Filosofia
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Domenica 16 Febbraio 2014 09:51 |

["Il Galatino" a. XLVII n. 3 del 14 febbraio 2014, p. 3]
Ho avuto notizia dai mass-media locali, alcuni giorni fa, che una scuola, d’accordo con una nota associazione, nata all’interno della realtà ecclesiale per aiutare le persone indigenti, ha preso una decisione che mi ha lasciato perplesso. Pare che una sede salentina di questa associazione abbia deciso che gli studenti peggiori, per rendimento, nelle istituzioni scolastiche dovranno andare ad aiutare chi opera nelle mense dei poveri. Apparentemente sarebbe una scelta umanitaria se non nascesse da una intenzione punitiva in chi l’ha ideata: i più somari vanno ad aiutare i volontari che operano nella mensa dei poveri, come se il povero e lo stare insieme al povero fossero una punizione. Non mi pare, al riguardo, che Cristo, quando spesso si è avvicinato ai derelitti, lo abbia fatto per autopunirsi.
Io avrei capito l’opposto: gli alunni più bravi sono premiati attraverso l’opportunità di prodigarsi, aiutando chi lavora nelle mense dei soggetti economicamente disagiati. E, contemporaneamente, questi fratelli indigenti, che vivono in condizioni umilianti, avrebbero visto che la comunità ecclesiale, quella civile e quella scolastica – che ha come finalità primaria la formazione di uomini e cittadini - fanno avvicinare la parte migliore della gioventù a chi nella vita è stato sfortunato e vive in condizioni precarie e sub-umane. Ricordiamo che, nell’ultima cena, Cristo lavò i piedi dei discepoli, con atto di estrema umiltà e di umanità. E il rito si ripete nella chiesa cattolica il giovedì santo.
Ma basta leggere un brano del Vangelo di Matteo che, a mio parere, anche al di là dei credenti, è simbolo di vera umanità laica. Nell’immaginare il giudizio finale, Matteo mette nella bocca di Cristo queste parole: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. E quella affermazione avrà una risposta disarmante da parte dei destinatari, perché nessuno ricorda di aver mai fatto nei confronti di Cristo azioni di tale genere. E Cristo risponderà che tutto quello che loro avevano fatto a uno solo dei suoi “fratelli più piccoli”, lo avevano fatto a lui. Parimenti, rimprovererà e condannerà chi non ha mai aiutato quei fratelli, perché: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
Ho preso spunto da questa decisione assunta nel nostro territorio, pur molto modesta rispetto alle fonti richiamate poco fa, per ribadire che è una decisone poco emancipante e per sottolineare che la scuola non deve assecondare scelte diseducanti come quella che starebbe per essere messa in atto, tramite le istituzioni formative, da strutture culturali e religiose che forse stanno uscendo fuori dalla loro stessa cultura plurimillenaria. Anche Francesco d’Assisi sarà inorridito quando gli avranno detto che, nel sud della sua Italia, i poveri sono usati come strumento di mortificazione e di punizione. Immaginiamoci quindi, se possibile (ma siamo nella fanta-storia), la reazione di Francesco che “decise” di essere povero.
Il mio sincero auspicio è che, quando appariranno queste riflessioni, chi ha il potere per farlo abbia già ribaltato la decisione iniziale. |
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Filosofia
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Domenica 02 Febbraio 2014 10:10 |
["Il Galatino" a. XLVII, n. 2 del 31 gennaio 2014, p. 3]
Si narra, agli esordi della filosofia occidentale, che tra il 400 e il 300 avanti Cristo, un personaggio strano andasse in giro di giorno in Atene con una lanterna. Si chiamava Diogene. A chi gli chiese il motivo di quella anomalia, rispose: “Cerco l’uomo”. “L’uomo” definizione generica ma significativa perché indicava l’uomo onesto. Ma chi è l’uomo oggi? Lo cerchiamo ancora? Credo che oggi non lo cerchiamo più perché cerchiamo soggetti umani che abbiano competenza e ruoli: c’è l’avvocato, il docente, il netturbino, il politico e così via. Nel puzzle dell’esistenza odierna cerchiamo ruoli e competenze, maschili o femminili che siano. Io, per esempio, insegno da quando avevo 18 anni, tra scuola primaria, liceo e, poco dopo, università. Quindi per tutti sono stato un “prof”. Perché dico “sono stato”? Perché dal primo novembre, avendo compiuto i fatidici settant’anni, sono entrato in “quiescenza” o “pensione” che dir si voglia: evento normale, previsto, ineludibile, giusto, importante per il ricambio generazionale. Quindi oggi dovrei essere chiamato “pensionato” e non “prof”, anche se per quest’anno continuo ad insegnare.
La cosa non mi preoccupa, ma sarei bugiardo se non dicessi che essere nello sguardo dell’altro solo un “pensionato” non rappresenta per me il top della soddisfazione. Tra l’altro questa riflessione è stata casualmente anche sollecitata dalla rassegna stampa che seguo, insieme a Marisa, mia moglie, in tv la mattina tra le 6.30 e le 7.30. E, proprio stamane, un quotidiano locale parla nel titolo di un qualcuno che ha molestato la vicina e che, pertanto, rischia un processo. Questo qualcuno era definito nel titolo solo “un pensionato”. Io mi chiedo se il cambio di ruolo sociale e funzionale debba essere letto come una rivoluzione esistenziale o se l’esistenza del soggetto non si svolga in piena continuità, sulla base di ciò che ognuno ha fatto prima e che non è necessariamente l’impiego “a termine” che ha svolto, magari per decenni. Si potrà dire che un libero professionista non ha questa cesura nella vita, ma voglio anche spiegare il motivo per cui chi ha svolto per decenni lavoro dipendente (dallo Stato o da privati) continua ad operare, cioè a vivere, la propria vita, senza soluzione di continuità. Ognuno continua ad essere ciò che era prima: e ciò che era prima non era la mansione svolta, ma la sua vita in tutte le dimensioni. Mi viene da ripetere qui una affermazione che la Chiesa cattolica adopera, purtroppo, in un contesto doloroso qual è quello della fine della vita biologica. Essa dice: “Vita mutator non tollitur”: la vita è mutata, non è tolta.
Torniamo al mio tema, meno tragico. Ognuno di noi continua ad essere, in qualsiasi età e in qualsiasi ruolo lavorativo e famigliare, ciò che è sempre stato e a produrre per gli altri. Ma sto dicendo queste cose per autoconsolarmi? Proprio no. Io so già, come lo sa chiunque nel proprio settore, cosa farò in continuità, in integrazione, in innovazione rispetto a quanto ho fatto in tanti decenni. C’è uno scrittore francese (rifiutò il premio Nobel perché disse che era un premio borghese) che nel 1943 scriveva che ognuno di noi “recita” sempre un “ruolo”. Egli fa l’esempio del cameriere che si alza presto la mattina perché dice a se stesso, quasi sempre in maniera inconscia: sono cameriere, debbo andare presto per risistemare tavolini e sedie ecc. Questo filosofo, cioè Sartre, sottolinea che quell’uomo non si accorge che “non è” cameriere, ma che “fa”, cioè recita, il ruolo di cameriere. E questo avviene per ognuno di noi. D’altro canto abbiamo individualmente una pluralità di ruoli sociali: padre o madre, figlio o figlia, marito o moglie, impiegato o artigiano, politico o sportivo e così via, e volta per volta, in maniera automatica, mettiamo in campo il nostro ruolo come se fosse un canovaccio che avvertiamo necessario interpretare.
Allora io e ognuno di noi finisce, periodicamente, solo uno dei tanti ruoli che esercita. Cambiamo il ruolo ma rimaniamo sempre con la nostra identità. Ognuno di noi è l’uomo che Diogene cercava, circa quattro secoli prima della nascita di Cristo, con la lanterna sotto il sole splendente della Grecia. |
Filosofia
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Lunedì 01 Luglio 2013 15:44 |
1. Sartre e Merleau-Ponty sono spesso accomunati, perlomeno fino al 1953, quando i loro rapporti si incrinarono apparentemente per motivi politici. Anche sul problema-idea di Dio i loro percorsi in parte divaricarono. Partiamo da Sartre[1] che, in una intervista del 1972, fa il punto sul tema:
un fanciullo dell’epoca aveva una religione – che era la religione cattolica, per esempio – e che aveva una famiglia molto frantumata dal punto di vista della religione, poiché anzitutto credevano pochissimo gli uni e gli altri – credevano un pochino, il tempo di ascoltare un poco l’organo a Saint-Sulpice o a Notre-Dame, ma in sostanza non molto – e poi aveva ciascuno la propria religione: mio nonno era protestante ma mia nonna era cattolica. Mia madre mi educava nei sentimenti cattolici, il nonno lo aveva permesso, ma egli si faceva beffe di queste cose – in una maniera d’altronde poco importante, non mi sembrava che egli avesse particolarmente ragione – ma semplicemente il fatto cattolico, quando appariva, era contestato. Allora ho perduto la fede completamente verso gli undici anni, o piuttosto mi sono accorto che l’avevo perduta: ero a La Rochelle, attendevo due amichette con cui prendevo il tram per andare al liceo, e per distrarmi mi sono detto: “Toh, Dio non esiste”. È caduto in questo modo e non è mai ritornato.[2]
Rupert Neudeck, a proposito di una citazione dello Spirito Santo in Les mots, afferma che per tutta la sua vita e per tutta la sua oeuvre Sartre non aveva mai potuto rimuovere l’eredità cristiana. Le radici erano nella religione cristiana, nelle due versioni del cattolicesimo (i Sartre) e del protestantesimo (gli Schweitzer)[3]. Ma, tra le varie definizioni con le quali è stata spesso etichettata la filosofia di Sartre, è quella di “esistenzialismo ateo”. Se sulla definizione di esistenzialista Sartre ha manifestato sempre perplessità, sull’ateismo l’ha spesso definito strutturale al suo pensiero. Nel 1961, aveva dichiarato, rifacendosi a Merleau-Ponty, appena morto: “Si crede di credere ma non si crede”[4]. La fede, quindi, era intesa come illusione. Sartre, a questa “passione inutile”, farà riferimento sino alla fine della propria esistenza, segnalando i residui attivi che ancora, di quella fede, operano in lui che si era proposto di scrivere la “prima” filosofia atea.
Pur partendo dall’affermazione “Dio non è”, ritorna la domanda, già presente da Feuerbach in poi: “Perché si crede in Dio, se Dio non è?”. La prima risposta di Sartre è che l’uomo pensa Dio perché tende ad essere Dio, cioè soggetto di statuto divino: causa sui. La fede è una “passione”, non una costruzione razionale. Kierkegaard lo aveva detto in Timore e tremore. Pure in Sartre, questa passione non è gratuita ed è dannosa, poiché per inseguirla il soggetto rinunzia alle proprie capacità essenziali, alla costruzione della morale e della storia. Nonostante questi danni, l’uomo non può fare a meno di assumere per sé il punto di vista di Dio, di pensare “come se Dio esistesse”, perché la natura del Dio creduto è la stessa natura dell’uomo, che, però, è specificata dalla contingenza e dalla penuria.
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Filosofia
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Mercoledì 08 Maggio 2013 11:23 |
Perché si avverte il bisogno parlare ancora di fenomenologia, dopo che si è anche ipotizzato il percorso dell’“oltre-fenomenologia”? La fenomenologia, infatti, dopo un secolo di fasti, sembra essere messa in crisi come sapere datato, ancora fermo alle alternative tacciabili o tacciate, a seconda dei casi, di idealismo e realismo, di formalismo categoriale e intenzionalità coscienzialistica. E così via. In alcune situazioni, poi, essa ha assunto il carattere di metodologia solidamente strutturata e difficilmente trasgredibile; può presentarsi come un’algebra del sapere, sicuramente al di là delle intenzioni del suo iniziatore. Quella fenomenologia potrebbe essere archiviata dopo aver riconosciuto il contributo importante offerto alla riflessione sulla coscienza, sulle essenze, sulla scienza.
La fenomenologia dopo Husserl, però, potrebbe essere permanentemente attiva per la propria riflessione sull’esistenza, per la lettura delle “ontologie regionali”, per l’ermeneutica che ne è scaturita, per la narratologia descrittiva che ne è stata la naturale e, forse, più interessante e feconda conseguenza. I saggi qui presentati vogliono essere un quadro articolato di problemi, di filosofi e, di ambiti teoretici che non sarebbero leggibili senza un accostamento alla storia della fenomenologia oppure prescindendo da essa.
Quanto detto vale non solo per autori oramai classici e inseriti di diritto nella storia del pensiero del Novecento, come Sartre e Merleau-Ponty, cui sono dedicate due sezioni, ma vale anche per una costola significativa della nostra cultura come la filosofi a femminile che, di volta in volta, si chiama anche pensiero della differenza sessuale o di genere. Hannah Arendt, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius, Simone de Beauvoir e tante altre pensatrici sono partite da un approccio fenomenologico per poi pervenire ad approdi personali che, sicuramente, non possono essere ridotti o banalizzati come semplici, scolastiche applicazioni di altri teoremi filosofici. Per questo, qui se ne parla anche attraverso Angela Ales Bello, la studiosa italiana che con le proprie opere e tramite il suo Centro romano di ricerche fenomenologiche, contribuisce ad irrobustire la conoscenza di un patrimonio teoretico che può anche non essere condiviso, ma che rimane rete genetica e invisibile di tanto pensiero attivo anche in questi primi anni del terzo millennio. Tanto vale anche per alcune derivazioni attualizzanti, come l’ecofemminsimo, di cui qui si dà una prima valutazione.
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Filosofia
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Lunedì 15 Aprile 2013 16:47 |
“Fahrenheit 451”, Word 97-2003. Questioni di memoria
Nel titolo sono accostati due fatti culturali di genere diverso: un film che prende spunto da un precedente romanzo e un programma di videoscrittura con il quale chi qui scrive salva i propri files sul computer. Questi due elementi, film e informatica, vengono unificati nella terza parte del titolo che riguarda la memoria. In particolare si esaminerà la memoria nel momento in cui è depositata negli scritti, siano essi gli scritti che troviamo trasformati in libri quanto quelli che costruiamo e conserviamo nel computer. Si tratta di due temi apparentemente diversi ed estranei: il rogo dei libri, evento ripetutamente presente nella storia, e la civiltà informatica nella quale, volenti o nolenti, tutti noi ora siamo immersi e dalla quale dipendiamo. Il tratto che unisce i due fenomeni apparentemente eterogenei è o potrebbe o potrà essere uno: la perdita della memoria del singolo e della comunità umana.
1. Partendo da Don Chisciotte
Parliamo di memorie che si possono estinguere e che, in alcuni casi, si decide di estinguere. L’esempio del rogo dei libri presentato da Fahrenheit 451 è emblematico. Per di più, l’immagine del rogo di libri è ripetutamente presente nella nostra cultura. Forse non è un caso che il primo libro sequestrato e destinato alle fiamme di cui, nel film in questione, si vede il titolo sia il Don Chisciotte di Cervantes, nella versione spagnola. Per tale motivo introduciamo un brano di questo importante romanzo pubblicato nel 1605:
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