L’UNIVERSITA’ “RIFORMATA” E IL BLOCCO DELLA MOBILITA’ SOCIALE
[“Economiaepolitica” del 24 marzo 2012]
L’ultimo Rapporto Almalaurea certifica che, nell’anno accademico 2011-2012, il numero di immatricolati nelle Università italiane rappresenta meno del 60% del totale dei diplomati nell’anno precedente, attestando il valore più basso di iscrizioni degli ultimi trenta anni. Nel Mezzogiorno, nello stesso anno, solo il 50% dei diplomati si è iscritto all’Università. Le cause del fenomeno sono molteplici e in larghissima misura riconducibili alla “riforma” Gelmini, all’ideologia che ne è a fondamento e ai provvedimenti a questa correlati.
La “riforma” Gelmini nasce dal presupposto che l’Università italiana è malata, luogo di baronie, nepotismo[1], poco produttiva. Da questo presupposto viene fatta derivare un’architettura normativa colbertistica (la 240/2010, con un numero ancora non precisato di decreti attuativi) il cui obiettivo dichiarato è introdurre criteri meritocratici nel funzionamento delle Istituzioni universitarie. All’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca) è demandato l’arduo compito di quantificare il merito. Va detto che il presupposto è sbagliato e che l’obiettivo della “riforma” – e dei provvedimenti associati a questa - è ben altro che quello dichiarato.
Il presupposto è sbagliato per quello che il CNRS francese definisce il “paradosso italiano”. Riguarda il fatto che, a fronte degli scarsissimi finanziamenti pubblici e privati alla ricerca scientifica, il numero (e la qualità) delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani è significativamente alto. Si calcola che – nel periodo compreso fra il 2004 e il 2006 - il finanziamento pubblico alle Università italiane è stato circa pari all’1.13% del PIL, contro l’1.84% della media europea e che il finanziamento da parte di imprese private è stato pressoché irrilevante. In Italia, sono occupati nel settore della ricerca poco più di 3 lavoratori su mille occupati; in Francia lavorano 8 ricercatori su mille occupati. Fra il 1998 e il 2008, i ricercatori italiani, nel loro complesso, hanno prodotto quasi 380mila pubblicazioni, ponendo il nostro sistema della ricerca all’ottava posizione nel mondo e alla quarta posizione in Europa[2].
Il vero obiettivo della “riforma” è andare incontro alle esigenze di gran parte del sistema industriale italiano, che di laureati non ha bisogno: dequalificare e depotenziare il sistema formativo[3]. Sia sufficiente richiamare il fatto che, su fonte Almalaurea, la domanda di lavoratori laureati sul totale dei lavoratori assunti in Italia è stata, nel 2011, del 12.5%, contro il 31% negli Stati Uniti, e in riduzione rispetto agli anni precedenti, con significative differenze regionali. Si rileva, infatti, che il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Ovviamente nel computo dei “residenti al Nord” si includono anche i giovani meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Viene anche certificato che al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro, che due laureati su tre, nel Mezzogiorno, non hanno trovato occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo di studio e che la probabilità di trovare impiego è molto più bassa per le donne.
Ed è del tutto evidente che, in una logica di “mercato” e di breve periodo, il finanziamento alla ricerca scientifica in un’economia popolata da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate è un puro costo.
Una prima conclusione che si può trarre è la seguente: il calo delle immatricolazioni dipende i) dalla delegittimazione dell’Istituzione (risulta, cioè, sempre meno appetibile iscriversi all’Università, dipinta come luogo di baronaggio, nepotismo, nella quale è scarsa la qualità della didattica e della ricerca), ii) dalla riduzione quantitativa e qualitativa dei servizi offerti agli studenti, con contributi studenteschi in aumento – diretta conseguenza dei tagli al sistema formativo – e iii) soprattutto dal fatto che le imprese italiane esprimono una bassa domanda di lavoro qualificato. In più, l’altissima probabilità di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un contratto precario – spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale - costituisce un ulteriore fattore che motiva la rinuncia agli studi[4].
In sostanza, e per quanto ciò possa apparire paradossale in prima approssimazione, le politiche formative messe in atto negli ultimi anni hanno generato una condizione per la quale studiare non conviene. Con una specificazione rilevante, per quanto ovvia. Un elevato titolo di studio costituisce un pre-requisito per carriere rapide e appetibili, ma solo per giovani che provengono da famiglie che, per status e reddito, possono garantire ai propri figli un adeguato posizionamento nel mercato del lavoro. Va rilevato, a riguardo, che coloro che magnificano il sistema formativo statunitense non tengono conto del fatto che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani (v. www.roars.it). In più – cosa di non poco conto – il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di immobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi, come certificato dall’OCSE, e il più alto fra i principali Paesi industrializzati.
A ciò si aggiunge il fatto che le politiche di austerità realizzate nel corso dell’ultimo triennio, riducendo i redditi disponibili soprattutto delle famiglie più povere, e soprattutto nelle aree periferiche, hanno reso sempre più difficile sostenere il costo degli studi, così che studiare è sempre più oneroso. In più, come è stato efficacemente messo in evidenza (http://www.roars.it/online/?p=5213), il proposito governativo di abolire (o “attenuare”) il valore legale del titolo di studio – oltre a presentare difficoltà rilevanti di ordine giuridico - è del tutto inefficace per gli obiettivi che si propone e potrebbe avere il solo effetto di disincentivare ulteriormente le immatricolazioni alle Università.
Il Governo Monti ha prontamente recepito le indicazioni europee in merito al perseguimento del rigore finanziario. Non si può dire invece, al momento, che abbia, con la medesima tempestività, recepito le raccomandazioni UE relative all’aumento della dotazione di capitale umano e, dunque, alla promozione della scolarizzazione[5]. L'inerzia, su questa materia, desta preoccupazione. In un’ottica di medio-lungo periodo, disporre di poca forza-lavoro qualificata, in una condizione nella quale la popolazione continua a invecchiare (il numero di 19enni si è ridotto del 38% negli ultimi 25 anni), comporta riduzioni della capacità innovativa e del potenziale di crescita del sistema, con ulteriore peggioramento della competitività delle nostre imprese e ulteriore accentuazione del divario fra l’economia italiana (e ancor più meridionale) e le aree centrali dello sviluppo capitalistico.
[1] Un fenomeno, questo, che innanzitutto nessun accademico negherebbe, che la gran parte della comunità accademica giudica come prassi censurabile ed eticamente inammissibile, che nuoce innanzitutto alla comunità accademica stessa, e che è da condannare senza appelli. Sorprende però che quasi nessuno faccia pubblicamente notare che l’Italia è un Paese familista, e che il familismo in Italia (e non solo nel Mezzogiorno) è un dato strutturale, che coinvolge pressoché tutti i settori della sua vita pubblica e larga parte delle attività private..
[2] Per un approfondimento, sia consentito rinviare al mio articolo “Gli inganni della ‘riforma’ Gelmini”(http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-inganni-della-riforma-gelmini./)
[3] Il che si è realizzato con una decurtazione del fondo di finanziamento ordinario che dai 702 milioni di euro nel 2010 ha raggiunto, nel 2011, gli 835 milioni, come prescritto nel decreto-legge sul “diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. Si rinvia a http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/
[4] O anche il ritardo dell’acquisizione del titolo di studio. In fondo, se non altro per ragioni di “status”, può essere preferibile essere studente (anche se fuori corso) piuttosto che disoccupato.
[5] L’Unione europea si dà l’obiettivo di raggiungere, entro il 2020, una percentuale di popolazione con laurea (nella fascia d’età 30-34 anni) pari al 40%. Ad oggi, questa percentuale è, in Italia, ferma al 19%.
Lavorare di più? No, l’obiettivo è creare più lavoro
[Nuovo Quotidiano di Puglia di domenica 25 marzo 2012]
Il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha esortato il Governo a prendere provvedimenti per “far lavorare di più”. E il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha aggiunto che ciò si rende necessario perché l’Italia “è un Paese anziano”. Anche ammettendo (cosa alquanto discutibile) che la ripresa della crescita economica passi per un aumento delle ore lavorate, va ricordato che il decreto battezzato “Salva Italia” contiene una “riforma” del sistema pensionistico che già va in questa direzione, ed è difficile pensare che Draghi e Visco ritengano che sia troppo poco. Occorre ricordare che, per impulso del Ministro Fornero, dal primo gennaio 2012 l’età pensionabile è già salita a 62 anni e sarà ulteriormente elevata a 63 anni e 6 mesi nel 2014, a 65 anni nel 2016 e a 66 a partire dal 2018. Il che, in sostanza, significa che, a partire dall’anno prossimo anno nel quale si cominceranno ad elevare tutti i parametri anagrafici sulla base della speranza di vita, il minimo di contributi richiesto per il pensionamento anticipato sarà di 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne. Due considerazioni si rendono necessarie a riguardo. In primo luogo, in una condizione di elevata disoccupazione giovanile, questo dispositivo implica che molti giovani oggi probabilmente non riusciranno a ottenere la pensione, o comunque riceveranno importi di entità minima. In secondo luogo, la “riforma” Fornero agisce in un’ottica di lungo periodo e, dunque, non può costituire un meccanismo che agisce, nell’immediato, sull’incremento della produzione.
Ovviamente il modo di far lavorare di più consiste nel ridurre il tasso di disoccupazione, ma non sembra che i recenti provvedimenti del Governo (inclusi quelli contenuti nel decreto “Cresci Italia”) siano adeguati per questo obiettivo. Anzi, sotto molti aspetti, si tratta di provvedimenti destinati ad accrescere ulteriormente il tasso di disoccupazione. Ciò a ragione del fatto che la disoccupazione di massa (e soprattutto giovanile) in Italia, così come nel resto d’Europa, dipende da bassa domanda aggregata e, posta la questione in questi termini, per accrescere l’occupazione occorrerebbero misure che facciano crescere in primo luogo consumi e investimenti. L’aumento della pressione fiscale, sia diretta che indiretta, agisce in direzione contraria, sia perché riduce il reddito disponibile e dunque i consumi, sia perché (soprattutto mediante l’aumento della tassazione indiretta) comprime le retribuzioni in termini reali. Le pressioni inflazionistiche che l’economia italiana sta registrando da qualche mese dipendono essenzialmente dall’incremento della pressione fiscale, configurando uno scenario di stagflazione, con contestuale presenza di elevata disoccupazione e alta inflazione.
Per “far lavorare di più” gli italiani restano, dunque, due sole opzioni: aumentare gli straordinari e accrescere la partecipazione femminile nel mercato del lavoro. La prima opzione appare sconsigliabile e neppure vantaggiosa per le imprese. E’ sconsigliabile dal momento che, in un’economia stazionaria, l’aumento delle ore lavorate degli occupati non può che tradursi in minore domanda di lavoro da parte delle imprese. Ed è un’opzione che non è vantaggiosa neppure per le imprese, dal momento che, con eccesso di capacità produttiva, ciò che ad esse interessa, in questa fase, è veder crescere i mercati di sbocco e avere più facile accesso al credito. Più in generale, l’aumento dell’orario di lavoro ha però una fondamentale contro-indicazione, poiché è statisticamente correlato all’aumento degli infortuni. Ancor più in un Paese nel quale – come ci dice l’Eurostat – si lavora più della media europea e, a fronte di questo, gli infortuni sul lavoro sono al di sopra della media dei Paesi industrializzati.
Per quanto attiene alla partecipazione femminile nel mercato del lavoro occorre preliminarmente ricordare che il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 indicava tra gli obiettivi da conseguire negli anni immediatamente successivi un tasso di occupazione femminile pari al 60%, con obiettivo intermedio per il 2005 del 57%. L’Istat certifica che, in Italia, il tasso di occupazione femminile è pari al 46.6% (superiore solo a quello di Malta), e che vi sono sensibili differenze per quanto attiene alla distribuzione geografica del fenomeno: nel Nord-Est il tasso di occupazione femminile si attesta intorno al 57%, nel Mezzogiorno è del 31,1%. Risulta anche molto elevato il tasso di inattività femminile: le donne inattive nel mondo del lavoro tra i 15 ed i 64 anni ammontano a una percentuale del 48,6% sul totale della forza-lavoro, a fronte del 25,4% maschile. Anche in questo caso, si registra una situazione disomogenea su scala nazionale: al Nord l’inattività femminile è collocata al 39,6%, al Centro al 44%, nel Mezzogiorno al 62,3%. Ciò che emerge con maggiore evidenza è che le donne lavorano meno proprio nelle aree del Paese dove è maggiormente concentrata la povertà. Naturalmente, questa constatazione sconta il fatto che le rilevazioni ufficiali non tengono conto, giacché, per sua natura, non possono farlo, delle dimensioni dell’economia sommersa, anche queste maggiori nelle regioni meridionali
Accrescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro è impresa ardua, per due ragioni. Il basso tasso di occupazione femminile è in larga misura imputabile al più generale problema della conciliazione dei tempi di cura e lavoro. Questo significa da un lato, la difficoltà del coniugare la cura domestica e l’attività lavorativa, e dall’altro la carenza di servizi che consentano di rendere possibile lo svolgimento delle due attività. Posta la questione in questi termini, dovrebbe derivarne – per quanto attiene alle misure di intervento correttive – che il problema ammetterebbe soluzione solo a condizione che siano disponibili sul territorio maggiori (e migliori) servizi alle famiglie. E’ opportuno chiarire che la carenza di servizi spiega solo parte del fenomeno, che si può far dipendere soprattutto dalle pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro. La discriminazione è quel fenomeno per il quale l’impresa non assume o accorda un trattamento retributivo o non retributivo peggiore a individui che appartengono a determinati gruppi, indipendentemente da valutazioni che attengono all’effettiva loro produttività. Si consideri, a riguardo, che - a parità di mansione e qualificazione - le donne guadagnano, in media, il 20% in meno dei loro colleghi maschi. Poiché la discriminazione origina da pre-giudizi dei datori di lavoro (ovvero da giudizi formulati prima dell’accertamento dell’effettiva produttività dei lavoratori assunti) e il pre-giudizio è, di norma, derivante dalla bassa scolarizzazione, sembrerebbe opportuno porre la preliminare questione dei legami che sussistono fra la ‘qualità’ della nostra imprenditoria e le condizioni di lavoro in Italia. Il fatto che circa il 70% degli imprenditori italiani non è in possesso di un titolo di studio di scuola superiore non può essere considerato un dato trascurabile. |