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Il teatro d’ombre di un teatro d’ombre PDF Stampa E-mail
Prosa
Venerdì 15 Gennaio 2016 06:57

["Il Galatino", anno XLIX, n. 1 del 15 gennaio 2016]

 

Se per divulgazione scientifica intendiamo istintivamente una scrittura indirizzata a chi non abbia strumenti tali da poter dare un contributo nuovo al campo di cui si discute, la questione essenziale mi pare essere la necessità di concordare su quale debba essere la “densità” culturale del lettore medio nel modulare la compilazione di un testo che voglia essere di divulgazione.

I punti di vista sono diversi e variano secondo chi si propone di scrivere. Alla fine chiunque scriva ha se stesso come misura e la sua immagine del lettore potenziale dipende da ciò che spinge alla scrittura. E i motivi sono differenti. Si scrive per divulgare perché si cerca di attirare l’attenzione sociale su certi temi ritenendoli culturalmente utili, con le conseguenze che l’attenzione sociale comporta. Si scrive perché si ha desiderio di emergere in visibilità. Si scrive perché si vuole guadagnare moneta (qualcuno ci riesce, anche se sono pochi). Si scrive intendendo fare divulgazione perché si ha il piacere di scrivere ogni tanto liberi dalla necessità del rigore formale che la comunicazione tecnica dei risultati comporta e si vuole che le parole fluiscano anche per il ritmo interno che genera la loro combinazione, per la fascinazione che le idee hanno, per mettere quindi parole su carta. Non sono queste ragioni mutuamente escludentisi: talvolta, in chi si propone, sono presenti tutte e in percentuali diverse e non esauriscono neanche le possibilità.

E poi c’è l’editore, o meglio, c’è il redattore di una casa editrice che deve decidere se far giungere uno scritto sul banco delle librerie. E il redattore dell’editoria da diffusione in libreria, quella che deve conquistarsi un pubblico e al termine “commerciale”, con tutte le sfumature che comporta, preferisce il meno echeggiante anglismo “trade” nel riferirsi a se stessa, ha in genere il ragionevole timore di non avere un risultato di vendite che possa essere valutato positivamente dall’azienda per cui opera. La preoccupazione essenziale è di natura economica: vendere in un mercato indirizzato da campagne pubblicitarie di varia natura, sorrette in maniera primaria dall’idea del rapporto oggetto-compratore precedente alla lettura stessa, che appare quasi come accidente. Il processo relega spesso in porzioni non particolarmente evidenti delle librerie letteratura di valore, sia essa narrativa, poesia, saggistica, che pur trova gli spiragli per essere presente. Il redattore è quindi limitato nella sua libertà di scelta dal timore di riuscire a vendere il libro che decide di pubblicare. Se quindi non c’è un chiaro interesse pratico o psicologico per la casa editrice, altro da quello immediatamente economico, la scelta è tendenzialmente indirizzata dalla presunta sempre maggiore fruibilità, una scelta spesso al continuo ribasso, o dalla notorietà della firma dell’autore, generata non importa per quale motivo. Oltre a questo il redattore cerca levità, da non confondersi con leggerezza; unitarietà; capacità affabulatoria perfino solo fonetica sin dalla scelta del titolo. In altri termini, nei desiderata, il testo che entrambi (autore e redattore) immaginano deve raccontare una storia che attiri perché sollecita qualche esigenza di fondamento verso la quale la sensibilità è acuita dall’attuale struttura sociale o da particolari circostanze di moda. Ciò che si vuole è che si trasmetta entusiasmo, perché trascina le vendite e ha anche la funzione di contribuire a creare il mito.

Nel suo Il secolo infelice (Bompiani, 2012), Imre Kertész, con la consueta lucida profondità, ammonisce: «Nella mancanza del mito o, al contrario, nell’ombra degli innumerevoli miti da quattro soldi, ci sembra di non avere niente su cui riflettere, se non i nostri problemi economici. Circa dieci anni fa ho annotato sul mio diario: “Vi siete accorti che nel frattempo – per quanto riguarda il mito – l’economia, la tecnica sono diventati miti, divinità, addirittura religioni, anche se sono privi di trascendenza? Così la trascendenza è mutilata, anche se non è detto che per questo diventi pure letale”.»

Il mito è talvolta utile per la preponderanza di un gruppo, per sostenere un’ideologia, per favorire la visibilità e per influenzare anche solo indirettamente l’assegnazione di fondi di ricerca in ambito accademico o nei centri di ricerca privati.

Ogni atto culturale ha, infatti, natura politica perché contribuisce a determinare lo spirito del tempo e, di conseguenza, le decisioni che si prendono per l’organizzazione della struttura sociale. Certo, in alcuni singoli casi l’influenza è decisiva, in altri quasi trascurabile, se non del tutto. Però lo spirito del tempo si determina anche dal cumulo di eventi anche minuti che cooperano perfino indirettamente.

Per questo la divulgazione dovrebbe evitare d’essere colpevolmente apologetica o irragionevolmente denigratoria; piuttosto si dovrebbe pretendere da chi scrive in quel senso di esprimere con chiarezza i limiti delle proposte teoriche o tecnologiche di cui discute. Dovrebbe, mi sembra, più che altro rendere evidente quanto accidentato e incerto sia il cammino della conoscenza; quanto esso sia influenzato dalla grandezza e dalla debolezza degli uomini; quanto la grandezza sia rara per sua stessa definizione; quanto ciò che descriviamo è ciò che percepiamo, in un certo senso un teatro d’ombre in cui crediamo che il nostro lavoro evidenzi la verità delle cose, ma di ciò non abbiamo assoluta certezza sempre per il nostro essere parte del sistema che vogliamo studiare.

Per far questo, però, un vago sguardo d’insieme non pare essere sempre sufficiente. D’altra parte, per non limitarsi a proporre una visione edulcorata delle cose oppure, al contrario, una che sia solamente (e forse inutilmente) critica, è necessario soffermarsi sui particolari, per i quali l’interlocutore deve avere linguaggio, come anche deve averlo chi vuole esprimere i concetti che intende comunicare. Questo problema, che ha essenzialmente natura culturale, è talvolta evidente anche nella valutazione degli scritti tecnici, in quel processo che porta alla pubblicazione di un articolo in una qualche rivista scientifica o la impedisce, talvolta influenzato anche da questioni psicologiche o da altri interessi che traggono vantaggio dalla libertà che offre l’anonimato della valutazione, non sempre sfruttata nei suoi aspetti migliori.

Comunque sia, la scelta del linguaggio è una difficoltà essenziale della scrittura divulgativa che forse si può superare se si ha competenza e si esercita umiltà, non solo nella scrittura, ma soprattutto nelle ragioni che la motivano, altrimenti la divulgazione rischia di essere solo il teatro d’ombre di un teatro d’ombre.


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