Programma maggio 2022
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Convocazione Assemblea dei Soci 22 aprile 2022
Convocazione Assemblea dei Soci   L’Assemblea dei Soci è convocata nella Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse venerdì 22 aprile alle ore 16,00 in prima convocazione e 17,00 in... Leggi tutto...
Programma Aprile 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Aprile 2022 ●       Venerdì 1 aprile, ore 17:00, Officine di Placetelling - L’Università del Salento... Leggi tutto...
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Inaugurazione Anno accademico 2021-2022
Venerdì 22 ottobre alle ore 18:00, nell’ex Convento delle Clarisse in piazza Galluccio, avrà luogo l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Popolare “Aldo Vallone”:... Leggi tutto...
A rivederci. In presenza, Forse anche a distanza. Ma sempre attivi. E comunque uniti.
Il nostro Anno Accademico è finito, come sempre, con l'arrivo dell'estate, anche se il contemporaneo "sbiancamento" della nostra Regione e la possibilità, finalmente, di organizzare incontri in... Leggi tutto...
Sugli scogli 2 PDF Stampa E-mail
I mille racconti
Mercoledì 09 Marzo 2011 08:22

INSIDIE  SUL  MARE

 

Sono un uomo libero, per trent’anni imprestato alla scuola. Mi sarebbe piaciuto vivere sul mare e perdermi in luoghi ameni, ma il mio lavoro era sempre, o quasi sempre, riconducibile a spazi angusti adattati a nobili usi; ne sopperivo rinunciando ad alcune cose e preferendone altre; infatti non dichiarai mai la mia disponibilità, nelle ore di buco, a supplire docenti assenti e, non a caso, aderivo agli scioperi della scuola da qualunque parte venissero indetti. Sono fatto così, forse indotto da sete di libertà o da innata avversione al potere. Quelle ore di buco erano mie e me le gestivo nel modo più congeniale al mio sentire: passeggiando nella campagna circostante, per poi rientrare in classe rigenerato. Quando ne ebbi due concomitanti, le accettai senza batter ciglio, al contrario di chi vedeva le ore di buco come una maledizione.

Scendevo alla marina che distava poco (per la sua vicinanza non chiesi mai il trasferimento in altra sede) da quell'ambiente resomi disgustoso da fior di lecchini, ed era un andare a zonzo catartico, un nutrirsi di odori e riverberi che mi traslavano oltre i confini fisici di quel palcoscenico fascinoso qual è il mare.

 

Conobbi Fisso (da Crocefisso) in uno dei miei vagabondaggi ed ebbi il privilegio di diventargli amico. Era un vecchietto che passava le sue giornate pescando sino all'ora di pranzo. I nostri incontri avvenivano sistematicamente tutti i giovedì ed ebbi la sensazione che aspettasse il mio arrivo. E il rapporto amicale andò sempre più consolidandosi tanto che Fisso cominciò a 'passarmi' le sue conoscenze: lascito di cui un appassionato di pesca come me, fece tesoro.

Una sua frase mi rimase impressa come epitaffio: “Cu llu sole ncapu, le cchiate mangianu cu llu sole ncapu”; intendeva dire quando il sole è perpendicolare a chi pesca.

Arrivò l'agosto e mi trasferii al mare con moglie e figli; così sperimentai sul campo la veridicità di quanto Fisso mi aveva confidato. All'ora di pranzo, quando la costa si spopola e sale la brezza, ero  su qualche angolo di scogliera a dare sfogo alla mia divorante passione. Ma un giorno.....

Il sole dardeggiava quando un tizio puntò decisamente verso di me; pensai ad uno dei soliti curiosi che s'avvicinano a chiedere come va la pesca, ed ero pronto a liquidare il rompi scatole con la solita risposta: 'sono appena arrivato'. Chi procedeva nella mia direzione, con scarpe dalle suola di cuoio non adatte a camminare sugli scogli, era tutt'altro di quel che pensavo. Giuntomi vicino, si posizionò alla mie spalle, cosa che mal sopportavo da sempre. Non sapevo cosa volesse l'intruso e cercai, col silenzio, di fargli capire che la sua presenza non mi era gradita. Per qualche minuto si sentì solo il fragore dell'onda che, franta, ricadeva spumando. Continuai a pescare, sforzandomi di ignorare la presenza di quel tizio; poi il rompi coglioni cominciò col chiedere che pesce pescavo e come andava preparato. Non risposi, sperando che la mia palese indisponibilità al dialogo lo facesse desistere, ma quella presenza indesiderata continuò nel suo 'approccio': “Per me le donne sono tutte puttane, non mi piacciono, preferisco gli uomini; ieri, su llu furnieddhu, maggiu fattu unu de Galatina”, e indicò la direzione della pineta. Ebbi una reazione d'impeto: “Ffanculo”, gli sparai di botto, “per me sono il capolavoro dell'universo e le adoro; ora, sparisci”. Il tizio si allontanò senza fiatare. A casa, raccontai l'accaduto. “Proprio a te?”, disse mia moglie, lasciandosi andare in una risata sfrenata.

 

 

 

LE  FURBISSIME  OCCHIATE

Da più giorni persistevano correnti da sud e i mandorli in fiore erano l'unica nota lieta tra alberi nudi e spettrali. Sospinte da vento a raffiche, correvano nuvole basse quel ventidue gennaio. Vedevo la Reggia, l'Aspide, tutta la costa spumare. Cosa non avrei fatto per trovarmi in uno di quei posti, anziché a scuola! Alle 13.50 il suono della campanella mi fece sentire come uccello che scappa via dalla gabbia. Feci tappa a Galatone (mi premunii d'esca) e in dieci minuti fui a casa. Per tutti era una pessima giornata, col rischio di pioggia da un momento all'altro, e quando dissi che sarei andato a pesca, finito il pranzo, unanimi gridarono: “Sei pazzo? Se calma il vento si aprono tutte le cataratte del cielo”. Cercarono di dissuadermi, ma dinanzi alla mia testardaggine, si arresero. “Vengo con te, dammi il tempo di sparecchiare”. Colsi nelle parole di Maria una sorta di protezione materna che m'irritò non poco. Le concessi solo il tempo di prendersi qualcosa da leggere.

La Reggia era deserta e senza illuminazione; di sera vi sostavano solo coppie in cerca d'intimità e qualche pescatore un po' matto. Maria rimase in macchina, rinunciando, per il brutto tempo, alla solita passeggiata sul lungomare; per me, invece, si preannunciava una splendida serata di pesca. Le condizioni c'erano tutte: mare spumoso, esca viva, assenza di pescatori nelle vicinanze. Tutto il visibile avvalorava le mie attese. Come stavo bene col vento di spalle e la cacciata davanti! Selezionai un po' d'esca e aspettai che facesse buio. Al primo lancio (più che lancio, portai la canna contro vento e la lenza si stese sul mare) abboccò un'occhiata, altre ne seguirono voraci e fameliche. Mi destreggiavo al buio come un felino e le luci del ristorante Fiume (ora La Scogliera), a duecento metri, mi erano d'aiuto solo nelle rare volte in cui tiravo a vuoto la lenza. Andando più a fondo avrei potuto insidiare altro ordine di pesce, ma la pesca alle occhiate m'affascinava (e m'affascina) a tal punto che nemmeno tentai una prova. Le occhiate, le furbissime occhiate, abituate ad eludere  i bocconi nelle ore di luce, diventano sempre più intraprendenti dopo il crepuscolo, disposte a restare sulla scia della pastura e a cadere nella trappola che gli si tende.

Senza orologio (non ne faccio uso da anni) e senza telefonino, non mi rendevo conto da quanto tempo fossi lì. Pensai a mia moglie, lasciata da sola al buio, e avvertii sensi di colpa. Accesi la torcia (seppi poi che si rasserenò a veder la luce) e cominciai a recuperare le occhiate poste in una buca piena d'acqua marina. Non ero né sazio né stanco quando mi staccai dallo scoglio.

Per tutto il tempo non avevo fatto uso di torcia e Maria era in preda al terrore: temeva fossi caduto in mare, risucchiato da qualche onda, e quest'idea l'aveva paralizzata. Più volte aveva suonato il clacson, ma col vento e il fragore del mare non avevo percepito alcun suono. “Dovevi accendere e spegnere i fari” le dissi quasi a giustificarmi.

“Ma almeno hai pescato?”. “Qualche occhiata”. “E sei stato finora per qualche occhiata?”. “E che ora è?”. “Credo sia notte, da tanto che non passano più auto dalla strada”. Le mostrai il cesto di occhiate, ma non si stupì come altre volte. Era palesemente arrabbiata.

Alle 23.30 eravamo in casa. I ragazzi avevano già cenato e stavano per mettersi a letto: imbronciati anche loro. Una veloce ripulita e di nuovo in macchina a distribuire occhiate (al peso, Kg. 6.50). Prima tappa, da zio Cici che mi aprì incacchiato nero per averlo disturbato a quell'ora: me lo meritavo. A Soleto, dal fratello di Maria, l'accoglienza fu diversa: mi diedero sì del pazzo, ma col sorriso sulle labbra. Finì così una serata di pesca, ma già pianificavo altre.

 

 

 

SOLAMENTE  LECCE

Giravo per la città con una lista di cose da comperare e un chiodo fisso sin dal primo mattino: quello di andare a pesca. L'ansia di assolvere tutto e presto mi toglieva il respiro. Nel traffico caotico del sabato invidiai chi non era oberato da impegni e poteva disporre del suo tempo. Poco prima delle dodici, sulla via del mare, cambiai d'umore; là m'attendevano un maestrale spumoso, il vento, la solitudine, come tre donne impazienti.

Nella zona di S. Maria al Bagno, qualcuno già riponeva mulinelli e canne per rientrare a casa. Non chiesi 'notizie'. C'era ancora mare, tanto che sopravento era impossibile starci. Scesi e risalii in più punti sino a che non individuai una rientranza, nei pressi della montagna spaccata, che mi riparava da spruzzi. Avevo le classiche malote e pulici per esca che integrai con un residuo lasciatomi da un 'collega' all'ora di pranzo. Pensai ai capannelli visti in piazza Alighieri; da lì a poco avrebbero preso la via di casa con un cartoccio di frutta secca tra le mani: ritmi normali di esistenze normali. Ed io? Saltato il pranzo, io ero sul mare. Una frase di Maria mi tornò in mente: “Solo un folle può fare le cose che tu fai e darti del folle è poca cosa”. E già.....ma la passione è passione. Saluti e baci.

La scelta della canna mi fu dettata da quella scia spumosa detta in gergo cacciata; l'approntai ad hoc e cominciai a pasturare. Quel sabato ebbi la conferma dell'imprevedibilità e mutabilità del mare, che era 'da occhiate', mentre io vedevo un turbinio di pinnule nere nel biancore spumoso non riconducibile ad esse. Il primo pesce si slabbrò fuori dall'acqua, ma ebbi il tempo di riconoscerlo: leccia, una grossa leccia; ne seguì una serie di catture e tutte di grossa taglia. Cullavo, però, la speranza che si afferrassero occhiate da un momento all'altro, ma il galleggiante mai partì a razzo e per questo sentivo il cuore un po' arrabbiato. Le cercai più a fondo, temendo che la presenza di lecce in superficie le trattenesse giù, ma niente; lecce, solamente lecce, tante da riempire due buste. All'improvviso cambiò corrente, la cacciata prese altra direzione e la spuma cominciò a diradarsi. Sparì il pesce. Per sgranchire le gambe uscii da quell'incavo e un grappolo d'uva alleviò la mia sete. Camminavo sulla scogliera in attesa di prendere una decisione. Pensai a quanti, sorbito brodo caldo, s'erano concessi una pennichella, ma senza invidia: ero sazio di mio, sazio di altro. Osservavo il mare che ancora spumava, ma poco, a cento metri da me e là riprovai: niente, nessun tocco nella spuma residua. Chissà dove s'era spinto il branco al cambio della corrente!

Il sole mi cadeva dritto negli occhi quando decisi di smettere. Avevo un buon bottino di lecce, ma lo avrei preferito di occhiate. Presi la via di casa, girando da Sannicola per premunirmi di altra esca. All'amico Rosario, decano dei pescatori di canna e di barca, chiesi come mai lecce e non occhiate. “Lecce?, non è periodo”; al che gliele feci vedere e pesare: sette chili tondi tondi. Sul mare mai dare nulla per scontato.


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