Con una Nota di Giancarlo Vallone
["Il filo di Aracne" 4/2011]
Chiunque si sia interessato di Pietro Cavoti (1819/1890) ed abbia studiato il ricco materiale, costituito da taccuini, documenti epistolari, raccolte di acquerelli, schizzi e disegni, relazioni per i monumenti di Terra d’Otranto, conservati nel Museo civico di Galatina, ha certamente sperimentato con difficoltà la estrosa maniera cavotiana di abbozzare e prendere appunti nei suoi diari di viaggio, e nell'altra documentazione, che solo a lui erano comprensibili, perché scritti in fretta e perché soprattutto negli anni giovanili, si fidava della sua memoria più che della carta.[1] Sono ormai dieci anni che frequento assiduamente il fondo cavotiano del Museo, e con sincera onestà, ogni volta che decido di effettuare una ricerca, è un’emozione forte, difficile da trattenere anche per iscritto.[2] E da ricerca nasce ricerca, anche perché Cavoti nell’appuntare le notizie da lui ritenute interessanti, spaziava con analogie e richiami, e con inesauribile capacità di passare da un campo ad un altro. Uno dei campi prediletti è certamente la storia locale, che nell'artista Cavoti, assume spesso l'inclinazione iconografica e spinge alla riproduzione di volti tratti da quadri e stemmi. Nel mio precedente volume ho riprodotto le immagini, che Cavoti riprendeva da collezioni private soletane di Matteo Tafuri, di Antonio Arcudi, e di Francesco Cavoti.
Ora, in una tra le tante lettere inedite, indirizzate al Cavoti, e da me edite nel Bollettino Storico di Terra d’Otranto n. 15 del 2008, ce n'è una che G. B. Rossi invia da Lecce il 6 settembre 1841, e che dice: è vero che l’Arcudi Galatinese che avea la parrucca di color rossastro, gli occhiali ad arco e che prendea il tabacco da una borsetta di cuoio col cucchiaio, dice che Galatina vale lo stesso che Atene, ma dice Ancora che è Atene di latte essendo questo il valore della greca voce che si affratella ad Atina o Atene. L’ottimo amico Prof. Giancarlo Vallone, leggendo questa lettera, ha subito pensato che una descrizione così precisa dell'Arcudi, non potesse che derivare da un ritratto, magari procurato dal Cavoti a Rossi, e mi ha più volte sollecitato a cercare con metodo e pazienza, nella speranza di ritrovarlo nelle carte cavotiane. Le ricerca non è stata vana. Dapprima ho trovato il prete di rito greco, filosofo e teologo Sergio Stiso da Zollino: è un ritratto integrale ad acquaforte, che ho rinvenuto nei primi di giugno di quest'anno; ha il numero di inventario 570, e una annotazione in basso a destra del foglio, apposta dal Cavoti, dichiara “Sergius Stisus de Zullino. – Da un quadro di Tommaso Arcudi”. Come nei più classici colpi di fortuna, nei giorni successivi, ritornai sempre su suggerimento del Prof. Vallone a cercare tra le innumerevoli carte cavotiane, ed ecco apparire ben due disegni che ritraggono il domenicano Alessandro Tommaso Arcudi, principe degli eruditi galatinesi; tornato ancora, ecco emergere il ritratto del celebre Baldassarre Papadia . Sono disegni accolti nella sala 2 e precisamente nel raccoglitore 4938/4995: così i due ritratti a matita di Alessandro Tommaso Arcudi (inv. 466 e 3995) e quello di Baldassarre Papadia (inv. 4139). Egli annota in basso allo schizzo di Arcudi : Ricordo 1852. Alessandro Tommaso Arcudi –P.Predicatore. Da un quadro dal vero. E poi ancora, in alto a destra: capelli rossi, occhiali, barba folta : una descrizione assai vicina a quella del Rossi. Mentre per lo schizzo al Papadia, il Cavoti annota: dott. Baldassarre Papadia-da casa. Giorni dopo, ho anche ritrovato il curioso disegno che ritrae il famoso Pietro Galatino visto di spalle (taccuino 3415, p. 61 della sala 3). Giorni dopo ancora un'altra scoperta il volto di Pietro Vernaleone ( raccoglitore 3419 inv. 134, sala 2); e quello di Silverio Mezio (racc. 2 inv. 748, sala 2). Infine, appena qualche giorno fa, le due ultime scoperte: il volto di Silvio Arcudi (tacc. 3416 p.30, sala 3) con l'indicazione di provenienza: in casa di Tommaso Arcudi e quello di Gian Tommaso Cavazza (tacc. 3389 p. 27, sala 3) con l'aggiunta cavotiana: visto dal vero nella casa Arcudi. Aggiungo ancora una considerazione: che il Cavoti abbia ritratto i volti di personaggi importanti del Salento, non corrisponde solo alla sua passione d'artista ed al suo amore per Galatina e per il Salento, perché in una delle lettere inviatagli dalla Prefettura di Lecce, leggiamo che il Prefetto autorizza il Cavoti a censire in tutti i palazzi e nelle quadrerie pubbliche e private di Galatina, quadri, arazzi e quant’altro sia di importanza storica per la memoria della città. Il risultato è per noi di grande conforto grazie ai ritratti inediti che qui pubblico.
Nota di lettura
di Giancarlo Vallone
Chiunque abbia un poco di passione per la storia salentina può apprezzare l'incredibile dono che ci viene da Pietro Cavoti, a quasi 200 anni dalla nascita, grazie alla ricerca paziente e meticolosa di Luigi Galante, che da tempo ha compreso quali tesori si celano nei disegni (quelli sopravvissuti al tempo ed agli uomini) che il Cavoti, con la sua eccelsa perizia tecnica, andava elaborando per le strade e per gli interni del Salento. Grazie ai suoi disegni, a volte splendidi, possiamo ancora vedere monumenti, affreschi, quadri ed oggetti che in originale sono perduti. È sempre una intensa sensazione, la riscoperta; ma è probabilmente massima quando si giunge a vedere il volto ignoto d'un personaggio celebre morto da secoli, o d'un autore letto e riletto. In un suo precedente volume, Galante ha pubblicato due ritratti di Matteo Tafuri, uno di Antonio Arcudi (in verità indicato solo con un A. Arc.) ed uno di Francesco Cavoti, antenato di Pietro, che l'artista galatinese aveva individuato durante le sue escursioni soletane in case private, o che ci ha tramandato senza indicarci il luogo della provenienza (com'è il caso di Francesco Cavoti). Questa volta, la nostra fortuna è maggiore; Galante ha rintracciato nel Museo galatinese, dove è custodito quel che resta del lascito cavotiano, due ritratti di Alessandro Tommaso Arcudi, ed uno di Baldassare Papadia, entrabi storici ed eruditi galatinesi che occupano un posto primario nell'antiquaria salentina, e come se non bastasse, un bel disegno che ritrae Sergio Stiso, da Zollino, un uomo del circolo tafuriano, e, ancora, ben quattro assai noti intellettuali galatinesi: due del Cinquecento, il giurista Pietro Vernaleone, del quale sono sopravvissute alcune allegazioni manoscritte, a me note; il dotto Gio. Tommaso Cavazza, legato anche lui al circolo tafuriano, e autore, tra l'altro, di un'opera edita di recente; due del Seicento: il medico ed erudito Silvio Arcudi, avo di Alessandro Tommaso, e il prelato ed erudito Silverio Mezio, anch'egli autore di un'operetta a stampa. Bisogna subito proporsi una domanda: sono attendibili questi ritratti? O dobbiamo immaginarli frutto della fantasia dell'artista? In verità per molti di essi Cavoti indica la provenienza 'dal vero', 'da un quadro' o 'da una tela' o anche 'da casa', com'è per il Papadia, e non c'è da dubitare che Cavoti abbia disegnato effettivamente da quadri visti presso amici o in case private (forse anche la sua, per il caso di Francesco Cavoti), ma in alcuni altri casi bisogna riflettere. Perché due ritratti di Arcudi galatinese? In uno d'essi si dice 'da un quadro dal vero', e certamente è affermazione credibile, nonostante che il volto sia, un poco inaspettatamente, di profilo, con l'indicazione laterale (quasi promemoria) delle caratteristiche: capelli rossi, occhiali, barba folta, che, tutte e tre, ritornano nell'altro, piuttosto diverso, ritratto frontale che non si dice, né sappiamo, se sia anch'esso da quadro o mera reinterpretazione cavotiana. Così l'intero di Pietro Galatino (il cui volto è altrimenti noto), visto 'dal vero' e 'da casa di Tommaso Arcudi' è però disegnato, stranamente, di spalla, come se Cavoti ne abbia pensato la torsione da un frontale a noi non pervenuto. Anche il bellissimo disegno di Stiso è tratto 'da un quadro di Tommaso Arcudi', senza specificare se dalla casa di costui, o proprio da una pittura arcudiana. E sempre da 'casa Arcudi' proviene il volto del Cavazza, ed anche quello di Silvio Arcudi, che il Cavoti contorna con accenni di quella che doveva essere una splendida cornice. Sappiamo che Pietro Cavoti abitava un palazzo contiguo a quello che fu degli Arcudi, e che era però passato già nel corso del Settecento ai Calofilippi: era lì che il Cavoti vedeva questi quadri? Certo sappiamo che Alessandro T. Arcudi nella sua casa, ch'egli stesso definisce 'museo', aveva libri, manoscritti, documenti, e molti ritratti: quello in rame del Galatino (ed è riscontro notevole) visto però di fronte, quello di Francesco Arcudi, forse quello del Sincero-Schinzari. Di più: nella Galatina letterata leggiamo un sonetto di Pompeo Mongiò 'al ritratto' del Cavazza, ch'è probabilmente quello stesso ridisegnato dal Cavoti, ed è traccia importante, perché Pompeo Mongiò del Cavazza è coetaneo, e dunque il ritratto ha pretesa di corrispondere al personaggio reale. Soprattutto Arcudi possedeva delle orazioni manoscritte di Francesco Maria Vernaleone, ed in una di queste, erano ritratti lui, e i suoi genitori: Drusiana d'Aruca e, appunto, Pietro Vernaleone. Che il Cavoti abbia tratto da questo scritto il bellissimo disegno del giurista galatinese, della cui provenienza, però, nulla è detto? E perché non ritrarre anche il figlio e la moglie di lui? Soprattutto che fine hanno fatto, in centocinquant'anni, tutti questi materiali che Cavoti ancora usava e vedeva? E poi, perché li vedeva proprio il Cavoti? non va trascurato il fatto che già a fine Settecento, il Papadia, nei suoi scritti, non era più in grado di usare la biblioteca arcudiana. Bello è anche il ritratto di Silverio Mezio, ripreso 'dal vero', e dunque, assai probabilmente, da una quadreria privata galatinese: ad esempio so che proprio i Mezio, nella loro raccolta, conservavano verso il 1640 un ritratto di 'Monsignor Galatino', cioè, forse di Pietro Galatino, che a noi non è pervenuto. Certo, se poi tutti questi ritratti corrispondessero davvero al personaggio ritratto (com'è per il Cavazza, ma solo per lui), o fossero riproduzioni di fantasia di antichi artisti, che a sua volta il Cavoti ridisegnava, nessuno saprà mai; ma il Cavoti, per certo, non mente: del ritratto del Papadia egli dice 'attribuito' perché questa è la tradizione raccolta dai familiari, ma si guarda bene dal dire altro o dal non dire. Infine, alcune riflessioni d'altro tipo: il bello stemma degli Arcudi che Cavoti disegna senza indicazione di provenienza, e qui riprodotto grazie al rinvenimento di Galante, sembra del primo Seicento, e il cappello prelatizio, pur privo di mitra, potrebbe essere di vescovo, e dunque del celebre Francesco Arcudi, con l'orsa nel primo partito ed un leone nel secondo: questo, allora, arma dei Dionisi (la madre di Francesco), altra nota famiglia galatinese di preti greci. Ecco però un caso curioso: le varie famiglie Arcudi diramate da Galatina in Soleto e Gallipoli, usano tutte stemma diverso, anche se quello dei galatinesi (il cigno), da me indicato nel remoto 1984, va forse ripensato. Se l'altro stemma cavotiano qui presente, tratto da un sito galatinese scomparso, è, come pare, della metà del Cinquecento, allora esprime l'arma dei Cavazza e quella di Giovanna Castriota Scanderbeg; se fosse invece della prima metà del Seicento, con i Castriota avremmo ancora l'orsa degli Arcudi, e l'avremmo a Galatina.
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[1] Queste parole Cavoti rivolse all’amico De Giorgi, che le ha riprodotte nel suo bozzetto biografico cavotiano, in Pietro Cavoti. I tesori ritrovati. Galatina 2007 Edipan, pp. 50,52
[2] L'ultimo volume “Pietro Cavoti. La Centopietre di Patù. Studi” vedrà la luce nell’ottobre di quest’anno, per i tipi delle Grafiche Panico di Galatina. |