[in “Apulia”, giugno 1981]
Otranto, quella odierna, che si stende ad arco sul canale dove, nelle giornate chiare, si disegnano le sponde albanesi dell'antico Epiro, pare in composta contemplazione del vecchio borgo, raccolto, attraverso la porta alfonsina, su un tenue pendio, intorno alle due piccole gobbe su cui poggiano il tempietto bizantino di S. Pietro e il lungo corpo della Cattedrale. Nel borgo, un reticolo intricato di viuzze e piazzuole, tra antichissime case e qualche palazzotto lillipuziano, tutte costruite col tufo su cui il vento ha giocato, e gioca, segnando il suo passaggio con rughe di erosione che fanno contare i secoli, come i cerchi di un tronco tagliato gli anni della pianta, conduce appunto, in un bizzarro, favoloso gioco dell'oca a quei due monumenti, due modi e momenti della religiosità meridionale, oppure in una specie di percorso centrifugo, alla mole del Castello aragonese che, difeso alle spalle dal mare che lo lambisce, col portale rivolto, dal basso, alla Cattedrale, pare stia a sua vigile difesa. E' la storia di Otranto in quegli edifici, testimoni di un passato splendore, quando la città, cinquecento e più anni fa, aveva almeno quattro/cinque volte gli abitanti di oggi. Essi sono il segno di una duplice autorità: quella dell'Arcivescovo che allora estendeva il suo potere fino a Matera e quella, meno presente, degli aragonesi, già declinante, quando Otranto subì l'assalto dell'armata navale turca guidata da Achmed Giedek Pascià, ammiraglio del sultano Maometto II, e l'assedio delle soldatesche.
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