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Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno PDF Stampa E-mail
Critica letteraria
Domenica 13 Marzo 2011 17:51

Il Cinquecento è  “la stagione di un Petrarca non tradito”[1]. Così Contini chiudeva in una sentenza un secolo di letteratura. Notevoli e più recenti studi sul petrarchismo napoletano hanno in realtà rivelato un modello drammaticamente compromesso.

Già la lirica napoletana di età aragonese riconosceva in Petrarca il suo paradigma ma  mescidava il modello con nuove auctoritates,  connotandosi così oltre che per un inconsueto ibridismo, per uno sperimentalismo vivace e gravido di quelle soluzioni che, più mature, saranno, più tardi, il corpo e l’anima dell’esperienza manierista.

Gli studi di Maria Corti[2] e l’importante monografia di Marco Santagata[3] hanno mostrato come nella Napoli del ‘400 Petrarca non fosse che una delle componenti del petrarchismo profondamente coinvolto, quest’ultimo, in un confuso gioco di metamorfosi.

Santagata in particolare ha parlato di un processo di ‘lessicalizzazione’ del Petrarca, della riduzione a vocabolario del tessuto espressivo e tematico dei Fragmenta[4]. Le prove nelle quali si esercitarono i lirici napoletani  di età aragonese prima e più intensamente  quelli cinquecenteschi poi, consistettero, dunque, in una moltiplicazione incontrollata e sconsiderata delle strutture, dei moduli lessicali, retorici e tematici del Petrarca e che finì con l’esaurire tutte le possibilità combinatorie di quel codice, ormai sterile repertorio di materiali e segni vuoti   e con lo svilimento semantico della poesia dei Fragmenta.

In un organismo poetico sempre più desemantizzato e stereotipo, quale è ora l’opera e l’esempio petrarchesco per i lirici napoletani,   rivestono  ruoli più significativi le figure della ripetizione, accumulazione, elencazione; coerentemente troviamo un’elaborazione ipertrofica  dei singoli momenti e  delle più piccole unità  del codice petrarchesco. Ciò crea, costruisce e chiude quei lirici in  un labirinto pieno solo di verba e non più di res.

Quindi possiamo vedere come quell’iniziale ingenuo sperimentalismo tardo quattrocentesco fosse già il segno di una sofferenza, una ansia dionisiaca che i lirici napoletani del secondo Cinquecento finalmente e compiutamente esprimono, soffrendo però ancora dentro il saldo perimetro dell’apollineo petrarchismo-bembismo.

Una “prigionia perpetua e povertà troppo dura" appare ed è il petrarchismo per i signori  napoletani che con il terzo libro della raccolta giolitina,  “Rime di diversi illustri signori napoletani”, vero e proprio manifesto dei nuovi ardimenti, “si presentarono all’Italia letterata come gruppo non soltanto geograficamente omogeneo, bensì accomunato anche da un’adesione libera e franca al modello petrarchesco, opportunamente temperato da salutari sbandate eclettiche”[5].

Lodovico Paterno la cui poesia è una tra le più quantitativamente presenti all’interno della citata antologia, è il nome la cui opera, già emblematicamente nel titolo[6],  fissa il termine post quem su cui impostare una datazione pur imprecisa per la nascita dell’esperienza manierista.

Lodovico Paterno nacque a Piedimonte d’Alife, vicino Caserta il 12 febbraio 1533 da famiglia di piccola nobiltà; il suo primo maestro fu l’umanista Francesco Filippo, autore di un commento all’Ars poetica oraziana. In seguito studiò legge all’università napoletana e fu discepolo di Simone Porzio ed Ettore Minatolo. Cavaliere per nascita, essendo il padre Giacomo titolato di nobiltà equestre, fu al servizio di vari signori come Don Alfonso de Cardines marchese di Laino e conte di Lacerra. L’esiguità delle notizie biografiche non consente di conoscere molti aspetti della sua vita e della sua attività, l’ultima si ricava da un atto notarile del 1575. Non si conosce il luogo e la data della sua morte.

Noto è invece il nome della donna che ha amato nella vita e in poesia. Lucrezia Montalto moglie del conte Luigi Gaetani d’Aragona, della casa feudataria piedimontese e alla morte di costui di nuovo sposa di Cesare Cavaniglia, conte di Troia e di Montella[7], fu l’amore gelosamente nascosto dal poeta che cantò nei suoi versi con il nome mimetico di Mirzia, dal mirto pianta sacra all’amore[8].

La già ricordata sentenza di Mario degli Andini nella sua prefazione ai lettori del Nuovo Petrarca oltre che testimoniare quel senso di imbarazzo, inadeguatezza che nasceva dall’osservanza rigida, ‘vile’ e alienante della norma petrarchesca, presenta l’opera di Paterno come il nuovo, il nuovo e più libero esercizio d’imitazione del Petrarca. Rivendica per il poeta anche la libertà di creare e introdurre nella sua officina poetica parole non attestate nei Fragmenta chiamando a confortare e sostenere il suo impegno addirittura Pietro Bembo che con tutto il peso della sua autorevolezza legittimava, autorizzava qualsiasi  scelta eterodossa, di originalità: “E in tal caso verrieno ancora a riprendere il padre Bembo, che sparse nelle sue Rime cotante voci pur non usate dal Petrarca”.

E certamente Paterno volle nella sua prassi poetica  e imitativa vivificare, rifondare il petrarchismo, indicando ai contemporanei  un orientamento nuovo che affermava la necessità dell’uso ma tradiva la norma.

Grande è la libertà sperimentale di cui il poeta piedimontese si giova, libertà che però spende, tutta, solo  nel maneggiare, rielaborare,  tutti i moduli tematico-retorici, ma ancora più ossessivamente, quelli linguistico-lessicali ereditati dalla fabrica del mondo petrarchesca,  replicandoli, ripetendoli, strenuamente al punto da esibire la fine delle possibilità espressive e predicative di quel codice. Dalla lettura delle sue opere  ricaviamo  l’immagine di un intero sistema corrotto, esploso dall’interno. Di fatto Paterno nel disperato tentativo di restituire, con la sua riscrittura,  una seducente eco  alla voce del Petrarca finisce viceversa con il dimostrare il silenzio emotivo in cui restavano cristallizzate le sue prove, calembour di parole, immagini ossessivamente richiamate  :  Per illustrarli ricorro a questi  fugaci esempi:

 

 

Occhi, non occhi, anzi due chiare stelle,

non chiare stelle, anzi duo vivo soli,

ove si vede com’Amor involi

e rubi e sforzi or queste voglie, or quelle;

occhi d’eterno foco aspre favelle,

per cui convien ch’altri n’aggia ire e duoli,

occhi, ch’oprate sempre i vanni ai voli

contra mille d’amor alme ribelle;

occhi, al cui sguardo il dì s’abbaglia Apollo,

e la notte Lucina, e da cui prende

del ciel l’uno e l’altro occhio il proprio lume;

voi date, occhi leggiadri, ai miei tal crollo,

voi lor fate cangiar forma e costume:

beati quei che ‘l divin raggio incende[9].

 

 

Dolci nidi d’amore, occhi lucenti,

occhi, che forza fate a tanti cori,

occhi, onde i vaghi e pargoletti amori

oprano duri ghiacci e strali ardenti;

occhi, al cui lume il dì veggionsi spenti

del padre de la luce i bei colori

occhi, di leggiadria colmi e d’errori,

per voi quanti or son lieti, or son dolenti;

voi nel vostro apparire, occhi beati,

occhi sovra ‘l mortal corso sereni,

aprite il cielo allor ch’espro più luce;

voi, voi rompete i marmi più gelati:

de la vostra infinita altera luce;

sono gli spirti miei tutti ripieni[10].

 

 

Se colonne, trofei, tempi, archi e fori,

stagni, terme, acquedotti, are e teatri,

strade, rostri, colossi, anfiteatri,

marmi, palme, trionfi, arme e ostri e ori;

e consuli e tribuni e dittatori

e presidi e proconsoli e gran patri,

e littori con fasci oscuri e atri,

e decemvir e regi e imperatori,

e superbe memorie e spoglie opime

e querce e lauri e di metal più chiaro

mitre, scettri, alte pompe, opre divine,

ha finito con fiamme e dure lime

in cenere e ruina il tempo avaro,

spero ch’anco il mio mal debba aver fine[11].

 

Il Nuovo Petrarca raccoglie 966 componimenti così distribuiti: parte prima In vita di Madonna Mirtia prima sezione: 344 sonetti, 35 madrigali, 15 canzoni, 10 sestina, 4 in ottave; seconda sezione In materie diverse : 157 sonetti, 6 canzoni, 2 madrigali, 1 in ottave ; composizioni in vario metro: Visione della morte, elegie, capitoli, e altro; infine una parte di sonetti dedicati al Paterno. Parte seconda libro primo In morte di Madonna Mirtia: 176 sonetti, 13 canzoni, 7 madrigali, 4 sestine, 1 in ottave; libro secondo:  186 sonetti, 1 sestina, 2 canzoni, 2 madrigali; libro terzo: riscrittura dei Trionfi del Petrarca.

Le Rime in vita e in morte di Mirtia delimitano uno spazio poetico assai grande che si struttura come un canzoniere, un racconto ordinato (in cui testi-chiave si collocano secondo fedeli simmetrie rispetto  al modello di riferimento, e di cui rispettano con poche varianti numerosissimi incipit[12]),  di un itinerarium vitae, di una  vicenda amorosa sospesa tra ardore e  peccato e che si chiude con la convenzionale esibizione della renovatio animae, della fede rinvigorita.

E’ da segnalare tuttavia pure l’apertura ad esperienze eclettiche, che piegano l’osservanza all’esempio petrarchesco,  alla prassi cortigiana, accogliendo componimenti d’occasione e  d’encomio.

Le proporzioni del fenomeno che il Nuovo Petrarca fu già agli occhi dei contemporanei, sono tali da lasciar concludere Quondam che “i testi del Paterno costituiscono una delle più esemplari esperienze del Manierismo e illustrano oggettivamente le proporzioni alienate del comportamento dell’intellettuale manierista, che non possiede più gli strumenti di autocontrollo dei propri mezzi di lavoro […]”[13] .

Ad appena un anno di distanza dalla prima grande opera Paterno pubblica  una nuova raccolta dal titolo ancora ambizioso: le Nuove Fiamme[14]. L’edizione riveduta e corretta del 1568 quella cui faccio riferimento per le citazioni che seguiranno,  si apre con due dediche: la prima  di Lelio Fortunato a Carlo d’Austria, figlio di Filippo  II e principe di Spagna cui raccomanda la nuova fatica del Paterno, una selva di giovenili amori,  e che attesta la fama già raggiunta dal poeta, la cui prima opera il mondo chiama l’Imitazione del Petrarca; la seconda di Lorenzo Vittorino ad Angela Spada de’ Cenami fa riferimento allo scandalo prodotto dall’operazione del Nuovo Petrarca negli ambienti di ortodossia petrarchista e quindi all’impegno del presentatore di proteggere la nuova raccolta dalla calunnia e dall’invidia dei suoi detrattori, di difenderla da’ velenosi morsi di quei che volessero lacerarla.

La raccolta è così articolata: libro primo  Sonetti e Canzoni pastorali: 134 sonetti, 28 madrigali, 21 canzoni, 3 sestine, 1 terzina; libro secondo il Palagio d’Amore in ottave, più 13 composizioni celebrative; libro terzo Elegie 16 composizioni; libro quarto Egloghe: 7 egloghe marittime, 4 amorose, 6 lugubri, 4 illustri, 7 varie; libro quinto Nenie e Tumuli: 7 nenie, 50 tumuli.

A questo corposo materiale lirico si giustappongono,  quasi in appendice, tre sonetti di corrispondenza: Paterno indirizza un sonetto celebrativo delle virtù morali e intellettuali  di  Angela Cenami e  Gherardo Spada, suoi protettori, a Thomaso Thiery, giovane di Lyone, città nella quale, per l’editore Rovillie, pubblicherà la seconda edizione della silloge; al nostro poeta risponde in rima il Thiery; ultimo,  il sonetto di Luigi Valvassori, fratello dell’editore Giovanni Andrea, che vede incoronato di mirto e alloro il capo del poeta piedimontese:

 

 

A M. Thomaso Thieri

 

Thieri; se mai Fortuna aspra e superba

Tregua mi dia pur breve spatio almeno:

ne m’amareggi col suo veneno

Le mie speranze, o le recida in herba,

Tempio farò, che ne per ira acerba

Di ciel, ne di pianeta venga ei meno,

Del Mar Toscano in quel più chiaro seno,

Che de’ maggiori tuoi memoria serba,

dove quanti fur mai d’ingegno altero

ch’ornaron Luce, in ampie lettre d’oro

Vedrai seguiti e poi dipinti i visi

Lì fien Cenami, e Spada quivi assisi;

nel mezo Donna, ch’io cotanto honoro,

Degna d’eternità, degna d’impero[15].

 

 

RISPOSTA

 

Veggio fartisi ognihor vie men superba

Fortuna, e raddolcire il suo veneno

Paterno: ond’è che lunga tregua almeno

Da sua falce sperar può tua verd’herba.

Fa pur il Tempio, e non temer ch’acerba

Ira di ciel mai ne ‘l riduca a meno

Il Paradiso, a quel felice seno

Vicin, commodo luogo ecco si serba

Et s’a quest’occhi fie don troppo altero

Ch’io mirar possa un sì gentil lavoro,

et contemplar la maestà de’ visi

Miei voti alfin vedansi a piedi assisi

Di quella Donna, ch’a ragion adoro;

Poich’ha d’alta virtù supremo impero.

 

DI LUIGI VALVASSORI

 

 

Le vostre belle, e ben cantate rime,

Paterno mio, già sì sparso hanno il suono

Che per lor merto e non per gratia o dono

Procederanno di splendor le prime.

Che mentre Amor in voi tutte sue lime

Opra; e l’ingegno vostro e dotto e bono,

Di voi tra quanti fur, tra quanti hor sono

Par che d’ogni altro più si pregi e stime

D’eterno honor, d’eterna laude degno

Vi veggio andar per un laudato mirto

Cinto lo crin di verdeggiante alloro.

Arno non ti sdegnar, che gusto disegno

Sebeto sia del tuo famoso spirto

Che men di questo io quel non lodo e honoro[16].

 

 

Le Nuove Fiamme articola e dispone le sue rime diversamente da quanto e come lo schema-struttura del canzoniere petrarchesco integrasse le parti nel tutto, modello archetipico cui però si era uniformato  per  la sua prima silloge.

Ciò che già solo ad uno sguardo superficiale sembra negare, contraddire, una strutturazione modellata sui Fragmenta è la compartizione del materiale lirico in libri, la pluralità di generi e temi.

Già poeti di età aragonese esperirono originali soluzioni ai livelli macrostrutturali del canzoniere (Naufragio di Aloisio, Amori Caracciolo): i già citati studi della Corti[17] su alcuni tra i più significativi canzonieri napoletani di tardo Quattrocento avevano   rivelato  una  sì comune ed accentuata tensione verso una struttura solida e chiusa ma allo stesso tempo ha  segnalato un fatto nuovo,   l’inserzione di liriche di genere vario nel più vasto corpus  di argomento amoroso. La presenza di più livelli tematici, da un lato segnala che viene ad essere compromesso anche il modello architettonico dei Fragmenta e dall’altro conferisce una fisionomia particolare a questi nuovi canzonieri, semplici organiche raccolte di rime.

Nell’opera del Paterno spicca imponente la presenza di Egloghe, che distribuite in cinque sezioni formano il quarto libro della raccolta.

L’egloga in sciolti si insinua nella produzione di rime individuali o collettive, si guadagna tra gli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento, un suo spazio, pur modesto[18]. Il codice pastorale è una delle forme privilegiate e di maggiore fortuna  della letteratura cortigiana:  l’ambientazione boschereccia si presta a  un tipo di discorso letterario ricco, in cui materia amorosa, motivi giocosi, encomiastici, politici si intersecano in armonia. Inoltre la figurazione bucolica traveste un ambiente concreto, fitto di personaggi, cose e storie da celebrare o contro le quali inveire.

Il quarto libro delle Nuove Fiamme raccoglie 28 egloghe divise come detto sopra per argomento: Marittime, Amorose, Lugubri, Illustri e Varie. Questo ordine, questa distribuzione viene al Paterno dalle Egloghe muziane,  la raccolta del 1550 che dispone in cinque libri  35 componimenti bucolici: Amorose, Marchesane, Illustri, Lugubri e Varie[19]. Che le egloghe del Muzio siano presenti al Paterno nella composizione della sua raccolta lo vediamo tra le altre cose già in apertura, con il primo sonetto al quale il poeta affida i fondamenti  della sua poetica:

 

 

Quanto Amor possa  in giovenil pensiero,

Leggendo i miei sospiri in queste carte

Saper potrete; e quanto studio e arte

Usi, per trarre altrui dal camin vero.

Dive, ch’in Helicona havete impero,

E ‘l tutto m’insegnate à parte à parte,

Io, per voi sol quand’huom  quinci si parte,

Tornar di novo in vita ancor ne spero.

Ne dé sprezzarsi un boschereccio suono

Che sorge da le selve infra pastori,

Se ben quei piu famosi non adegua:

Poiché à gli Dei, che su nel ciel hor sono,

Piacquer boschi talvolta, ombre, ed orrori.

Ciascun il genio suo conosca, e segua[20].

 

Sono  sicuramente noti al Paterno i versi d’esordio della prima egloga delle Amorose di Muzio, una chiara citazione oltre che di fonti classiche, del Filostrato:

 

 

Segua chi vuole i regni e le ricchezze

L’arme, i cavai, le selve, i can, gli uccelli,

di Pallade gli studi, e le prodezze

di Marte, ch’io in mirar gli occhi belli

della mia donna e le vere bellezze,

il tempo vo per tutto

[…][21],

 

 

Canti chi vuol le sanguinose imprese

Del fiero Marte, et d’honorati allori

Cinto le tempie, al suon di chiara tromba

Desti i bianchi destrier’ ch’in Campidoglio

Han da condor i purpurei triomphi.

A me, cui ‘l ciel non diè sì altero spirto,

Basta parlar tra le fontane e i boschi

De gli honori di Pan  [22]

 

Così come Muzio, il nostro poeta  utilizza il luogo boccacciano per annunciare la materia del suo canto.   Nella sirma v’è  infatti l’ enunciazione di un programma di poesia amorosa che il poeta  declina questa volta con boschereccio suono. Altro fondamentale riferimento per le egloghe paterniane è costituito dalle Egloghe piscatorie di Bernardino Rota che dopo Bernardo Tasso sviluppa in volgare  i temi idillici boscherecci in marittimi, anche se è il Sannazaro, il primo,  a comporre in latino, ispirandosi a modelli classici, egloghe  pescatorie.

Anche la seconda raccolta è un’occasione per il Paterno di ostentare l’uso e il riuso del vasto repertorio di temi e motivi topici petrarcheschi; il lessico, ad esempio,  trova oggettivo riscontro nei materiali dei Fragmenta: lauro, neve, ghiaccio, strale, legno, colpo, pena, sonno, passo.

Numerosissime sono pure le dittologie petrarchesche che occupano sempre l’ultima metà del  verso e si dispongono nel testo a creare  sequenze infinite, elencazioni interminabili ( copulative:  alta e divina, ardita e rea,  fiera e ardita, fallace e vano, unica e sola, altera e santa, aspro e rio, onesta e bella, alma e divina, unica e sola; acopulative: destro ingegno, e tardo,  duro acerbo fato, e inquieto etc.). Come abbiamo già visto per il Nuovo Petrarca, Paterno ancora una volta concentra i propri sforzi creativi, e la sua arguzia  sul momento descrittivo del discorso poetico, tralasciando nodi speculativi e filosofici che Petrarca autorevolmente aveva indagato.

L’imbastitura lirica delle sue rime si distingue per una forte  ridondanza metaforica e una pregnante aggettivazione; la sua poesia vuole  esaurire tutte le possibilità connotative degli aggettivi ancora petrarcheschi: (fiero, lieve, casto, aureo, candido, tardo, frale, altero, degno etc.) inscrivendoli in una struttura labirintica, che sembra protrarsi  all’infinito per un abusato impiego di tutte le figure dell’amplificatio, di ripetizioni, versi plurimembri (che troviamo come semplici inserti nel componimento ma sempre più volte ripetuti, o estesi a tutta la durata del componimento stesso) elencazioni, metafore continuate che rallentano il ritmo del canto e lo stringono in una morsa angosciosa:

 

Chiuse valli, aspri monti, erte pendici,

Famosi boschi, e paventosi orrori,

Pallid’ herbette, e voi novelli fiori,

fatti dal mio bel sol chiari, e felici:

sianvi l’acqua, e la terra, e ‘l ciel amici;

et l’Aura d’ogn’intorno il sen v’infiori,

corran scherzando i lascivetti Amori

per vostri luoghi eternamente aprici.

Ogni gratia fra voi sempre si chiuda

Antri sacri al gran Fauno, antri beati.

Ove con Bindia si congiunse Alcone.

Io mi parto da voi, ma l’alma ignuda

Fra voi rimane, o piagge, o colli, o prati,

chi mi fa forza, oimè , ch’io v’abbandone?[23]

 

 

Alba vegghia, Amor vegghia; e poi quand’ella

Dorme, Amor dorme, e se va mai, se viene,

Amor si resta, Amor se ‘n va con ella,

O ‘l pensier la sospinga, o la raffrene.

Alba tace, Amor tace; e  se favella,

Di favellare Amor non si contiene.

In una cosa son discordi solo:

Amor versa diletto, ed Alba duolo[24].

 

 

Il mio dolor, che dentro l’alma i’ porto,

il mio dolor, che sempre meco alberga,

il mio dolor, che non mi lascia un punto[25].

 

Dolce, e dotto pastor, ch’a gran ragione

Dolce il Tebro ti chiama, e dolce l’Arno,

Dolce il Vulturno, e ‘l picciol mio Sebeto,

Et dolce l’onde, che sì dolcemente

Rotte ne’ liti d’Adria piangon sempre.

[…]

Cosi non fera mai ti turbi, o pioggia,

Cosi non scemin mai tuoi dolci pesci,

Cosi t’accolga lieto il bel Vulturno,

Cosi sempre t’honorin le sue Ninfe.[26]

 

 

Dal dì che nacqui in su quest’alto monte

Di lagrime i bei campi innaffio e solco,

Di lagrime à tutt’huom famose e conte,

Di lagrime parl’io già di Dione[27],

 

Altri monti, altri colli, e altri piani,

altri fiumi, altre fonti, e altre rive[28]

 

 

profonde valli, ombrosi luoghi, e ermi,

che sotto quest’amica, e pura e lieta

aria e felice, e fortunata e dolce[29]

 

 

Ecco ch’un’altra volta, o verdi piagge,

O valli apriche, ô dilettosi monti;

et voi o fiumi, o ruscelletti, o fonti,

Udrete il suon, ch’Amor del mio cor tragge[30].

 

 

 

Quante irato Ocean frange  onde in lito

Quanti color tien Primavera in braccio

Quante spiche Sicilia in grembo aduna,

quanti corron uccelli il ciel sereno,

quanti racemi han di Falerno l’uve,

quanti nel mar albergan pesci erranti,

quante stille calar il verno conta,

quanti splendon la notte eterni segni,

quante guarda Etna fiamme, e Capre arene,

quante preghiere son drizzate a Giove,

quante son le dolci ire d’Amarilli,

quanti mai fur i baci di Catullo,

quanti focosi strali Amor aventa

quante lusinghe fa Licori a Dafni;

Et quanti lutti Alchio ne versa, e Iola,

tant’anni, e tanti lustri, o Palemone,

che stai sepolto in quest’oscuro marmo,

per bocca de’ pastor volando andrai[31].

 

 

 

Luci, luci beate,

luci, luci che date luce al Sole;

luci, c’hor m’agghiacciate, hor m’accendete.

Vive luci, che fate

Le rose, e le viole

Co’ vostri raggi liete.[32]

 

 

Profonde valli, ombrosi luoghi, e ermi,

che sotto quest’amica, e pura, e lieta

aria e felice, e fortunata e dolce[33]

 

 

 

Lunghi danni, e tormenti,

Stratij, affanni, dolor, pene e martiri

Et lagrime et sospiri;

et mille notte e dì gridi e lamenti

Diami Fortuna; e Morte l’arco scocchi

Pur ch’una volta baci que’ begli occhi[34].

 

 

 

 

Licinna mia piu bella, e piu gentile

Di quante n’hebbe il bosco intorno intorno:

Licinna mia, che somigliavi Aprile

Al bel leggiadro portamento adorno.

Licinna mia, che sotto quercia, od orno

Spesso meco cantavi in dolce stile.

Licinna mia, che sempre notte, e  giorno

Versavi nel mio cor foco sottile.

Licinna mia, che sì m’amavi, ahi lasso,

ch’altier me ‘n giva; or doloroso, e triste

lacrimando me’n vò con ciglio basso.

Licinna mia, dal mondo à pena visto

Fu ‘l tuo sol, ch’oscurollo un breve sasso:

misero me, che senza prò m’attristo[35].

 

 

Dirsi Himeneo porransi altari, e tempi :

A te giocheran dolce i nostri lusi,

A te soneran chiaro i nostri versi,

A te faransi i Thiasi sovente,

A te penderan verdi i nostri doni,

A te sotto l’ombrosa amena Loto

Canterani d’amore le fiamme, e i lacci[36].

 

 

Da rilevare anche esempi di rime che sono caratterizzate da  ripetizioni,  processioni di nomi di fiumi in versi dalla forte portata enfatica, (vd. anafora di ecco che dà al testo un tono fortemente declamatorio):

 

Vedi ‘ l vecchio Peneo , vedi Caistro,

Et Meandro, amator de ‘ bianchi cigni.

Eccoti i chiari Simoenta, e Santho,

Che già ne’ Tempi de gli Antichi Argini,

In mar , di sangue human turgidi entraro.

Ecco i duo fonti gloriosi, e magni

Il settemplice Nilo, e’ l binome Istro.

Vedi Acheloo, vedi ‘l beato Eurota,

Che tante volte udì cantar Apollo.

Vedi l’alto Enipeo, vedi ‘ l sonante

Hipani : ecco piu presso e Trebbia, e Varo.

Ecco il cornuto regnator de l’acque,

eccoti ‘ l Pado : or mir a, com ‘ei nasce

Humile, e come poi di tutti gli altri

Piu violento in mar china la testa.

Ecco il bel Padovan Meduaco ; e’ l Mincio

Vedi, che move col Benaco à paro,

Famosi per Maron, e per Catullo,

Ecco Oaxe, ecco Uscente , ecco Timavo,

Ecco Arno honor de Toschi , ecco Ticino,

Lambro, Silari, Liri, Aufido, e Sarno;

Linterno Solitario ; e Origeo

In là vedi : ecco ‘ l Tigre , il qual s’en vola

Velocissimo quasi una saetta.

Ecco Adige, Ollio, e Abdua[37]

 

 

Altro segno delle torsioni stilistiche, e degli usi estremi di talune esercitazioni virtuosistiche sono alcuni componimenti che  mantengono alternate in rima per tutta la durata le stesse parole:

 

 

Se da vita volar potess’io à morte,

et con morte cangiar quest’aspra vita;

vera morte non fora hor la mia vita,

ch’in vita mi sostien per doppia morte.

Oh, se mia vita andasse in grembo à morte,

non di morte harei tinta hoggi mia vita;

ma morte acquisterebbe,e polso, e vita,

vita, in cui perde ogni ragion poi morte.

Che non t’appressi à dolce morte o vita,

s’haver vita non puoi qui senza morte,

et se morte non fassi altro che vita?

Ma tu vita felice, altera morte,

che morte hai nome, e sei pur viva vita,

porgi à la vita mia sì chiara morte[38].

 

 

Chi vuol veder l’eterna mia gran luce

Volger Natura co’ begli occhi, e ‘l tempo,

Forz’è che si trasforme in dura pietra:

perchè da sì possente altera luce

prende vigor, e qualitate il tempo

et liquida si fa ciascuna pietra.

Non è ferro qua giù, ne legno, o pietra,

che privi sian di quella ardente luce.

Et benchè ‘l tutto freni, e cangi ‘l tempo;

et che l’un l’altro al fin divori ‘l tempo;

resta pur, come fu, l’alta mia luce

dal giorno che discese entr’una pietra.

Viva mia dolce aventurosa pietra,

che sei diversa da qualunque pietra,

che forma tenga in sé, possanza, o luce:

se non ch’è spenta la più bella luce

forse teco sarei tosto, e à tempo

che non  mi fesse oltraggio, e scorno il tempo.

Fammisi dura ognihor di tempo in tempo

La mia soave, e fuggitiva pietra:

o corso pigro, e lento, ô bianco tempo

non far, che perda la mia bianca pietra

de la sua vera inaccessibil luce,

ch’al cielo, e à l’inferno ancor dà luce.

E tu prima di tutte altera luce,

che giri ‘l passo, come gira il tempo,

Alma cortese, e sempiterna luce

Porta à la nobil mia famosa pietra

Del piu verace ardor di quella pietra,

cui leder non puo piu fortuna, o tempo.

Sgombra le nebbie hoami tardi, o per tempo

Co’ caldi rai de la temperata luce

O soave mio peso, ô fiera pietra,

che vinci, e domi, e premi, e rompi ‘l tempo:

ed à la fronte pon tua santa pietra

del portator de la diurna luce.

Amorosa, gentil, fervida luce,

che dai le leggi à la stagione, al tempo,

ma non à la mia pianta, à la mia pietra:

Vaga, celeste, e trasparente luce

Doppia la tua virtù, cangiando il tempo,

che riparo non hai di muro, o pietra.

Altr’io non son che ferma ignuda pietra

Con poca fiamma, e imperfetta luce

Che guasta, e toglie à poco à poco il tempo.

O se venisse mai quel dolce tempo

Ch’à le tenebre mie portò la luce,

non sarei voce che se oimè di pietra.

Tu sol Idolo mio, tu se’ la pietra,

che mi converte, e mi risolve in pietra.

Sol tu speranza mia sei l’alta luce,

ch’aggiunge luce à la mia nova luce:

Sol tu se’ vita mia l’antico tempo,

che condor mi potrebbe un più bel tempo.

O misura del moto, ô giusto tempo,

che mi mostrasti sì leggiadra pietra;

tempo che non potrà mai luogo o tempo

por sott’ombra d’oblio, por sotto pietra

vien pur con l’immortal tua somma luce,

di cui non è piu chiara, e vaga luce.

Se nel mondo ancor vive ombra di luce

Solamente per gratia hoggi del tempo,

spero ch’apparirà tosto alma luce

sovra sì sacra mia morbida pietra.

Perchè nel cerchio de l’angusta pietra

Scolpito stassi in forma d’huomo il tempo.

O genitor del vero, ô forte tempo,

Notte à le notti nostre, e pura luce,

che guardi ogni sottil arida pietra,

o lieve qual baleno, instabil tempo

rinfresca il tuo valor dentro la pietra,

che piu de’ figli di Latona ha luce.

O luce, onde si fa tregua col tempo,

sforza la pietra con l’interna luce;

et fermi ‘l tempo una volubil pietra[39].

 

 

 

Deh, quando sarà mai quel giorno ô Dafne,

che non seguirai piu l’orme di Dafni?

S’ancor ti sprezza il giovenetto Dafni,

hier finì de l’altr’anno un mese, ô Dafne,

ch’ad ognihor hai pregato il tuo bel Dafni;

ne ti vuo’ raveder che t’odia Dafni,

tanto in un grave error t’induri ô Dafne.

Cio volgea fra se stessa; e ecco Dafni

Le sovragiunse da man destra, e, ô Dafne

Eterno, disse, amico ti fie Dafni.

In vece di risposta corse Dafne,

come folgor ardente à baciar Dafni;

ma ratto egli sparì beffardo Dafne[40]

 

 

Questa struttura di rime bloccate è significativa ed esemplare  per quello che l’ artificio ha il potere di evocare: creare l’illusione di protrarre all’infinito, sino all’estenuazione un gioco, una prova intellettualistica.  Ma queste due, tre, quattro parole sempre ripetute è segno storico di una poesia che si fissa, immobile,  incapace di rinnovarsi da sé e fuori da sé.  Troviamo poi altri artifici:  parole ripetute in implicit ed explicit di verso:

 

 

[…] ; or in eterno resta,

resta in eterno: e le parole estreme

scrivi Tirino sovra ‘l freddo marmo

Dafni honor de le selve, eternamente

Rimanti ‘n pace, eternamente dormi[41].

 

 

O bella senza pare,

bella, e forse piu bella[42]

 

 

Ch’io vi vagheggi, ô lumi,

Lumi, che doppio lume al dì giungete[43]

 

 

 

Percorrendo alcuni luoghi dell’opera paterniana scopriamo che il poeta infittisce anche la trama di rinvii ad auctores della tradizione lirica toscana quattrocentesca il che incrina l’osservanza fedele dei dogmi  petrarchistici e bembistici e un ulteriore segno di infrazione: la sua posizione sulla questione dell’imitazione è chiara; Paterno propende per un atteggiamento più franco,  eclettico, che vuole beneficiare dei frutti dei più rari ingegni: nell’invenzione bisogna imitare le api che traggono da fiori diversi il nettare migliore per il loro miele:

 

 

 

Come di molte herbette errando gusta

Ape di fior in fior il dolce succo;

et come suol a’ cari figliuolini

sceglier col becco i più spezzati stecchi

uccello al tronco, onde poi faccia il nido.

Cos’io cogliendo i fiori, e le parole

Scelte de’ rari ingegni, à le tue lode

Andai gran tempo consecrando un mirto

In faggi, olmi, elci, abeti, olive, e querce,

ma nulla ciò, da poich’à tal è fatto

dura, e ingrata, in cui pietà non regna,

ma ‘n vece di pietà disdegno e ira[44].

 

 

Le Nuove Fiamme sono anche un campionario di immagini che riaddensano immagini petrarchesche, con abile strategia d’intarsio sovrapposte  a quelle di diverse matrice.

Il sentimento amoroso è vissuto e indagato in tutti i suoi aspetti, da quello malinconico e drammaticamente patito,  a quello lieto, dispensatore di grazia e letizia. Il  suo cuore è sospeso tra pace e tormento, prigioniero di contraddizioni, al servizio di una donna “[…] in cui combatte / bellezza e crudeltà”: topica la fenomenologia dei sintomi della malattia amorosa: il poeta si sente ardere e agghiacciare, trasformare il riso in pianto e le lacrime in gioia.

L’epifania della donna amata accende  tutti i segni dell’amore platonico: nei  suoi occhi alberga il paradiso, è il sole che scalda e illumina, la sua virtù innamora il cielo, è una nova angioletta qui dal ciel discesa[45]. La descriptio personae della donna è pure convenzionale,vi sono tutti i senhal cari alla Tradizione che il nome dell’amata deve evocare:

 

 

Mirtia, Mirtia gentil, che di bianchezza

I gigli avanzi, e i candidi ligustri,

piu splendente che ‘l vetro, e piu lasciva

ch’e cavretti e piu nobile ch’e pomi,

piu che l’uve mature e dolce e grata,

piu grata e dolce assai che l’estiv’ombre;

mai piu dura che ferro, e piu fallace

ch’onda marina, e piu salda che scoglio;

aspra piu che le spine, e piu crudele

che l’Hidra offesa, e più lieve che ‘l vento[46]

 

Tra i tanti, è significativo un esempio che palesa da un lato l’ormai noto procedere del Paterno per ripetizioni meccaniche e dall’altro è la testimonianza degli abbondanti prelievi dalla vicenda amorosa petrarchesca, ma anche tangenze con la poesia di nuovi autori:[47]

 

 

Vedean colei, che di gran lunga vinse

Le sette, e quante ha meraviglie il mondo.

Arder i monti, arder i pini allora

Pareanle inanzi, o mia gioconda pena,

tu viva ti partisti, io restai morto.

Morto resto al piacer, vivo al tormento;

et mercè chieggio, e nulla voce intendo

et non vorrei voler quel che pur voglio

sì de voler, e non voler mi sforso;

et seme al vento spargo, arena al lido,

et mi vorrei lagnar, né so di cui[48].

 

Lo stesso avviene nell’elegia al Pagano, in cui Paterno cita un noto verso del Poliziano ma non dimentica di mescolare l’immagine creata a una memoria  petrarchesca: [49]

 

 

Voi, ch’aspirate à gloriosa fama

Caro PAGANO mio fuggite Amore,

Ch’in un medesimo punto ama, e disama

Et di più bel desio pascete il core[50].

 

 

 

In particolare nella II delle Egloghe Lugubri Paterno piange la morte della donna di cui può finalmente svelare il nome e la avvolge in un’aura mistica, la sua prematura morte che crudele e acerba la toglie al mondo prima che l’oro dei suoi capelli si mutasse in argento,  spegne il canto degli uccelli, e ferma le onde del mare, veste a lutto la Natura e il mondo[51]:

 

 

 

 

A M. LODOVICO DOLCE, PER LA MORTE DI DONNA LUCRETIA GAIETANA D’ARAGONIA

 

 

LIDIO ET AMINTA

 

Là, dove da diverse occulte bocche

Escon i puri, e liquidi cristalli

Del tuo pianger, Toran di Cila figlio;

là, dove parti imperioso i campi,

che con liquido piè risolchi, e bagni:

Stesi sovra’l bel prato i duo rivali

Lidio pastor, e ‘l giovenettoAminta

Guardian de’ tori; alhor che ‘l piu levato

Giro tenea del ciel l’humida notte,

tutto fean risonar il vicin monte

de’ lunghi stridi, e de l’amato nome

de la bella poc’anzi estinta Filli:

Filli, di cui più vaga, e più  leggiadra

Ninfa non nacque mai fra quanto s’erge

Distende, e mostra il Re de’ nostri monti,

l’alto Matese, à cui gelate nevi;

ancor, quando in Leone il sol alberga;

copron il mento, e la canuta testa.

I cui dogliosi accenti à mille fere

Rupper il sonno; a le cui meste note

Uscir i pesci per pietà de l’acque,

et per pietà nel suo muscoso fondo

ritenne il picciol fiume il suono, il passo.

Dolce, e dotto pastor, ch’a gran ragione

Dolce il Tebro ti chiama, e  dolce l’Arno,

Dolce il Vulturno, e ‘l picciol mio Sebeto:

et dolce l’onde, che sì dolcemente

rotte ne’ liti d’Adria piangon sempre.

Tu, cui s’inchinan l’honorate fronti

De’ bifolci più saggi, e de’ pastori,

che lungo il Mincio, l’Adige, il Tesino,

il Metauro, la Brenta, e ‘l Re de’ fiumi

o di Latio, o d’Arcadia, o de gl’Insubri

ne gli alti monti, i lor candidi armenti

pascon cantando, o le minute gregge.

Tu Tosco Apollo, e novo Palemone,

che del nostro idioma altero mostro

a tutt’Italia dai le scritte leggi;

non sdegnar queste  note umili, e roze

de’ duo miseri amanti, se mai calda

fiamma d’Amor t’accese il gentil petto,

come più volte ne le scorze impresso

de’ faggi, e pini, habbian veduto, e letto

deh, cortese pastore, se mai pietate

di caso human ti punse, fa talvolta

di qualche tuo sospir s’honori Filli;

et porgi intente orecchie al mesto canto

de le meste parole, ch’alternando

cominciò Lidio, e poi riprese Aminta.

L. adunque Morte hà morta l’aurea Filli

La vaga Filli, l’amorosa  Filli?

Adunque insieme hà morto Lidio, e Aminta

Morte importuna, insidiosa e rea,

empia, crudel, acerba, invida, e dura?

Adunqu’è spenta ogni benigna luce

A questi horridi monti? Adunque andrete

Oreade incolpando il fiero strale?

Ma io, come vivrò senza te Filli,

senza te, ch’eri in me, qual è  nel manto

corporeo l’alma, o ne l’herbetta il succo.

Cento Ninfe di valli, e altre cento

Ninfe di fiumi, e fonti, à suoi bei crini

Tessevano ogni dì verdi ghirlande.

Quanto di Filli, oimè, contar potrei,

ma tecerommi: e sol dirò, che lieti

balli un giorno guidando ella con Flora;

alhor intessev’io fragole, e fiori;

stancossi al fin, e ‘l braccio ignudo pose

sovra ‘l margin sanguigno d’un bel fonte:

et ecco uscì del fior, che, come intendo

il nome ha di Narciso, un flebil suono:

Ah bellissima Ninfa non specchiarti

Ne le pure, e fredd’onde, esempio prendi

Del mio gran caso; e qui si tacque: io poscia

Scrissi quelle parole in una scorza

Di crespo buffo, hoggi è l’ottavo mese.

Come dunque potesti, o cruda Morte,

quel bel volto di neve, e rose misto

tingere di color pallido, e smorto?

Seguite il tristo, e lacrimoso canto

humili, boschereccie, inculte Muse.

A.     A Filli bella, piu che fior d’Aliso,

Acanto rugiadoso, o pur viola,

che cade giu dal grembo de l’Aurora,

Hor s’è fatto anzi vespro eterna sera?

Filli, quand’accordavi i dotti accenti

Col cantar de gli augelli, al suon de l’onde,

non credev’io, che cosa mai potesse

lungo poner silentio a cosi grata,

dolce, soave, angelic’armonia.

Filli, or tu che co’ piè sempre facesti

Calcando crescer l’herbe, or tu sei morta

Pria c’havessi d’argento i capei biondi?

Or tu morta ti sei? Tu, per cui l’alta

Madre d’Amor havea non sol di Pafo

Lasciato que’ giocondi aurati tempi,

e tanti odor là d’Arabi, e Sabei;

ma ‘l suo celeste, e amoroso giro,

col cibo, che lassù dà sì buon gusto.

Et per quest’alti monti, ancor ch’alpestri,

et per quest’ime valli, à te pria care:

ne sdegnavano i suoi candidi Cigni

i fiumi nostri , per gli antichi vada

di Meandro, di Mincio, o di Castro.

Il pargoletto figlio non curava

Più di volar in questa parte, e ‘n quella:

anzi ne’ soli tuoi lucenti assiso

ne l’ambro terso, e ne l’hebano raro,

ne l’oro fin, nel molle avorio e puro,

indi reti, arco, e faci ogni hor prendeva,

indi preda facea di tanti cori.

Fermate i puri, e liquidi cristalli

Onde, ch’udite le dolenti note.

L. Ma tu, che dal Sol prendi il tuo splendore,

alma beata Luna, indietro tira

le torte, e ricche tue gelate corna;

et, se del bel pastor memoria serbi,

nascondi ‘l viso tuo, che sgombra e scaccia

la tetra ombra notturna, hor c’ha già Filli

chiuso l’ultimo giorno, e noi lasciato

in pene, in pianti, in tenebre, e affanni.

Deh, fa, che questa nebbia di sospiri

S’opponga al vago tuo, Diva triforme,

come tu spesse volte à quel t’opponi,

da cui ricevi i rai bianchi, e lucenti:

poi che Filli non spira hoggi fra noi,

Filli, il pregio maggior di queste selve.

Quante volte mi disse il vecchio Alcone:

quando ‘l bel parto giù nel mondo scese

fiorir tutte le piagge, e ‘ntanto udissi

d’ogn’intorno cantar cigno, e fenice.

Lo ciel era sereno, e l’aria pura,

l’onde tranquille, e di color d’argento,

sol tra le frondi mormorava l’Aura.

Lucina santa non pregata venne

Insieme con le Gratie, e con gli Amori.

Hor tu vuo’ de’ suoi dì l’aspra, e acerba

Notte, Luna illustrar; ne ben t’accorgi

Che ‘l ciel, la terra, e ‘l mar doglia ne sente.

Ecco, ch’i duri, freddi, hispidi sassi

Sospiran Filli; e poi tre volte, e quattro

Odi le grotte, e le riposte valli

Tornar il sospirato nome adietro.

Seguite il tristo, e lagrimoso canto

Humili boschereccie, inculte Muse.

A.     deh santa Notte non bagnar sì tosto

nel mar gli oscuri crini; e fa ch’io possa

nel mezo de’ tuoi mesti, ed atri orrori

ferir le stelle co’ piu lunghi gridi.

Deh non celarti al bel nostro hemispero

Si tosto, e non calar verso l’occaso

Dal chiuso Olimpo, e gir contra ‘l mattino.

Ne far, che l’humid’ombra inanzi à l’alba

Fugga, che col suo vecchio egro Titone

Di partir parla, e quel geloso vecchio

Stretta la tiene, e la lusinga, e bacia;

Accio ch’en te sepolto, i miei lamenti

Col fosco appaghi sol de le tue piume:

et possa, come suol già Filomena,

dolermi sotto ‘l tuo manto stellato,

finch’io sia stanco; e poscia una,  e un’altra

volta rinfreschi ‘l miserabil verso:

et stiansi meco à udir pietosi gli antri,

i secchi poggi, le pendici, e i colli

Filli chiamando, e lagrimando Filli.

Tu, che per la fugace ingrata Ircilla

Infelice Toran molto piangesti,

meco accompagna il mormorar de’ rivi,

et segna un tanto duol su per le pietre.

Cosi non fera mai ti turbi, o pioggia,

cosi non scemin mai tuoi dolci pesci,

cosi t’accolga lieto il bel Vulturno,

cosi sempre t’honorin le sue Ninfe

Dinamene, e Melantho, e Persa, e Brio;

et piu quella, ch’adori, Galatea.

Fermate i puri, e liquidi cristalli

Onde, ch’udite le dolenti note.

L. Luna, tu che talhor ti mostri in cielo,

talhor ti giaci altrove, e parti ‘l tempo

Hor ne gioghi di Cinto infra le Ninfe,

Hor ne l’Inferno tra le Stigie larve.

Luna, che tien di mill’ardenti lumi

Il crin ornato, e da la sfera appari

Tonda, e cornuta; e hor col bianco aspetto

Fai, non habbia la notte invidia al giorno.

Hor col tremulo lume aprendo alquanto

Il fosco velo, al pastor l’occhio volgi

Su ‘l grato monte, over tacita miri

L’opere, e i dolci furti de gli amanti:

se non sei emn gentil che bella in volto.

O Reina bicorne de le stelle,

di folta nube il tuo sereno adombra,

poich’io poc’anzi de la morta Filli

Piangendo assai, lungo dolor accolsi

Nel petto, e rinforzai parlando il fiato,

et richiamando il fuggitivo spirto;

il qual varcata l’acqua, ove si lascia

ogni terrena cosa, è giunto à verdi

mirti de’ boschi fortunati, e santi,

ove cred’io, ch’errando lieto goda

con le placide Ninfe, e co’ piè calchi

i non altrove mai piu visti colli,

i non mai piu tonduti, e verdi prati,

le non tocche mai  piu chiare fontane;

e ‘n tutto hà schifo gloriosa e pura,

la passata memoria d’ mortali.

Seguite il tristo, e lagrimoso canto

Humili, boschereccie, inculte Muse.

A.     Notte, ch’involvi nel tuo gran oblio

I durissimi affanni, che ‘l dì porge:

et sotto l’ale à noi mortali adduci

da le cimmerie grotte i varij sogni,

i varij volti, alhor ch’arde ogni stella,

finche ritorni la diurna lampa;

e ‘l mondo tutto co’ suoi raggi illustri.

Notte pittura à lo stellato cerchio,

sì da papaver habbi, o notte, adorne

le negre tempie, ne date si svella

il sonno mai per duol crudo, e acerbo;

contendi al gran pianeta d’Oriente

i pasciuti destrier, con la tua fronte;

et rendi ‘l guidardon à questa donna

di mille altar eretti  al tuo bel nume

Odi Telesa, e la sorella Alifa,

l’antiche madri di cotanti heroi

piangerla dottamente in suon , che puote

mover anco à pietate un cor di Tigre:

et con lor odi la meschina Eutirte,

cosi lagnarsi in angoscioso stile.

Sirio vibrando i velenosi fuoghi

Occide erbetta, ch’arbore non copre,

pur suol tornar di novo in miglior vita

a lo scender da l’aria il molle Giove :

ma noi partiti non torniam piu mai.

Ah, che pensar non posso, che nostr’alme

Fornito il lungo cerchio di tant’anni

Riedan da poi ne la primiera imago.

Fermate i puri, e liquidi cristalli

Onde ch’udite le dolenti note.

L. qual vago fior in mezo aprica valle,

cui rugiadosa, o sottil pioggia ingombra;

quando s’allegra di mirar sua figlia

Giove e i felici Zefiri escon  fuora,

riluce, e mostra la natia vaghezza;

tal di Filli per gli occhi eran piu chiare

quest’acque assai che quelle d’Arethusa.

E i nostri armenti qui piu grassi, e lieti

Che quanti ne nutrisce il buon Galeso.

Ma da la tempestosa atra procella

De l’importune Parche svelto, e guasto,

son seco ancor i monti e seco i piani

spogliati d’ogni honor, fior, foglie, e frutti.

Ne si convien piu mai s’orni, e rivesta

La selva de le chiome anzi perdute:

ma sol mortifer’ombra intorno à poggi

piu de la notte fosca ognihor si mostri.

Ne si convien piu s’oda in verde ramo

Uccel giamai cantar soavemente:

ma con lai dolorosi in secco  tronco

sol faccia di tal danno intera fede.

Seguite il tristo, e lagrimoso canto

Humili, boschereccie, inculte Muse.

A.     poscia ch’à tutt’i piu vicini siti,

Sarà di Filli conta l’aspra sorte,

l’antica Enaria, che del fier Tifeo

eternamente il capo, e i piedi afferra:

etna, sotto cui plora in varie tempre

encelado, per duol sospiri accesi

di foco manderai fin a le nubi.

Sebeto frangerà l’amata conca,

et uscirà da’ conturbati vetri

piena di muso la dogliosa faccia;

et continuo dolor à le querele

farà poi con Vedevo, e con l’antica

Sì celebrata, e veneranda Cuma;

et con le due grand’ombre de’ Maroni,

ne di Muse lontani, ne di tombe;

l’un’è, che nacque à Manto in grembo, e l’altra

d’Attio, c’honora la Sirena, e quanto

cinge l’horrido sasso, e bagna il mare,

et si vedrà Pomona in manto bruno,

Pallida, e mesta l’amorose guancie,

troncar per doglia le piu ricche piante.

Fermate i puri, e liquidi cristalli

Onde, ch’udite le dolenti note.

L. Ecco, che ‘l largo pianto, oime, piu sorge,

ne sprono la ragion, ne freno i sensi,

et grido, e ‘l grido mio nulla rileva.

Alma ben nata, che dal mondo tolta

Nel piu sereno ciel lume sei certo

Vivo, e ‘nfiammato del divin tuo foco:

Ivi ti godi un giorno sempiterno,

che ne nube atra mai, ne nebbia il vela.

Lasso, che questa vita inferma, e corta

Non si scovre altro al fin che fumo, e sogno.

Beatissima te, che Morte ancise,

per poi destarti inanzi al tuo Fattore,

di celesti, e bei lumi ornata, e ricca.

Deh, cosi lo mio stile altrui più caro

Fosse, com’io di te canterei tanto

Che potrei veramente alzarmi à volo

Dov’huom per se giamai solo non salse.

Lasciate il tristo, e lagrimoso canto

Humili, boschereccie inculte Muse.

A.     Hor che sei fuor d’esti terreni inganni,

et lunge ancor da’ laghi Averni, e Stigi

Hor che repente sei volata à Dio

Alma, più ch’altra mai santa, e gentile

Gradisci ‘l suon di tante sparse voci,

s’en cielo haver di noi pietà ti lece.

Ma che pietà? Se mai sempre tien gli occhi

Ne la pietà, com’aquila nel sole.

Pastori ornate la felice tomba

D’herbe fiorite, e Echo arabo odore

Sovra, e d’intorno à la fredd’urna spira.

Prendi la cetra, che ‘n quel faggio pende,

altissimo poeta; con cui dolce

cantò Titiro; a te si convien solo

con lei dolce cantar l’estinta Filli,

anzi la viva, e fortunata Filli.

Sciogliete i puri, e liquidi cristalli

Onde, ch’udite le dolenti note.

 

Anche in Paterno la donna ha il potere divino di vivificare la Natura, portare vita, far crescere l’erba e i fiori, allontanare dal mondo il male e con ciò rivela un’altra importante sua fonte, Sannazaro, il cui magistero si sovrappone al petrarchismo egemone[52] :

 

Felice l’herba, e fortunato il lasso

Tocchi dal piè di lei, ma in tristi accenti,

Lasso me, convien hor ch’ i mi consume[53]

 

 

E ‘ncomincio: Hor son diece

Dì, che qui stanza fece

Ninfa, ch’à me vien molle, altrui s’impietra,

Eccoti pur che l’herba

Vestigi ancor ne serba.

Deh, per dio, non si vide

Fiorir quel secco tronco

Al subito apparir de gli occhi suoi?

Ogni cosa hoggi ride

Per lei; colui fu gionco,

Ella ‘l disse, sei si fè pin dapoi.

Ne verno fie gli annoi,

Ne state il piede, o ‘l crine.

Già si sa che quest’onde

Eran pria tetre immonde,

Et si cangiar, com’hor sono, in divine:

L’impuro via si tolse

Perch’essa così volse[54].

Nigella co’ begli occhi, e col bel riso

Move qualhor ei vuol ogni elemento:

et apre in terra il vero Paradiso [55]

 

Topico è pure il motivo della incostanza e freddezza della Luna, instabil Dea[56]:

 

Da l’altro canto Endimion si vede

Desto; e di rabbia par ch’avampi e d’ira

Contra l’instabil Dea, poi che destollo

Dal sonno la dolcissima Alithia.

E fu cosi dal saggio mastro impresso,

Che par che dica disdegnoso e fiero

Con la testa, avara,

Perfida avara Luna; ne so dire,

S’avara più, se perfida più sei.

O in eterno, e infinitamente

Senza fe’ senz’amor; o piu nel petto

Instabil, che nel volto; adunque, adunque

Hai potuto ingannar Endimione, e l’occhio

Mio fu gia testimon de la tua fede[57].

 

 

 

Ma tu, benche mi nieghi, avara Luna,

Il si pregato raggio; e poco sei

Benigna e liberale à ‘ voti miei[58]

 

 

 

Numerosi i testi d’occasione e di  encomio che rispondono a necessità che poneva lo statuto cortigiano: le lodi per Cosimo de’ Medici ed Eleonora di Toledo e Filippo II e Maria Regina d’Inghilterra sono il convenzionale omaggio alla coppia felice;  la seconda delle due parti di cui si compone il Palagio d’Amore è per il signore al cui servizio il giovane poeta fu lunghi anni, il marchese don Alfonso de Cardines, huom sì cortese, e giusto, e saggio, et santo :

 

 

Voi mi foste Signor, voi mi sarete

Segno, ver cui da sempre hò stender l’ale.

Con voi sper’io varcar l’acque di Lethe

Per glorioso farmi, e immortale[59].

 

 

Ancora più numerose sono le occasioni per celebrare nomi e opere  di poeti: da  Ascanio Pignatello a Marco Cavallo, Giorgio Gradenigo, Gaspare Toralto, il petrarchista Simone Valguarnera, il filosofo Vittorio Tarentino etc..  Paradigmatico è il caso offerto dalla prima parte del già citato  Palagio d’amore: è una processione di tutti i protagonisti della lirica napoletana  cinquecentesca, una galleria di tutti i nomi cari al poeta:

 

D’alto sangue real, di somm’ altezza

Qui Maria d’Aragona, e d’honestate

Sorgea la prima, e di maggior bellezza

Fra quante mai ne fur in altra etate :

De duo, che di tenerla hebber vaghezza

Sovra le spalle à tanto incarconate,

I nomi eran descritti in Larga nota ,

Pria Ferrante Carafa, e po sia il Rota.

 

Giovanna d’Aragona era da presso,

tempio d’ogni virtu sacro, e intero;

a questa rari doni ha ‘l ciel  concesso

Donna immortal, dignissima d’impero.

A costei in Maron  fu già promesso

Dal primo dì che nacque, e un Homero;

de’ quai potean vedersi i nomi belli,

Angelo di Costanzo, e’ l suo Ruscelli.

 

Gieronima Colonna era la terza,

D’Ascanio degna figlia, ; e dopo questa

Quella seguia, che da mattino à terza,

A nona, à vespro i chiari ingegni desta,

d’Aragona Isabella ; e seco scherza

Amor, ne Gratia alcuna à dietro resta.

Minturno, e Tasso eran de l’una carchi ;

Et de l’altra il Tansillo, e’ l dotto Varchi.

 

 

Ecco Leonora poi Sanseverina,

O chi verrà, che que’ begli occhi à pieno

Possa lodar ; ove suoi strali affina

Amor, per impiagare a mille il seno.

Di costei canta Laura Terracina,

Et pon cantando à laura, à l’onda il freno :

E un Caracciol con lei, spirto divino

Giulio Cesar, cui tanto honoro e’ nchino.

 

Non men degna, e men bella un’altra appare,

Mostra lo scritto fuor Giulia Gonzaga;

di cui le glorie son famose e chiare

per quanto il ciel si stende, il mar s’allaga.

I duo, che dottamente à noi cantare

Volser del lume, ch’ogni sdegno appaga,

Leggansi in un sol verso a pare a paro

Francesco Maria Molza, Annibal caro.

 

Nata di quel medesmo sangue ancora,

et d’honesta vaghezza non minore,

Hippolita apparea, ch’i campi infiora

Con gli occhi, dentr’ à quai fa nido Amore :

Ne de gli homeri d’uno, o due s’honora,

Ma da molti s’alzava il suo valore :

Da molti dico, à l’età nostra antichi.,

Amalthei, Capilupi, e Gradinichi.

 

Appresso lei sorgea la nobil Donna,

Ricco soggetto à piu famoso ingegno,

Laura Carrafa, ch’in leggiadra gonna

Poggiava di beltate al vero segno.

I duo, che le facean salda colonna

Ogni men bel pensier avendo à sdegno.

Col mio tenean conformi i propri nomi,

et Dominichi, e Dolce i suoi cognomi.

 

Ma, dov’io lascio una, che titol vero

Di bellezza, e bontà supremo haveva,

Rendendo più superbo il patrio Ibero;

Anna Maria del sangue de la Cueva :

La qual in vedovil habito nero,

chi ‘l crederia ? piu bei color teneva.

Eran quei duo d’alzarla al ciel sì buoni

Aldo Manutio, Anton Fratesco Doni.

 

Sculto leggeasi ancor l’altero nome

Su’l lembo di Zenobia Pignatella :

et di quell’altra, c’havea guancie, e chiome

tai, che celeste cosa er’à vedella.

Degli Afflitti; Lucretia e l’alte some

D’ambedue sostenea solo il mio Stella,

Stella, che’ l mar acqueta al maggior verno,

Et paradiso fa d’oscuro inferno.

 

 

Quivi Anna di Toledo in tal sembiante

Stava, qual alma suole inanzi à Dio.

Convien che di costei per tutto cante

Chi di non mai morir viene in desio.

Gli alti nomi di quei, che disser tante

Cose di lei, lungo l’Aonio Rio,

Vedeansi in note d’archi, e di teatri,

Marchese di Laina, & Duca d’Atri,

 

 

Ne l’altra ; o per che tanto ardisco, e voglio

Stringer chiara eccellenza in fosche rime ?

Con men dura fatica, in duro scoglio

Gnidia con debil piombo ancor s’imprime :

Vedeasi scritto, E’ Martia Bentivoglio.

Che per un che ne scrisse è fra le rime,

per un, che tanto il secol nostro honora

Adriano Guglielmo Spatafora.

 

Di quelle due Vittorie, che si stanno

Cosi propinque, d’or l’intaglio dice :

E’ Vittoria Colonna, ch’alto inganno

A la morte farà, sola Fenice ;

E’ Vittoria Capana, à cui far danno

Grave, non potrà mai tempo infelice :

Et è ben dritto, poi c’han guancie e chiome

Di beltà pari, habbian di pari il nome.

 

I primi duo, c’han cosi caldi i petti

La sua portar da l’uno à l’altro polo,

Terminij ambe duo sono in voce detti ;

Ne questo senza quello è gia  mai solo.

I duo secondi, ch’ i medesimi effetti

Speran de l’altra (o glorioso volo )

Duo Gianuincenzi son, l’una Bel prato ;

L’altro Vigliera, anch’ei da Febo amato.

 

Di sembiante real seguia la santa,

cangiato il proprio nome in Amarilli :

Vince costei quante aver mai si vanta

Il bosco, si leggeva, e Nisa, e Filli.

Che de begli occhi, con che l’alme incanta,

Par che novello solesca, e sfavilli.

Cosi di chi l’ergea di terra in alto

Dicea l’intaglio, E’ Don Gaspar Toralto.

 

Ecco qui le tre Gratie, ecco le belle

Di Marcellon Caracciolo alme figlie,

che ‘ l modo insomma aggiunge à lato à quelle

famosissime sue gran meraviglie.

Ma con le due, qual Hespro infra le stelle,

Parea Vittoria ; o madri di famiglie

Alte, hoggi i vostri appoggi, è ben ragione,

che Sansovino sien, Franco, e Serone.

 

 

L’ultima havea su ’l risplendente lembo,

invece del suo nome, cosi scritto :

Questa era degna, che di lei sol Bembo

Havesse, o d’altra men, cantato e ditto.

Il nome ancor di chi piegato il grembo

Havea, per torla sovra’ l lato dritto,

era occulto ; ne so per qual rispetto

Restasse il bel lavor monco, e imperfetto.

 

 

Vagava io con la vista d’ogni intorno

Per far prova se mai visti gli havessi

E a le mani hora, e hora al viso torno

E spesso al lembo, e à versetti impressi

Al fin fu quel, che si superbo e adorno

Parea del peso, in breve cerchio i ‘ lessi .

Felice son , forze che pur mi vante;

più degno è il peso mio di quel d’Atlante.

 

 

D’entrar al ricco palazzo Amor si vide

Starsi gran tempo assai pago e securo.

Finche di Soliman le genti infide

Poser il giogo à Sorrentin sì duro.

Alhor chi noi da noi spesso divide,

Timido s’en fuggì per l’aere oscuro :

Et lui drizzato à la sua prima culla,

Repente il tutto si risolse in nulla.

 

 

 

Quando VITTORIO, de l’Argive Muse

Gloria maggior, ti stai cantando in parte,

ove sue gratie il ciel tutte ha richiuse.

Noi qui fra l’arme e fra i romor di Marte

Altro pensier costringe, e altra voglia

Che vergar tronchi, o rene, o sassi, o carte.

Ben ti vorrei lodar, ma l’empia doglia

Del duro stato mio, non me ‘l permette,

et d’ogni arbitrio, e libertà mi spoglia.

Non perchè stimi già molto dilette

Ruvido carme à ben purgata orecchia

Sempre avezza d’udir cose più elette.

Ma bramerei; come ingegnosa pecchia,

che va furando hor questo, hor quel bel fiore;

per farmi illustre, ir à l’usanza vecchia.

Credi pur, ch’io non sappia quanto honore

Sannazar già ti fece alhor che disse:

Questi m’ha tratto sol di Lethe fuore,

Questi mostrommi sol quanto mai scrisse

Theocrito; e poi dentr’al grande Homero

L’ira di Achille, e ‘l lungo error d’Ulisse.

Summonte, ch’amò sempre il suo Pontano

T’amasser, e Altilio d’amor vero.

E Thebaldeo, che fu cotanto humano;

et chi Filosofia raccolse in grembo

Nifo, e l’erto camin ne fè sì piano.

Et chi purpureo hebbe il capello, e ‘l lembo,

Il cardinal Colonna, Egidio, e i dotti

Giacomo Sadoleto, e Pietro Bembo[60].

 

 

Sono tutti  i nomi alla cui fama il Paterno intende accostare la sua opera, bisognosa di autorevoli riconoscimenti e numi tutelari[61] che possano conquistargli una riconoscibilità all’interno di un sistema; particolarmente significativi a riguardo  sono alcuni versi in cui il poeta dà un giudizio critico sulle personalità più rappresentative della poesia del ‘500 e tra queste, ardimentoso, include se stesso:

 

Attio de ‘ nostri pescator fu il primo,

Rota il secondo, il dirò pur con pace

De gli altri tutti, il terzo hoggio m’estimo[62].

 

Come già visto Sannazaro è una delle auctoritas, dopo il Petrarca,  cui più il Paterno piega la sua ispirazione e a lui dedica un elegia nella quale confida il desiderio di mietere non  ingrato frutto dalla fedeltà alla poesia sannazariana, e di acquistare per suo mezzo chiara fama:

 

 

Già scaldando, e correndo ha tranta giri

Hoggi fornito il Sol verso l’Occaso,

da che Fortuna vuol ch’io non ti miri.

Ma benche senza te solo rimaso

Mi veggia, pur mai sempre in ogni loco

Tu ‘l mio Pindo sarai, tu ‘l mio Parnaso:

e tu limando questo scabro e poco

ingegno d’hor in hor, di giorno in giorno,

renderai più famoso il mio bel  foco.

Tu quel, ch’io scrivo sott’un faggio, un’orno,

porterai sovra l’aure del tuo nome,

et donde parte, e donde torna il giorno.

Sovra le spalle tue porrò le some

De l’alte lodi, ch’ispirommi Amore,

hor de gli occhi cantando, hor de le chiome

hor de la man, che mi distringe il core

et fa ch’ovunqu’io stia, per bella maga

pianga, e cresca piangendo il mio dolore.

SINCERO, quando il ciel fe lei sì vaga

Ruppe la stampa, onde di scusa degno

Son’io, ch’a me medesimo sei la piaga.

Ma chi poteva à l’amoroso regno

Opporsi? E tu non sai, che fiamma puote

Cenere tosto far d’arido legno.

Miseri noi sotto gravose rote

D’Amor; di cui la notte, e ‘l dì ragiono:

ma, perchè quant’ei vuol, tanto percote,

merta fallo d’amor scusa, e perdono[63].

 

 

La fama del Paterno è legata sin dall’inizio della sua attività ai suoi esercizi virtuosistici sulla parola petrarchesca, al suo instancabile lavoro di riscrittura,

Se a decretare la sua gloria fu  il Carducci che lo segnalò per la sua pratica di  poesia barbara[64], ancora più importante è  il tributo di stima e l’attestazione di una notorietà acquisita e goduta già in vita, di un grande poeta come Bernardo Tasso che gli riconosce un ruolo di primo piano nel panorama del petrarchismo cinquecentesco: in chiusura dell’Amadigi, Tasso lo inserisce tra gli spirti eletti della lirica napoletana:

 

 

Veggio una compagnia di spirti eletti,

Che di Sebeto su le vaghe sponde

Cantando, con leggiadri alti concetti

Accendino d’amore il lido e l’onde.

Il colto Rota, che par che s’affretti

Di lagrimar, come di pianto abonde,

Della diletta sua, cara Consorte

L’inaspettata ed immatura morte.

 

Il Costanza, il Caraciuolo, e Ferrante

Che del tempo il furor s’ha preso a schermo:

E rendeno, il Tirreno alto e sonante

Piano ed umil nel tempestoso verno,

Il Tansillo, che fa mover le piante

Coi carmi, e i fiumi star fermi e il Paterno

Che col fecondo ed elevato ingegno

E’ già poggiato a sì sublime segno[65].

 

Il Paterno,  un “petrarchista al quadrato, precoce e incontinente”, come lo giudica Giovanni Parenti[66],  incarna una crisi: illustra la sempre più debole capacità d’inventio di certa poesia  napoletana, e il febbrile lavoro di quei  poeti sull’elocutio e la cui parola resta  chiusa nel labirinto di un petrarchismo tradito.

Le sue opere, nella diacronia del manierismo napoletano, si situano alla base, in un momento di confusi esordi, costituendo per i contemporanei e per quelli che seguirono un esempio di ciò che potesse essere, in seno al Petrarchismo,  l’esercizio della differenza.

 

 

 

 

 

 

 


[1] Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Torino 1970,  p. 170 [già in «Paragone», 1951,  poi, col titolo La lingua del Petrarca., in AAVV., Il Trecento, 1953 e infine premesso a F. Petrarca, Canzoniere, Torino, Einaudi, 1964.

[2] M. Corti, Introduzione a Pier Jacopo De Jennaro, Rime e Lettere, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, pag.  XX

[3] M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana  del secondo Quattrocento, Padova, Antenore 1979, pag. 90

[4] Ibidem, pag. 91

[5] A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, pag. 198.

[6] Del 1560 ci sono  due edizioni entrambe uscite presso Giovanni Andrea Valvassori: una  porta il titolo di “Nuovo Petrarca”, l’altra di “Rime”. Del 1564  è una terza  edizione, napoletana,  presso Giovanni Maria Scotto recante il  titolo di “Mirzia” in cui il Paterno coglie l’occasione di rispondere alle critiche di chi, scandalizzato,  gli aveva contestato quel titolo insolente e vano. Il Tafuri attribuisce la responsabilità della scelta di un titolo così  compromettente al Valvassori, spinto forse, dal lancio editoriale di un’opera particolare. Del 1568 a Palermo per l’editore Giovanni Matteo Maida viene pubblicata la terza ed ultima parte della Mirzia.

[7] Per le notizie biografiche ved. D. Marrocco, Il Canzoniere di Lodovico Paterno, Grillo, Piedimonte d’Alife, 1951, ma cfr. anche G. Ferroni- A. Quondam, La locuzione artificiosa, Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Bulzoni, Roma  1973.

[8] Cfr. Raffaella Castagnola, Metamorfosi di metamorfosi. Rielaborazioni petrarchesche nel canzoniere di Lodovico Paterno, in «Nuova Secondaria», 14 (1997), pp. 44-49.

[9]L.  Paterno, Nuovo Petrarca,Venezia, Gioan Andrea Valvassori, 1560 pag. 112

[10] ibidem, pag. 123

[11] Nuovo Petrarca, cit.,  pag. 175

[12] Cfr. R. Castagnola, Metamorfosi di metamorfosi, cit.,  pag. 44

[13] A. Quondam, La locuzione artificiosa, cit., pag. 341

[14] L. Paterno, Le Nuove Fiamme, Venezia, presso Gioan Andrea  Valvassori 1561; del 1568 è la seconda edizione lyonese per Rovillie. Come ha suggerito Quondam il titolo potrebbe essere un’autocitazione del sonetto  Era ‘l bel mese, il giorno, il tempo e l’ora del Nuovo Petrarca. In realtà Giovanni Battista Giraldi nel 1548 pubblica una silloge di rime d’amore e occasione di matrice petrarchesca dal titolo Fiamme. Per i testi che seguono si fa riferimento all’edizione digitale dell’edizione lionese che ho approntato per la Biblioteca Italiana.

[15] Le uniche notizie che abbiamo su Thomas Thierry si trovano in Emile Picot,  Le Francais Italianisants au XVI siecle, Burt Franklyn, New York, 1968 pp. 26-32.  Lo studioso francese crede di dedurre dalle parole del sonetto di risposta al Paterno, che il Thierry di Lyone abbia origini lucchesi.

[16] Luigi Valvassori, fratello di Giovanni Andrea. Morto nel 1570

[17] M. Corti, , Introduzione a Pier Jacopo De Jennaro, Rime e Lettere, cit.

[18] L. Borsetto, L’egloga in sciolti nella prima metà del Cinquecento. Appunti sul liber muziano. XXXXX

[19] Sul primato dell’invenzione della divisione per argomento delle rime si era espresso per primo il Tafuri che  riconosceva in Paterno il primo esempio di questa disposizione  anche se in un secondo momento attribuì a Girolamo Muzio la prima epifania di tale ordine, e riservando invece al Paterno la sola invenzione delle Nenie che con i Tumuli chiudono l’opera.

[20] Nuove Fiamme, cit.,  I, 1

[21] Boccaccio, Filostrato III

[22] Muzio, Egloghe, Venezia, Giolito, 1550, Amorose, I, 1-8

[23] Nuove Fiamme, cit., I, 137

[24] 20

[25] Lugubri, Egloga III, Desperatione vv. 129-131

[26] Lugubri, Egloga II, Filli, vv. 24-28; 238-240

[27] I, 33, 6-9

[28] Lugubri, Egloga V, Leucippe vv. 279-280

[29] Nenie, VI, 107-109

[30] I, 145, 1-4

[31] I, 94, 1-5

[32] Tumuli, A Gallicio vv. 18-34.

[33] Nenie, VI, 110-112

[34] I, 133, 1-6

[35] Paterno, Nuove Fiamme, cit.  I, 150

[36] Ibidem,  I, 183, 36-41

[37] Varie, Egloga IV, La Visione, vv. 133- 157

[38] Paterno, Nuove Fiamme, cit., I, 152

[39] Nuove Fiamme, cit. I, 175

[40] Ibidem, I, 46

[41] Ibidem, Lugubri, Egloga VI, Dafni vv. 193-195

[42] Ibidem, I, 45, 46-47

[43] Nuove Fiamme, cit., I, 122, 27-28

[44] Ibidem, Amorose, Egloga II, MIrthia, vv. 222- 233

[45] Ibidem, I,  68, 2

[46] Amorose, Egloga  II, Mirthia, vv. 28- 37

[47] Cfr. Rvf, 118, 9-11; B. Tasso, Amori, II, 39, 85-86

[48] Nenia VI,

[49] Cfr.  Tr. Cupid.  III, 46; Poliziano, Rime, 77, 7

[50] Elegia, Al Pagano, vv. 8-11

[51] Cfr. Rvf.  XXXXXXXXXXX

[52] Sannazaro, De partu virginis, vv.  “Quaque pedes movet, hac casiam terra alma ministrat, / pubentesque rosas, nec jam moestos hyacinthos, / narcissumque, crocumque, et quidquid purpureum ver / spirat hians, quidquid florum per gramina passim / subgerit, immiscens varios natura colores. / Parte alia celeres sistunt vaga flumina cursus: / exsultant vallesque cavae, collesque supini: / et circumstantes submittunt culmina pinus; / crebraque palmiferis erumpunt germina silvis”.

[53] Nuove Fiamme, cit. I, 9, 12-14

[54] Nuove Fiamme, cit., I, 11, 35-52

[55] Ibidem I, 70, 5-7

[56] Cfr. R. Gigliucci, Contro la luna. Appunti sul motivo antilunare nella lirica d’amore da Serafino Aquilano al Marino, in «Italique», 2001, 4, pp. 19-29.

[57] Amorose, Egloga II, Coridone vv. 142-154

[58] Ibidem, I, 15, 1-3

[59] Palagio d’amore, Al Marchese di Laina Alfonso de Cardines, vv. 25-28

[60] Nuove Fiamme, cit., Elegia VII, A M. Vittorio Tarentino vv. 1-28.

[61] Cfr. XXX, CCC:  Portio, i’ non bramo diventar Orfeo / […] / Et se nel canto a tuo giudicio valsi,.. Simone Porzio (1497-1554) professore di filosofia all’università napoletana fu maestro del Paterno.

 

[62] Nuove Fiamme, cit., Marittime, Egloga II, Eufemo vv. 135-137

[63] Nuove Fiamme, cit., Elegia XII,  Al Sincero.

[64] G. Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e XVI , Bologna, Zanichelli, 1881 pp. 363-369. Le rime proposte sono tutte tratte dalle  Nuove Fiamme.

[65] B. Tasso, Amadigi IV, 42-43, presso P. Lancellotti, Bergamo 1755.

[66] G. Parenti, Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo (in margine a una recente antologia) , in «Metrica» I, 1978 pag. 225-239


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