I DRAMMATICI FATTI DI “CRISTO RISORTO” A GALATINA
Il primo quindicennio del secolo scorso fu segnato in Italia da un continuo susseguirsi di eventi drammatici e violenti tra le classi operaie e contadine da una parte e gli industriali, i feudatari e i latifondisti dall’altra. I primi, sulla scia del fervore liberale e repubblicano che si respirava in tutta Europa, rivendicavano il diritto a condurre una vita più dignitosa e dagli aspetti umani, mentre i secondi cercavano a tutti i costi di mantenere intatti gli antichi privilegi ed interessi.
Nel Settentrione d’Italia gli operai, potendo contare su un’efficace organizzazione sindacale, lottarono a lungo e alla fine ottennero sostanziali miglioramenti economici, mentre nel Meridione i contadini, slegati e disorganizzati, continuarono a subire maltrattamenti e sopraffazioni da parte dei signorotti locali. La Questione Meridionale, invece di stemperarsi, andava aggravandosi ulteriormente.
In tutto il Salento accaddero veementi contestazioni e drammatiche rivolte di contadini contro i ricchi proprietari terrieri. Le ragioni della protesta erano motivate dai salari molto bassi e dall’estenuante giornata di lavoro, che andava di “sole in sole”. E’ facile immaginare che d’estate questa povera gente era costretta a lavorare anche tredici-quattordici ore al giorno in cambio di una misera paga che non superava i novanta centesimi di lira per gli uomini e i cinquanta per le donne.
Nell’inverno del 1903 il clima nel Salento fu molto piovoso e freddo da non consentire per diversi giorni neanche il lavoro indispensabile nei campi. Nel breve volgere di un mese, intere masse di uomini, donne, vecchi e bambini iniziarono a patire la fame.
A Galatina il sindaco Mario Micheli, per ovviare alla drammatica situazione, decise di assegnare alle famiglie più disagiate un sussidio giornaliero e del pane. Il provvidenziale intervento, però, non poteva protrarsi a lungo, in quanto il consistente esborso quotidiano era insostenibile per le già misere casse comunali. Pertanto il primo cittadino riuscì a convincere i ricchi proprietari galatinesi ad assumere per alcune giornate di lavoro i contadini bisognosi. Stoltamente il dott. Micheli commise il grave errore di sospendere, con effetto immediato, la distribuzione del pane e del sostegno economico. Mai decisione fu così inopportuna ed osteggiata. Nel giro di poche ore, al grido di “pane e lavoro”, una folla di oltre tremila persone si radunò, con fare minaccioso e risoluto, nei pressi del municipio. Ben presto furono danneggiati alcuni portoni e mandati in frantumi molti vetri dell’edificio scolastico[1].
Avendo intuito la gravità dell’errore commesso, il sindaco intervenne immediatamente rassicurando la folla che le sussistenze sarebbero state ridistribuite nel breve volgere di poche ore.
La miccia, purtroppo, era stata ormai innescata. Infatti alcuni facinorosi si erano nel frattempo spostati in direzione dell’Ufficio Postale e della Stazione Ferroviaria. Anche qui furono rotti vetri, fanali dell’illuminazione pubblica e rovinate alcune strutture esteriori dei caseggiati. La furia devastatrice non accennava a fermarsi. Furono tagliati anche i fili del telegrafo in modo da isolare la città. Fortunatamente pochi attimi primi del sabotaggio, la telegrafista, signora Filomena Saccomanno, fece appena in tempo ad informare i carabinieri di Lecce della grave sommossa in atto. Subito dopo l’impiegata fu aggredita da alcuni esagitati che la colpirono ripetutamente al capo con una pietra, provocandole una copiosa perdita di sangue.
Ricevuti i viveri, i dimostranti sciolsero l’assembramento e si avviarono alle rispettive case. Nel primo pomeriggio giunse da Lecce un nutrito drappello di carabinieri a cavallo e di guardie civiche in difesa della città e delle istituzioni. Anche da Nardò arrivarono altri rinforzi.
Il delegato di Pubblica Sicurezza, uff. Girolamo Caputi, potendo ora contare su un rilevante numero di militari, decise, inopportunamente e sciaguratamente, di annullare il concerto bandistico[2] previsto per la sera. Era il giorno di Cristo Risorto e quella manifestazione musicale era attesa da tempo.
L’intenzione dell’inesperto ufficiale era quella di non consentire, dopo i gravi fatti della mattinata, un ulteriore ricompattamento della folla.
In breve tempo la notizia dell’annullamento della festa serale rimbalzò di casa in casa, suscitando in ogni galatinese rabbia e disappunto. Furono in molti a riversarsi per le strade e a chiedere a gran voce che si organizzasse il tanto atteso concerto bandistico. Alle quattro pomeridiane, nella piazzetta dell’Orologio, erano presenti oltre cinquemila persone che rumoreggiavano paurosamente e si accalcavano intorno alle vie laterali.
Il delegato di P. S. Caputi, per nulla intimorito dalle urla assordanti dei dimostranti, ordinò ai propri militari di tenersi pronti ad un’eventuale carica. Pur tuttavia, prima di passare ai fatti, l’ufficiale intimò alla folla di sciogliere l’assembramento, precisando che la festa di Cristo Risorto, annullata per motivi di ordine pubblico, sarebbe stata recuperata in altra data.
Apriti cielo. Il tono della contestazione salì paurosamente, tanto che ben presto assunse i connotati di un’insurrezione incontrollabile. L’ufficiale intimò per l’ultima volta ai dimostranti di sgombrare le strade, ma ricevette, in tutta risposta, una bordata di fischi e il lancio di qualche pietra.
Dopo tre squilli di tromba, fu dato l’ordine di caricare la folla a “sciabola piatta[3]”, sparando preventivamente in aria alcuni colpi intimidatori per favorire la dispersione dei manifestanti, i quali, intrappolati nelle strade laterali, strette e intasate sino all’inverosimile, risposero alla carica lanciando pietre e quant’altro capitasse nelle loro mani.
Si scatenò una vera e propria guerriglia urbana senza esclusione di colpi. Le forze dell’ordine più volte caricarono la folla ormai inferocita ed esasperata, ma puntualmente i rivoltosi risposero con massicci contrattacchi, offendendo con mazze, paletti, forconi e lanciando in continuazione pietre ed oggetti contundenti.
Dopo tre ore di cruenta battaglia, rimasero per terra i corpi esanimi di tre rivoltosi. Inoltre si contarono settanta feriti, alcuni dei quali riportarono menomazioni irreversibili, e diversi contusi da entrambe le parti. Nei giorni successivi furono tratti in arresto ben ventinove dimostranti con le gravi accuse di sommossa popolare, danneggiamento di strutture pubbliche e private, reiterato rifiuto di sciogliere l’assembramento ed uso di armi improprie contro la forza pubblica.
Il presidente del Tribunale, dott. Francesco De Luca, a conclusione del lungo dibattimento, ebbe parole di comprensione nei confronti di quei poveri uomini che, in pianto ed in catene, avevano a lungo supplicato clemenza e magnanimità. Fu poi estremamente importante la testimonianza resa in favore dei rivoltosi da parte dell’on.le Antonio Vallone e di suo fratello dott. Vito, personalità molto stimate e degne della massima fiducia.
Dopo la lettura delle singole sentenze (non superarono i tre mesi di prigione), il presidente De Luca rimproverò aspramente i responsabili delle forze dell’ordine per essere stati sin troppo impulsivi e violenti nei confronti dei dimostranti. Stando, infatti, alle numerose testimonianze, i rivoltosi avevano manifestato soltanto per ottenere un po’ di pane e godersi il concerto bandistico.
Si chiuse nel migliore dei modi la drammatica vicenda per i ventinove arrestati. Coloro, invece, che ricevettero pochi onori e riconoscimenti furono le tre vittime. Di loro, conserviamo solo qualche vaga notizia: 1) Angelo Gorgone, ucciso da un colpo di fucile; 2) Oronzo Lisi, morto dissanguato per un fendente in testa; 3) Giuseppe Masciullo, che ricevette una pistolettata e morì successivamente. Ai loro familiari fu assegnato soltanto un modesto contributo per qualche mese.
Noi, invece, a distanza di oltre un secolo, sentiamo il dovere di ricordarli con deferenza perché misero a repentaglio la propria vita per ottenerne una più libera ed umana. Lottarono per rivendicare i diritti inviolabili dell’uomo e perirono in nome della libertà che, a quei tempi, era di esclusiva spettanza di pochi, mentre ai tanti era negata ogni cosa, perfino la speranza di vivere in un mondo migliore.
[1] ...molti vetri dell’edificio – La struttura scolastica era ubicata tra Palazzo Orsini e la Basilica di Santa Caterina. Per maggiori dettagli, si consulti il libro di Francesco Tundo “Storia delle rivolte contadine ed operaie nel Salento ai primi del ‘900” – pag. 113 e segg.
[2] …di annullare il concerto bandistico – Si tenga conto che a quei tempi l’unico svago per i cittadini era rappresentato dai festeggiamenti in onore dei SS. Pietro e Paolo e di Cristo Risorto. La povera gente partecipava a questi importanti eventi anche con la febbre addosso. Era l’unico modo per ripagarla di un anno d’intenso e duro lavoro. Perdere un momento del genere, significava trascorrere buona parte dell’anno con poca voglia e scarso interesse. Il famoso detto di Giovenale “panem et circenses” era ancora valido.
[3] A sciabola piatta – Cioè in modo tale che la sciabola, colpendo il dimostrante, gli procurasse solo una contusione e non un taglio. |