Leggere ad alta voce |
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Prosa |
Venerdì 29 Aprile 2016 20:11 |
Del modo con cui ci si accosta alla lettura si può fare storia; l’ha scritta Alberto Manguel (Una Storia della Lettura; l’ultima edizione italiana è di Feltrinelli nel 2009). Sfogliandola, ci si rende conto di come il leggere silente sia un’abitudine tarda. Sant’Agostino, a Milano per insegnare retorica di cui aveva vinto la cattedra con l’aiuto dei manichei, si meraviglia quando vede Sant’Ambrogio nella sua cella leggere in silenzio. Molto tempo prima i generali di Alessandro si erano stupiti vedendo il loro condottiero leggere un messaggio della madre senza proferire parola, e così accadde a Cesare in un’altra occasione. Manguel ha avuto pratica, professionale e formativa in un certo senso, della lettura ad alta voce. Figlio dell’ambasciatore d’Argentina in Israele, tornato in patria e cominciato a parlare lo spagnolo – le sue prime lingue furono inglese e tedesco – aveva trovato un impiego, appena sedicenne, nella libreria Pygmalion di Buenos Aires. Lì incontrò Borges, accompagnato dalla madre che cercava di alleviare al figlio le difficoltà della cecità progressiva. La madre di Borges chiese a Manguel se voleva essere lettore ad alta voce per Borges, come facevano altri. Manguel accettò e lesse tra il 1964 e il 1968 (anno in cui lasciò l’Argentina per l’Europa), giovandosi delle chiose di Borges, che tanti avrebbero voluto udire, quelle chiose che aiutano a percepire le sfumature del tono di una narrazione – poco importa se si tratti di un saggio o di un romanzo o di una poesia – e che infine diventano tono della lettura. Quest’ultima è in sé un processo interpretativo. È anche un fatto di eufonia interna ed esterna: nel primo caso riguarda quella musica interiore che sentiamo in noi quando leggiamo ed è quella la misura dello stile, nel secondo riguarda la capacità di pronuncia. Qui l’atto musicale è più marcato perché dipende anche dalla capacità vocale del lettore per timbro, per tono, per cadenza. Accenti evidentemente regionali o comunque marcati possono essere stonati se non sono commisurati al testo, così come può essere stonato un tono troppo enfatico o mesto o dolente o piatto o perfino allegro; talvolta però se un qualche tono si esprime con accentuata iperbole può assumere un valore di per sé, come fatto sonoro quasi indipendente dal testo, ma sono casi rari e ci vuole molta abilità. Un tono di lettura che sia sereno, non monocorde ma fresco, misurato infine, checché questo possa voler dire, finisce spesso con aiutare il testo, anche e perfino quando quest’ultimo è carico di un’aggettivazione che eccede senza raggiungere l’iperbole voluta, anche quando appaiono frasi d’inutile enfasi. Ho pensato a queste cose, partecipando a un incontro pomeridiano de Gli Amici della Musica in Galatina, incontro in cui, in un programma dedicato ai Lieder di Schubert e a quelli di Schumann, s’è scelto in maniera intelligente di occupare le pause necessarie tra un gruppo di Lieder e un altro, facendo leggere un testo critico a una giovane lettrice. La sorpresa, almeno da parte mia, è stata l’aver udito una lettura con quella misura cui mi riferivo, senza un accento marcato, senza cacofonia, senza inutili eccessi enfatici, senza autocompiacimento. Ho pensato che avesse studiato dizione e m’è capitato di chiederle dove lo avesse fatto. Da nessuna parte – è stata la risposta. Allora le ho detto che solo nell’ultimo intervento era scivolata su una t che ne denunciava l’origine geografica, come quando un soprano che si cimenta in un Lied cede alla tentazione di prendere un acuto un po’ troppo alto perché sente di non raggiungere in quell’occasione il pieno della voce. Può accadere, e quando succede si percepisce. Comunque sia, il fatto che fosse un solo episodio in quindici minuti complessivi di lettura di una lettrice la cui dizione corretta (a mio sentire) era spontanea e non frutto d’impostazione esterna mi sorprendeva, e il mio porre l’accento sulla circostanza, io che certo non sono depositario della fine dicitura, né sono un critico musicale, né tantomeno un musicista, è stato un complimento spontaneo, sebbene nascosto. |