Programma maggio 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Maggio 2022 Mercoledì 4 maggio, ore 18:30, Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse: dott. Massimo Graziuso,... Leggi tutto...
Convocazione Assemblea dei Soci 22 aprile 2022
Convocazione Assemblea dei Soci   L’Assemblea dei Soci è convocata nella Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse venerdì 22 aprile alle ore 16,00 in prima convocazione e 17,00 in... Leggi tutto...
Programma Aprile 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Aprile 2022 ●       Venerdì 1 aprile, ore 17:00, Officine di Placetelling - L’Università del Salento... Leggi tutto...
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Inaugurazione Anno accademico 2021-2022
Venerdì 22 ottobre alle ore 18:00, nell’ex Convento delle Clarisse in piazza Galluccio, avrà luogo l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Popolare “Aldo Vallone”:... Leggi tutto...
A rivederci. In presenza, Forse anche a distanza. Ma sempre attivi. E comunque uniti.
Il nostro Anno Accademico è finito, come sempre, con l'arrivo dell'estate, anche se il contemporaneo "sbiancamento" della nostra Regione e la possibilità, finalmente, di organizzare incontri in... Leggi tutto...
Filosofia


Dino Cofrancesco, L’amicizia tra “comunità” e “società” PDF Stampa E-mail
Filosofia
Martedì 19 Gennaio 2016 18:08

[in "Almanacco 2016" di Giovanni Invitto, Panico, Galatina, dicembre 2015, pp. 9-11]


 

A mio avviso, per comprendere l’amicizia dei tempi moderni può essere utile il riferimento alle categorie Comunità/Società elaborate dal pensiero sociologico tedesco, in primis da Ferdinand Toennies ma, in maniera più critica e wertfrei, da Max Weber. L’amicizia, infatti, è la tesi che mi propongo di sostenere, si può comprendere solo se la si colloca in quello spazio ristretto ed elastico insieme, che sta tra la “comunità” e la “società”: è una figura dell’anima, per così dire, che, vivendo al confine tra due dimensioni, partecipa - ma solo in parte - della natura di entrambe e che, proprio per questo, in epoche e in ambienti culturali differenti, viene sentita e definita talora in modo molto diverso.

Ma cosa sono la “comunità” e la “società” che, nella “scientifica” ritrascrizione weberiana, diventano Vergemeinschaftung (comunità) e Vergesellschaftung (associazione)? In Economia e società, si legge: “Una relazione sociale deve essere definita ‘comunità’ se e nella misura in cui la disposizione all’agire sociale poggia - nel caso singolo o in media o nel tipo puro - su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano”. Al contrario: “Una relazione sociale deve essere definita ‘associazione’ se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una identità di interessi oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto allo scopo o al valore). In particolare (ma non esclusivamente) l’associazione può riposare, in modo tipico, su una stipulazione razionale mediante un impegno reciproco. Allora l’agire associativo è orientato, nel caso della sua razionalità: a) razionalmente rispetto al valore - in base alla credenza nella propria obbligatorietà; b) razionalmente rispetto allo scopo - in base all’aspettativa di lealtà dell'altra parte”.

Toennies, nella sua fondamentale opera del 1887, Comunità e Società, aveva individuato non tanto due tipi ideali, ma due concreti e corposi fenomeni sociali, riconducibili sostanzialmente l’uno - la comunità - alla famiglia, luogo della convivenza durevole, intima ed esclusiva, l’altro - la società - al rapporto di scambio-razionale, passeggero, interessato - che trova la sua realizzazione per antonomasia nel mercato. La sua riflessione trovava non a caso (e trova ancora oggi) una vasta eco negli scrittori della “crisi della civiltà” che vedevano il passaggio dall’una all’altra delle due fattispecie concrete - dalla comunità alla società - come una decadenza. Per Weber, al contrario, “comunità” e “associazione” erano, per dirla con Tocqueville, “costumi della mente e abiti del cuore” che, nelle complesse relazioni umane, potevano ritrovarsi in ogni età e in ogni ambito umano, in una misura che spettava allo studioso stabilire e in una gradazione decisiva per distinguere i vari fenomeni sociali. Faceva rilevare:

I tipi più  puri di associazione sono i seguenti: a) lo scambio rigorosamente razionale ristretto allo scopo e liberamente pattuito, in una situazione di mercato - che costituisce un compromesso attuale tra individui che hanno interessi contrapposti ma complementari; b) la pura unione di scopo liberamente pattuita - che costituisce la stipulazione di un agire continuativo diretto, nella sua intenzione e nei mezzi, soltanto a perseguire gli interessi oggettivi (economici o dì altra specie) dei propri membri; c) l’unione di intenzioni, fondata su motivi razionali rispetto al valore - rappresentata dalla setta razionale, in quanto essa prescinde dalla cura di interessi emotivi o affettivi, e  propone  di servire soltanto la “causa” (il che, certamente in tutta la sua purezza avviene soltanto in casi particolari).

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La lanterna di Diogene 11. Narrare il territorio PDF Stampa E-mail
Filosofia
Martedì 30 Settembre 2014 12:04

["Il Galatino" anno XLVII n. 15 del 26 settembre 2014, p. 5]

 

L’esistenza è una autonarrazione interiore da quando abbiamo coscienza di esserci ed è una narrazione quasi sempre spontanea che rimane dentro di noi, ma che può essere testimoniata all’esterno nelle varie forme di comunicazione. E i territori? A primo acchito sembrano realtà amorfe, morte, silenziose, puramente naturali. Come avvertire la loro eventuale narrazione che non è verbale? Anzitutto i territori di per sé ci parlano di contesti storici. Case, palazzi, tuguri costruiti dall’uomo, campagne coltivate e campagne abbandonate, quindi, indirettamente, ci narrano del rapporto soggetto umano-contesto materiale-storia di vita. Il soggetto è sempre in uno scambio interattivo col territorio e dipende sempre dall’uomo la situazione positiva o negativa del territorio. Pensiamo a due  casi emblematici che il Salento sta vivendo contrariato: la 275, la superstrada che oggi finisce a Lucugnano e dovrebbe arrivare a Leuca, ma le popolazioni si oppongono; la Tap (la canalizzazione del gasdotto sino alle marine di Melendugno dalle sponde che abbiamo di fronte) ma anche lì c’è dissenso popolare. Per contro notiamo anche che dei 7 film che l’Italia ha proposto per l’Oscar ci sono quello di Winsper e quello di Ferzan Ozpetek (Mine vaganti). Su sette film due parlano del Salento. Ora tutto parla a noi in maniera diversa: è un territorio che vale. Forse oggi sono i salentini a credere meno nel loro territorio o a rifiutare soluzioni innovative.


La lanterna di Diogene 10. Sul calcio italiano PDF Stampa E-mail
Filosofia
Lunedì 15 Settembre 2014 06:40

["Il Galatino" XLVII n.14 del 12 settembre 2014]

 

Mentre scrivo, da poche ore la squadra italiana di calcio è stata esclusa dai mondiali: tragedia nazionale con dimissioni di allenatore e presidente della Federazione. Sportivi inferociti, depressioni famigliari, titoloni sui giornali... Io sono un appassionato, anzi un «tifoso», di calcio cioè: un «fazioso disarmato». Ho cominciato a frequentare a 13 anni, insieme ai miei due fratelli, l’allora «Carlo Pranzo», campo del Lecce, ora divenuto parcheggio per le auto. Poi si passò allo stadio di Via del Mare inaugurato con il Santos di Pelé, forse il più grande calciatore di tutti i tempi, che segnò un goal dopo uno splendido volo in area di rigore, tanto che io la paragonai, in maniera blasfema, ai voli di san Giuseppe da Copertino che rimaneva sospeso in aria. Ieri, però, è stata una  giornata di lutto, non metaforico, per il calcio italiano. Ma lutto per l’eliminazione della squadra azzurra? Assolutamente no: lutto perché ieri è morto Ciro Esposito, nome e cognome chiaramente napoletani. Ciro, 27 anni, è stato vittima, il 3 maggio scorso, di una rappresaglia organizzata da altri tifosi che non lo conoscevano e che lui non conosceva, mentre andava a Roma per la finale di Coppa Italia. Quell’omicidio maturato ed eseguito a freddo prima di un incontro di calcio, la dice lunga sui livelli di (in)civiltà ai quali siamo pervenuti. Si può morire a 27 anni solo perché si sta per andare ad uno spettacolo sportivo come una partita di football? Siamo tornati all’uomo dell’età della pietra. Allora occorre fare un mea culpa complessivo senza attendere altre tragedie e, conseguentemente, altre decisioni punitive o restrittive. Saremo in grado di far tornare «gioco» ciò che è nato come gioco circa un secolo e mezzo fa? Ma il problema è che era nato come gioco solo per gli spettatori. Sicuramente per i «proprietari» delle squadre di calcio non lo è. E quando ci sono di mezzo interessi di miliardi son loro comandare. E noi, come al tempo del «panem et circenses», continueremo ad accontentarci del pane fino a che saranno sul campo e potremo applaudire i gladiatori che spesso si ammazzano. Ma «the show must go on»: lo spettacolo deve continuare…


Trent'anni dalla scomparsa di un genio. Riflettendo su Foucault, sul linguaggio, sulla società. PDF Stampa E-mail
Filosofia
Sabato 26 Luglio 2014 11:27

Mi è stato chiesto - e di ciò ne sono profondamente onorato - di scrivere un pensiero per i trent'anni dalla morte di una delle menti più brillanti del secolo scorso: Michel Foucault. Prima di procedere in tal senso, sento innanzitutto il dovere e la responsabilità di dichiarare al lettore la mia difficoltà di portare a termine questo compito solo apparentemente semplice. La difficoltà scaturisce dalla necessità di utilizzare il linguaggio per descrivere chi - Foucault - del linguaggio ne ha svelato segreti e potenzialità. Il mio timore è allora quello di chi osserva un incosciente maneggiare maldestramente un'arma, turbato dall'ansia di sentire esplodere, da un momento all'altro, il colpo mortale: in questo caso, l'incosciente maldestro ed il suo osservatore sono la stessa persona, il sottoscritto, impegnato ad osservarsi maneggiare, con scarsa padronanza, l'arma potentissima della parola. Conscio della mia incoscienza, accetto il rischio di andare avanti, sempre più convinto che trattare di Michel Foucault non sia assolutamente cosa facile. E non lo è ancora di più oggi, a trent'anni dalla Sua morte, in una società complessa nella quale sembra che non ci sia più spazio per l'uomo, se non come mero dispositivo di produzione di una comunicazione resa possibile soltanto dall'impenetrabilità del pensiero, impenetrabilità che rende altamente improbabile la comprensione e che pertanto apre a sempre nuove possibilità di costruzioni semantiche. Se un giorno, dunque, come d'incanto l'umanità comprendesse appieno l'importanza del linguaggio e la responsabilità che ne sottende l'uso, allora probabilmente essa proverebbe così tanto timore da divenire muta, poiché scoprirebbe che l'uomo è soltanto un prodotto del linguaggio, cioè del potere, o - per dirla con le parole di Foucault - una creatura recente che la demiurgia del sapere ha fabbricato con le proprie mani, nel corso di duecento anni. Ampliando la riflessione con linee di pensiero proprie della teoria dei sistemi sociali e della teoria costruttivista, si potrebbe poi affermare che il linguaggio non soltanto crea l'oggetto osservato dall'osservatore ma crea anche lo stesso osservatore, che è tale soltanto perché è a sua volta oggetto, costruzione cioè - direbbe Luhmann - dell'osservazione dell'altro. Per la teoria dei sistemi sociali, il linguaggio è il medium per antonomasia della comunicazione, e la comunicazione è ciò che rende possibile l'autopoiesi della società. Nella società tutto è comunicabile e quindi tutto è costruibile: la realtà stessa è una costruzione - dice Heinz Von Foerster - una costruzione, appunto, dell'osservatore. Al di fuori della società invece non c'è linguaggio, non c'è comunicazione e non c'è spazio per nessuna costruzione di senso. Il linguaggio è potere e il potere è sapere: una produzione continua di senso (e di non-senso) che dà forma alla realtà, inventando verità.

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Si fa presto a dire "polis"! PDF Stampa E-mail
Filosofia
Mercoledì 16 Luglio 2014 16:17

["Il Galatino" XLVII n. 13 dell'11 luglio 2014, p. 1 e 8]

 

Mettendosi dal punto di vista dell’esperienza vivente del “pensare di più”, ci avviciniamo alla parola “città”, che già insiste nel linguaggio con la sua valenza di significato consolidato, nel tentativo di coglierlo nella sua valenza semantica, attraverso un approccio che definiamo subito metaforico, come intenzione, appunto, di “pensare di più”. D’altra parte, pensare “oltre” la città, non significa oscurarne l’origine.     Così il nome “città” deve aprirsi al nuovo, ai sensi nuovi, riconnettendosi ai significati storicamente consolidati, facendo sempre uno sforzo di risemantizzazione, che parta dal fondo secondo l’istanza fenomenologica ( zurück zu kommen), che impegna ad andare oltre i significati consolidati, alla ricerca della “sorgente” del senso e dell’evoluzione di questo, col suo corredo antropologico, al di là del “ mito”.

Ma qui, il cammino si fa impervio e faticoso. Il passaggio dalla linearità della referenzialità (secondo la logica del rispecchiamento) al rischio polisemico non è mai agevole.

In questo esercizio fenomenologico, che troviamo intrascendibile, parlando della “città” dobbiamo fare i conti con il tema dello “spazio” ( tematizzare lo spazio), che «in principio non è, ma si apre con un atto di violenza. È il taglio dei genitali del padre, mettendo fine all’occludente possesso di Urano perpetrato su Gaia, che rende libero lo spazio, che dona spazio allo spazio entro cui si estende e si distende ciò che la terra ha nel grembo. Il taglio dei genitali crea lo spazio e questo crea le Erinni, crea la contesa , anzi è tutt’uno con essa» (ESIODO, Teogonia, 116-225).

Lo spalancarsi dello spazio aprirà al problema dell’abitare, che ha potenzialità filosofiche inaudite, che qui non possiamo analizzare, anche se si fanno intuire agevolmente.

Comunque, lo spazio nasce da una contesa, per liberarsi da un possesso e rispondere a un bisogno (contesa tra gli dei, tra terra e cielo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e la terra), nasce da un atto di violenza. Da qui la città che richiede che vengano segnati i confini in uno spazio sconfinato, a sua volta definito da una contesa. Sarà il falcetto di metallo “covato” nel grembo della terra (Gaia), e che costringerà Urano ad uscire dalla sua eterna alcova (come narra Esiodo), o l’aratro di Romolo che segna i confini della città eterna, sacralizzandoli con l’omicidio/fratricidio del fratello Remo, la città è tragicamente irrorata dal sangue del fratello, nasce con una connotazione tragico-negativa.

La prima città della Bibbia fu costruita da Caino (Gen. 4,17), cioè dal primo assassino della storia umana (Gen. 4,8), il primo fratricida. La città nasce dal sangue innocente di un fratello, da una morte. La Sacra Scrittura presenta perciò un rapporto con la città molto negativo: non mostra simpatia per mura, porte e piazze. I primi nomi di città sono carichi di condanna: sono le famigerate Babele, Ninive, Sodoma e Gomorra, Ramses e Pitom, Gerico, Babilonia, sinonimo di dolore e pianto, di sfrenate depravazioni, di violenza e di costrizioni. Città tutte figlie di quella metropoli frutto di un criminale “ramingo e fuggiasco”. È inevitabile che di questa città, oltre a cumuli di macerie, non sia rimasta che una fama sinistra. Ma questa frattura con la città deriva, secondo alcuni studiosi, dallo spirito nomade originario dei “padri”, che lascerà traccia di sé in un silenzioso antagonismo fra città e campagna, fra il mondo contadino e il mondo urbano più ricco, più colto, ma anche più corrotto e depravato. I fantasmi di Caino si allungano sul consesso degli uomini, retaggio del peccato originale, sconfessando lo zoon politicon di Aristotele. La polis non c’è più e Atene non è la gloriosa città di Pericle. Sopravanza Babele che si materializza in tutte le esperienze più tragiche della città, anche del nostro tempo: Baghdad, Secondigliano, i Bronx e le favelas delle nostre città dell’opulenza.

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