Una società (mal)educante? |
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Prosa |
Martedì 29 Marzo 2016 16:54 |
Si riconosce, oggi, ai ragazzi una maggiore capacità di movimento, un più ampio consenso alla loro autodeterminazione. È un dato acquisito e considerato positivamente. La vita diventa sempre più dura sotto tanti aspetti; occorre perciò sviluppare al massimo le difese che aiutano a fronteggiare situazioni difficili. Fin qui va bene. C’è un risvolto, però, a questa situazione che non diremmo certo incoraggiante. Sempre più i mezzi d’informazione, qualche volta con insistenza non priva di un malato compiacimento, raccontano episodi di cui sono protagonisti dei minori o dei giovani: battitori solitari o affiliati ad un gruppo. E il gruppo, a proposito di certe azioni, si guadagna l’etichetta di ‘branco’; e quando si è a questo è chiaro che l’autodeterminazione prima favorita possa presentarsi come un fatale errore. Si ha un bel predicare virtuosamente che è bene seguire i saggi consigli di chi ha maggiore esperienza della vita, oppure che è bene obbedire all’imperativo delle leggi: il ragazzo che si sente sicuro di sé e che trova esaltante infrangere la legge non si lascerà commuovere e preferirà rispondere al richiamo della trasgressione. Una patente appena conseguita aizza il demone della velocità, l’ebbrezza di un piccolo delirio di onnipotenza. La conclusione, spesso, è contro un albero, contro un muretto o contro un altro automezzo. E i giornali, soprattutto quelli ‘locali’, strizzano lacrime deploranti l’immatura perdita di questo o di quel giovane, bravo buono amico di tutti cuore in mano ecc. Ma perché quei giovani, che nelle notizie di cronaca e nei necrologi appaiono tutti come fiori di bontà nel momento in cui dovrebbero mostrare qualche virtù come la prudenza sfuggono al ritratto oleografico e ci appaiono in tutt’altra luce? Così come essi sono li vuole una società che stimola le loro passioni, il loro complesso di superiorità, la certezza dell’immunità dai disastri e dell’impunità rispetto alle leggi. Così li vuole una società educante (o maleducante) che fa slittare la loro attenzione dalla saggezza (considerata, magari, come mancanza di coraggio) all’esaltazione della propria individualità: nessuno è migliore, nessuno è più grande di me. Non solo. Altri episodi presentano un aspetto ancor più inquietante. Che cosa intende fare un’orda di ragazzini scatenati che mette a soqquadro una scuola solo perché si annoia, solo perché vuole riempire il vuoto provocato spesso dalla mancanza o dalla disattenzione della famiglia? E il ragazzino che alle elementari (non mancano esempi) affronta i suoi maestri con piglio da malvivente sperimentato dove avrà attinto l’esempio di un simile comportamento? Sono tristi le cronache che raccontano questi fatti. E come si reagisce a questi episodi? Minimizzando, considerandoli episodi isolati, insorgenze passeggere, reazioni di soggetti “difficili” che bisogna “isolare”. Sulla base di queste belle considerazioni si assume un atteggiamento che fa il paio con quello “permissivo”: l’atteggiamento punitivo. Si pensa di dare delle lezioni “esemplari” a chi ha trasgredito, violato le regole. La concessività non ragionata è dannosa e consegue effetti disgraziati. Altrettanto lo è la volontà isolatrice, che mira a chiudere il ‘colpevole’ nel cerchio di ferro della sua trasgressione e ne stimola la tendenza alla reiterazione visto che l’azione riprovevole è quella che spesso fa concentrare l’attenzione su di lui. Che, colpevole, si sente però al centro di un’attenzione ambigua, di un’ammirazione inquietante. Ci meravigliamo e ci scandalizziamo di fronte al verificarsi di certi fatti clamorosi capaci di turbare le nostre certezze? Siamo noi, in fondo, che abbiamo provocato un simile orientamento nell’azione comune (nella politica, nella scuola, nella vita della società in generale). Siamo noi la società (mal)educante che ha bisogno, se ne ha tempo, di fare un severo esame di coscienza. Di predisporre un nuovo progetto educativo per cancellare la noia dei ragazzi e la sconsideratezza delle azioni con le quali spesso essi cercano di riempire quel vuoto che noi abbiamo proposto loro come un segno di libertà. |