Salvatore Colazzo, Amicizia e fiducia |
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Prosa |
Mercoledì 27 Gennaio 2016 07:20 |
Giovanni Invitto mi chiede di ragionare dell’amicizia, se sia un bisogno o un valore. E poi, con movimento ardito insinua un dubbio: e se fosse finzione? All’inizio sono rimasto spiazzato dal corto circuito amicizia-finzione. Ma poi mi son detto: forse ha ragione Giovanni. L’amicizia, come ogni altra relazione umana, è anche finzione, è anche necessariamente finzione. Il che non significa che sia nell’ordine della falsità. L’amicizia è una relazione che è caratterizzata certamente da condivisione emotiva, empatia, simpatia, preoccupazione per l’altro e si fonda sulla reciprocità, ma necessita pure di spazi di privatezza. Non tutto, proprio tutto può essere messo in comune con l’amico. Molto sì. E poi: anche tra amici ci sono dei movimenti tattici, di messa in forma, meglio: messa in per-formance, della relazione. E poi neanche tra gli amici è sempre rose e fiori. Spesso con gli amici si dibatte, si confligge e si litiga, pure. Ma lo si fa con l’idea che il sereno debba tornare, che ci si possa e ci si debba incontrare di nuovo, poiché tutto ciò che è fatto finché l’amicizia sussiste è fatto per rendere ancora più solido il rapporto. Un segno, anzi, che un’amicizia sia vigorosa è la capacità che gli amici hanno di interpretare il gioco del conflitto all’interno della relazione amicale. Ricordo un’amicizia profonda e sincera, quella che avevo con Antonio Verri. Si litigava spesso e per molti motivi, ma poi ci si ritrovava a fare cose che ci piacevano assieme, anzi che ci piacevano poiché le facevamo assieme. Amicizia rimanda a fiducia: mi posso esporre, al di là di ogni cosa il mio amico non approfitterà, questo pensiamo quando confidiamo qualcosa ad un amico: con lui diminuiamo le normali difese con cui affrontiamo i rischi della vita. Per questo, la possibilità che ci si senta traditi dall’amico è sempre altissima. Un’ironia, uno sfottò, una critica rischiano in alcuni casi di incrinare un’amicizia consolidatasi nel corso del tempo: da te non me l’aspettavo… come eravamo sì tanto amici… Spesso la compagna dell’amico, il compagno dell’amica, risulta una tentazione irresistibile. Si cerca un corto-circuito impossibile, la perfezione mistica della triade?, la condivisione di una complicità estrema? Gli psicologi ci invitano a diffidare dall’amicizia. Dicono che non si è molto maturi quando il mondo lo si giudica sulla base della contrapposizione dialettica amico/nemico. L’amico ci rassicura poiché noi crediamo che sia noto, che possiamo abbassare le difese, impegnare meno energie a studiare le tattiche conversazionali, il nemico ci inquieta per la sua estraneità, poiché non lo conosciamo, è l’ignoto che incute terrore. Ma – ci dicono gli psicologi – non fidatevi troppo delle vostre impressioni. Quando dai per conosciuto l’altro, per quanto tu sia in consuetudine con lui, rischi sempre di avere qualche brutta delusione. Presupponendo la grammatica di fondo della relazione, ti rilassi troppo e finisci con il relazionarti con uno stereotipo e prima o poi il tuo amico si ribellerà ad essere letto con la lente deformante di uno stereotipo, saprà avvertirti di questo suo disagio, ma tu lo ignorerai, e andrai avanti presupponendo di sapere ciò che lui deve pensare, deve fare, e alla fine dovrai scoprire che egli è un’altra persona rispetto a quella che tu pensavi che fosse. Meglio allora stare un po’ più in guardia, non con lui, con te stesso. Non rilassarti, pensa il tuo amico ogni giorno come ignoto, vedilo in ogni cosa che fa, ascoltalo per ogni cosa che dice. Evita di semplificarlo in uno schema, solo così il tuo rapporto di amicizia durerà. L’eccesso di familiarità è fonte di errore. E l’errore si chiama pretesa, e la pretesa disattesa genera risentimento, e il risentimento ha la capacità di convertire l’oro in piombo, l’amore in odio. Considerare il mio amico come ignoto significa pensarlo come conoscibile, anzi mi mette in una tensione che mi porta a costantemente inquadrarlo nell’obiettivo dei miei pensieri, non significa trasformarlo in un nemico. Anzi val la pena, se si riesce ad uscire dalla dicotomia amico/nemico, considerare anche il mio nemico come potenzialmente amico. Anche sul mio nemico non devo costruire la veste stretta e soffocante di uno stereotipo. Durante la prima guerra mondiale, una notte di Natale, alcuni militari dell’una e dell’altra parte decisero una tregua bottom-up. Fermarono i combattimenti, si scambiarono gli auguri, si guardarono negli occhi, si scoprirono nelle loro paure più simili di quanto la propaganda dell’una e dell’altra parte che li esigeva nemici dicesse. Pensarono insieme ai cari che avevano lasciato a casa, sentirono i medesimi brividi di freddo, strinsero gli uni le mani degli altri. Quando le istituzioni militari seppero di cosa fosse avvenuto, temettero che lo stereotipo che armava la mano che imbracciava i fucili e muoveva le gambe chiamate all’assalto venisse sconfitto e considerarono molto grave l’avvenuto. Dibatterono sul da farsi. E presero delle severe decisioni. Non deve ai soldati chiamati a morire per la patria consentire di immaginare che il loro nemico sia un “tu”, deve poter invece essere metaforizzato come un orco, un bruto, una bestia. Tutto tranne che un potenziale amico. Sparagli addosso, vuole solo la tua morte. Chi uccide per primo, scampa la morte. Per oggi almeno. Nessuno di quelli che comandano ti sono tanto amici da dirti che tu non interessi loro che come carne da macello. Si muore per mano dei nemici, ma si muore pure per quel che si definisce il fuoco amico. Oggi si fa un gran abuso della parola amicizia. Soprattutto quando si usa l’aggettivo amico abbinato ad un’istituzione. Università amica, fisco amico, giustizia amica, amministrazione amica… D’accordo, vuoi che mi presenti disarmato agli sportelli, che mi lasci infinocchiare dal tuo burocratese. Ma che amicizia è questa, ti chiedi. Amministrazione amica: comprendi le mie ragioni, per favore, io mi sforzerò di comprendere le tue, ma se non saprai convincermi, fattelo dire. E tu riprovaci a farmi capire dove sbaglio, cerchiamo assieme la via di un dialogo possibile. Sennò amicizia è una serena presa in giro. Sei amico tu, se ti fai forte del potere che hai? C’è amicizia se non si instaura una relazione alla pari? Vuoi essere mio amico, ma senza metterti in discussione, senza cambiare nulla dei tuoi comportamenti, senza chiederti cosa veramente penso io di te? C’è amicizia se chiedi di darti i miei soldi e non pensi di dovermi dire che fine fanno? Anzi vengo a sapere che servono ad alimentare gli appetiti, spesso volgari e spudorati, di una casta. Di chi dovrei sentirmi amico, io? E qui scopri che Giovanni Invitto aveva ragione a dire: e se l’amicizia fosse una finzione? Sì, qualche volta può essere una finzione, l’amicizia, una trovata di marketing. Dimenticavo, anche il computer oggi aspira ad essere friendly, cioè amichevole. Ma poi tutte queste app così friendly sono una bella fregatura, poiché ti ritrovi invaso di centinaia di mail, che esigono tutte immediata risposta. E se tu tergiversi sappi che sarai sommerso da un messaggino, anch’esso molto ino e molto friendly che ti chiede conto perché tu non abbia ancora risposto alla mail. E per sicurezza di raggiungerti, ti scrivono pure su facebook, che è un social in cui i conoscenti si chiamano amici. Quanti amici hai, tu su fb? Perché per esser figo oggi bisogna avere tanti, tanti amici, praticamente nessuno. E mentre scrivo queste cose, non so perché, mi risuona nell’orecchio la voce di Crozza che imita Razzi e poggiando la mano sul braccio del giornalista che lo intervista, gli dice col fare di chi la sa lunga: “Amico caro…”.
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