotico di Michelangelo |
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Critica letteraria |
Martedì 08 Marzo 2011 08:54 |
[Lezione di mercoledì 24 novembre 2010] La seconda domenica di Quaresima del 1547 Benedetto Varchi legge all’Accademia Fiorentina la sua Lezione sopra “uno sonetto di Michelangelo e della maggioranza delle arti”. Le lezioni varchiane rappresentano, a tre anni dalla pubblicazione delle vite vasariane, la definitiva consacrazione del mito michelangiolesco ma si configurano altresì come il primo di numerosi lavori esegetici del sonetto forse più noto del corpus lirico buonarrotiano. Se la seconda lezione varchiana è il tentativo di giungere a formulare una normativa di valore universale che fornisca la giustificazione teorica a una definitiva equiparazione di scultura e pittura in virtù della loro comune nobiltà e intellettualità, la prima è una vera esplicazione didascalica di quello che il sonetto per il nostro erudito professa; prima di addentrarsi nelle pieghe della sua dissertazione critica Varchi disputa lungamente della natura di amore, dei suoi gradi confermando la matrice aristotelica ed eclettica del suo pensiero. Il commento si apre con l’augurio che retoricamente Varchi volge a se stesso di riuscire a parlare più estesamente di ciò che invece il maestro in breve parole ha ripiegato e stretto nella sua poesia e procede tortuosamente in un labirinto di citazioni di autori tra i quali dopo Aristotele, Lucrezio, Averroe, e Dante, indubbie fonti di cui Michelangelo poeta ha beneficiato lungo la parabola della sua vita. La chiave ermeneutica di cui si serve l’illustre commentatore è aristotelica: così legge e interpreta il sonetto: “ Se uno scultore avesse un marmo, certa cosa è che in quel marmo sono in potenza, cioè si possono cavare di lui, tutte le figure che si possono immaginare, come un uomo, un cavallo, un lione e così di tutti gli altri egualmente; o volemo più tosto dire che in quel marmo sono in potenza e si possono cavare di lui tutte le bellezze che si possono immaginare da qualsivoglia ottimo maestro di dare a qualunche figura, diciamo, per cagione d’essempio, a un Mercurio[1]”.
Più in breve, il Varchi rileva nell’imbastitura poetica della prima quartina del noto sonetto la concezione aristotelica per cui la materia ha e conserva una potenzialità passiva di ricezione delle forme che a quella sono immanenti, dunque una possibilità latente di essere, e la definizione della pratica artistica come instrumentum attraverso cui la forma si introduce nella materia che passa così dallo stato potenziale a quello attuale, ovvero l’artista “‘sprime’ con lo scalpello quello ch’egli s’era immaginato coll’ingegno conduce a perfezione le cose”[2]. Per Varchi dunque il paradigma teorico fondativo dell’ estetica michelangiolesca si coagula nell’ assioma extrahere rem de potentia ad actum. La lezione varchiana ha influito sul dibattito culturale della seconda metà del XVI secolo e ha condizionato, sia pure in maniera e per motivi diversi, le riflessioni di artisti e teorici come Vasari, Danti e Zuccari. A lungo la critica, come già il Varchi, ha rivolto il suo interesse e i suoi sforzi ermeneutici alla prima quartina del sonetto che, pur in maniera assai complessa, sembra delineare in una sintesi perfetta la dottrina estetica di Michelangelo. Tuttavia la densità filosofica di questi primi versi non deve opacizzare la portata rivelativa della seconda quartina e del gruppo di terzine. Il nerbo teorico del componimento infatti lo si coglie pienamente solo se si lega il nucleo concettuale dei primi versi con la seconda parte del sonetto che sembra così comporsi di due momenti di un medesimo discorso che, come vedremo più avanti, predica il connubio, il religioso e platonizzante intersecarsi dell’amore e dell’arte. Michelangelo non ha, contrariamente al costume di molti artisti a lui contemporanei, palesato e lasciato alcuno scritto sulla sua regola e sulla posizione teorica sull’arte. La sola testimonianza del pensiero estetico michelangiolesco ci è offerta dai Dialoghi romani di Francisco de Hollanda. Apprezzato miniaturista portoghese il de Hollanda è segnato profondamente dal suo viaggio nell’Italia del Rinascimento e dalla conoscenza del Buonarroti. I suoi dialoghi meritano uno studio serio e approfondito per il loro importante valore documentario dato che i Dialoghi di Donato Giannotti sebbene ci raccontino di un Michelangelo propositivo che dichiara, per compiacere al desiderio dei suoi eletti ascoltatori, di nutrire un vivo desiderio e di sentire la necessità e l’urgenza di scrivere le sue idee, non ci documenta tuttavia l’adempimento del maestro alla sua promessa. Il Michelangelo dei Dialoghi romani è un uomo schivo, discreto, misantropo che però rifugge alla sua solita reticenza per filosofare della Bellezza. Si irradiano nelle sue parole i temi e le immagini del platonismo ficiniano. Negli assunti di Michelangelo l’arte assume connotazioni metafisiche, si riconoscono all’artista le doti precipue di un dio; la divinità dell’artista consiste appunto nel creare in modo analogo a Dio. In Michelangelo ‘dipingere’ e ‘creare’ sono un’endiadi perché è Dio, Sommo artista che crea dipingendo. L’opera artistica non si risolve in una mera imitazione delle cose bensì si configura come un processo anamnestico: la buona pittura è un ricordo del dipingere di Dio, una memoria che richiama una condizione originaria e perduta di compartecipazione tra uomo e Dio[3]. Come è noto, per Platone l’arte è una attività mimetica che si limita a rappresentare con le opere la copia delle cose nella loro meschinità; la condanna del filosofo è perentoria eppure nessun altro sistema filosofico ha influenzato ed esercitato sui saperi il peso della sua auctoritas quanto il pensiero platonico. In particolare nel Quattrocento fiorentino il platonismo dà voce a istanze profonde della cultura e della vita penetrandone tutti gli aspetti. Marsilio Ficino, incoraggiato dalla politica culturale di Cosimo il Vecchio e dalle sollecitazioni di Pico, si adopera nella traduzione, come già il Bruni, di Platone e più tardi ne integra il pensiero con la filosofia di Plotino alla traduzione e al commento delle cui Enneadi ha lavorato, avvalendosi della collaborazione del Poliziano e Landino, lunghi anni a beneficio dei volgari lettori tra i quali possiamo immaginare vi sia lo stesso Michelangelo che avrà anche ha potuto giovarsi delle pubbliche letture sin dal 1487 dei testi filosofici e sapienziali dell’antichità. Il platonismo rinascimentale predica lo iato tra il mondo sovraceleste, e il mondo terreno, tra eidos ed eidolon, e l’amore, mistica liason che porta la Terra al Cielo e l’uomo a Dio. Questa è l’eredità culturale che il giovane Michelangelo raccoglie lungo gli anni del suo ‘noviziato’ nei giardini di San Marco. L’Idea incontra l’Arte nell’opera di Michelangelo e si fenomenizza nei suoi versi. Se infatti poderosi e significativi riferimenti platonici, si colgono nelle parole del Maestro nei Dialoghi hollandiani, questi ultimi vanno comunque letti da una distanza storico-critica tale da tener conto che costituiscono in ogni caso una preziosissima, particolarissima ma indiretta fonte della weltanshanung michelangiolesca, mentre sono le Rime, ovvero il frutto di quella pratica del poetare, che secondo certa critica deve essere posta alla periferia dell’arte di Michelangelo, a rivelarsi la fonte più ricca del pensiero estetico dell’artista e il luogo in cui accoglie la dottrina platonica delle idee[4]. Numerosi sono i riferimenti ad una vita disincarnata e pura precedente la vita terrena richiama l’eternità del mondo delle Idee e nel contempo rivela il desiderio, l’ansia di ritornare in quella patria celeste in cui ha vissuto e amato prima di incarnarsi nel mondo. La nostalgia del cielo è la cifra del platonismo michelangiolesco che vede la vita un esilio, una perdita d’ali e l’amore è platonicamente una via privilegiata di ritorno a Dio[5]. L’amore scioglie l’anima dalle corporali catene e la solleva gradualmente dalla contemplazione delle bellezze corporali, effimere, caduche al Bello e al Bene. Proprio dell’amore il poeta ci offre una definizione filosofica assai sofisticata che esplicita il debito culturale nei confronti della teologia dell’eros ficiniana[6]. In “Quanta dolcezza al cor per gli occhi porta” Michelangelo antropomorfizza Amore e con lui intesse un dialogo. Amore dissipa i dubbi dell’innamorato rivelando la sua natura: “amore è un concetto di bellezza / immaginata o vista dentro al core, / amica di virtute e gentilezza”; il sonetto “Dimmi di grazia , se gli occhi miei” è ancora un ‘erudita conversazione tra l’ amante e Amore che lo aiuta a discernere il Bello dalle bellezze sensibili. In “Del fiero colpo e del pungente strale” è invece un messo d’Amore ad incoraggiare gli affanni amorosi del poeta cui raccomanda di abbandonarsi alle dolcezze di Amore perché, solo, permette di trascendere il mondo e la vita di quaggiù. Ma è un’altra confidenza o rivelazione del nuntio amoris che ci offre l’occasione di cogliere l’originale profondità di pensiero di Michelangelo: il poeta scopre dalle parole del nunzio che Amore ha educato sin dai primi anni la sua anima e la sua intelligenza al Bello perché la Bellezza partorisce quell’amore che restituisce l’uomo a un destino che si completa solo nello spirito. E’ il poeta questa volta a filosofare della bellezza nel sonetto “Non è sempre di colpa aspra e mortale”, mostrando nelle declinazioni del suo ragionamento interessanti tangenze con due altri fonti del neoplatonismo quattrocentesco: Pico della Mirandola e Girolamo Benivieni[7]. La bellezza è dunque per Michelangelo simulacro di una bellezza superiore, archetipica. Vedere nella bellezza del corpo uno specchio in cui traluce la grandezza e l’onnipotenza di dio è un topos della poetica stilnovistica ma in Michelangelo la bellezza dell’amata oltre ad identificarsi con il Bello e il Bene si carica di un significato più forte perché la Bellezza soltanto è l’unica realtà intelligibile ad avere il privilegio di essere manifesta nel mondo sensibile[8]. Sono ancora due, in particolare, i luoghi in cui il poeta rivendica all’arte una origine divina. In “Al cor di zolfo, a la carne di stoppa” addirittura il poeta racconta che al momento della creazione e della sua discesa nel corpo, di aver portato con sé l’arte in dote. Ma quali siano le reali implicazioni dell’estetica michelangiolesca lo leggiamo proprio nel già discusso sonetto “Non ha l’ottimo artista..” Pur riconoscendo grande merito all’esegesi del Varchi non si può non riconoscere che il commentatore, preoccupato di ricostruire l’ordo del pensiero teorico del Buonarroti, al fine di canonizzarlo, tendeva a ricondurre ogni concetto, ogni verso, ogni singola parola alla lezione aristotelica, viceversa la nostra analisi mira a mettere in luce lo scarto rispetto alla norma, l’originalità e la stravaganza rispetto all’imitazione. Perfino le suggestioni aristoteliche e soprattutto neoplatoniche che pure sono copiosamente evocate in questi versi non possono aver ispirato il poeta e sorretto la sua tesi quali matrici concettuali esclusive. Per Platone infatti, e quindi per Plotino e Ficino le idee non sono in re, ma ante rem, quindi non possono incarnarsi e restare prigioniere nel soverchio del marmo come invece Michelangelo afferma risolutamente, ma ciò che maggiormente allontana Michelangelo dal pensiero neoplatonico da cui pure ha largamente attinto, come la nostra analisi ha cercato di rilevare, è il rifiuto di credere che l’arte si risolva semplicemente in una attività mimetica, di imitazione cioè di bellezze trascendenti e dunque lontane dall’esperienza emotiva e gnoseologica dell’uomo perché il sonetto attribuisce all’arte un valore poietico. Dal dettato poetico buonarrotiano emerge imperiosa la figura di un artista redentore che misurandosi con la materia e vincendone le resistenze libera le forme spirituali che conserva e ne trae la ‘possibilità’ attraverso l’esperienza dell’amore della redenzione. Questo punto ci consente sia pure a margine di questa analisi, di operare una riflessione di secondo livello: Michelangelo nella tarda stagione della sua vita che si inscrive nel drammatico momento religioso e sociale dell’Italia controriformistica, assorbe le tensioni, le inquietudini, il disordine delle coscienze della sua età e sedotto dal carisma culturale, personale e dall’aura mistica di Vittoria Colonna, la cui fertile e intensa amicizia intellettuale condizionerà mutuamente le produzioni liriche di entrambi, vive interiormente una fede rinnovata nel segno valdesiano della giustificazione per sola fede e grazia. Le Rime della vecchiaia di Michelangelo si metamorfizzano in accorate preghiere, in professioni di fede nel Cristo nel e per il cui sangue le sue pene si mondano; la strenua battaglia contro il male, il brutto, l’imperfetto dei suoi anni giovanili si placa ora nella fede. Ma se è Cristo nelle ultime rime che libera l’uomo dal male, che vince la natura del male, l’imperfezione, il limite, nelle rime della giovinezza e della maturità è l’Arte che opera la redenzione dello spirito. In tutti i componimenti in cui il Buonarroti disserta dell’arte e dell’amore la pietra diviene sempre metafora di una condizione esistenziale. Così come l’idea è rinchiusa nel marmo, lo spirito è imprigionato nella carne. L’uomo soffre per l’imperfezione e i limiti della sua natura e la sua vita è un’attesa, l’attesa della salvezza che si compie per mezzo di un redentore che come l’ artista col marmo può liberarlo dal soverchio, dal male inscritto nella sua umanità, attraverso la fatica, lo sforzo, l’arte del levare. L’artista porta in sé i segni delle angosce e dei tormenti dell’uomo. L’ansia di perfezione morale che tormenta Michelangelo nella vecchiaia, alla continua ricerca della vittoria sul peccato è l’ansia giovanile di bellezza, di amore, di assoluto. E’ l’amore, la donna, simulacro della divina bellezza, ad operare come con lo scalpello la redenzione dell’uomo. Se Michelangelo quindi condivide con i neoplatonici il fine, l’orizzonte della vita umana, crede tuttavia che l’arte, metafora del potere catartico dell’amore, possa restituire all’uomo attraverso il godimento estatico la sua dimensione mistica e il suo destino d’eternità.
[1] B. Varchi, Lezione sopra uno sonetto di Michelangelo in Rime di Michelangiolo il Vecchio con una lezione di Benedetto Varchi, Firenze, Manni 1726 p. 324 [2] Ivi, p. 326 [3] Francisco de Hollanda, Dialoghi romani a cura di E. S. Barelli, Milano, Rizzoli 1964 p. 35 “Michelangelo: -nulla è più alto e religioso della buona pittura, poiché negli uomini saggi nulla suscita e stimola la devozione quanto la difficoltà della perfezione, che si unisce e si accosta a Dio. Infatti la buona pittura non è che altro che una copia della perfezione di Dio, e un ricordo della pittura divina, una musica e una melodia che soltanto l’intelletto può percepire con grande difficoltà”. “- Infatti questa nobilissima scienza non è propria di nessuna terra, perché è venuta dal cielo” “- la pittura che io tanto celebro e lodo consiste soltanto nell’imitare qualsiasi essere che Dio immortale ha creato con grande cura e sapienza, e che egli ha inventato e dipinto a sua somiglianza. A mio parere è eccellente e divina quella pittura che più somiglia e meglio imita qualsiasi opera dell’etterno Dio […]”; “mi sembra che imitare perfettamente ciascuna cosa nella sua specie altro non sia che voler imitare l’ufficio dell’etterno Dio”. [4] Michelangelo, Rime, a cura di S. Fanelli, Milano, Garzanti 2006 n. 7, 15,60.24 [5] Ivi n. 18, 19, 22 71 [6] M. Ficino, El Libro dell’Amore, a cura di S. Niccoli, Firenze, Olschki, 1987 n. I, III, 35; I,IV, 9; II,I, 4; II,VI,2; II,VI, 6; II,VII, 15; II, IX, 2; III, I, 9; VI,IX,48; VI,XVI, 1; VI,XVIII,2
[7] Per la copiosa presenza di tangenze con il pensiero neoplatonico quattrocentesco faccio debito rinvio alla mia edizione commentata delle Rime di Michelangelo per i tipi della Garzanti in cui si dà ampio saggio e attestazioni delle ascendenze filosofiche. [8] Michelangelo, Rime, n. 21, 17, 47, 210. |