Programma maggio 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Maggio 2022 Mercoledì 4 maggio, ore 18:30, Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse: dott. Massimo Graziuso,... Leggi tutto...
Convocazione Assemblea dei Soci 22 aprile 2022
Convocazione Assemblea dei Soci   L’Assemblea dei Soci è convocata nella Sala Convegni dell’ex Monastero delle Clarisse venerdì 22 aprile alle ore 16,00 in prima convocazione e 17,00 in... Leggi tutto...
Programma Aprile 2022
Università Popolare “Aldo Vallone” Anno accademico 2021-2022 Programma di Aprile 2022 ●       Venerdì 1 aprile, ore 17:00, Officine di Placetelling - L’Università del Salento... Leggi tutto...
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Inaugurazione Anno accademico 2021-2022
Venerdì 22 ottobre alle ore 18:00, nell’ex Convento delle Clarisse in piazza Galluccio, avrà luogo l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Popolare “Aldo Vallone”:... Leggi tutto...
A rivederci. In presenza, Forse anche a distanza. Ma sempre attivi. E comunque uniti.
Il nostro Anno Accademico è finito, come sempre, con l'arrivo dell'estate, anche se il contemporaneo "sbiancamento" della nostra Regione e la possibilità, finalmente, di organizzare incontri in... Leggi tutto...
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Lecce nel Seicento PDF Stampa E-mail
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Domenica 27 Gennaio 2013 10:49

[“Archivio storico pugliese: organo della Società di Storia patria per la Puglia”, a. 21, 1968, fasc. 1-4, p. 173-179]


Divido col milanese Stendhal il rimpianto di non aver potuto vedere Venezia nel 1760 ed il cruccio per quell’inappagabile visita, anziché esser lenito, s’adagia in una trepida commozione all’incanto, che in me sempre si rinnova, per le luminose vedute di Canaletto e le liquide armonie di Vivaldi e di Arbinoni, che sono i geni musicali della città, così come della sorridente sua parlata ne è Goldoni l’interprete più felice.

E ho un altro rimpianto ancora, quello di non aver potuto vedere Lecce nel Seicento, nel secolo in cui la città, divenuta dimora di case religiose ed area di residenza, di richiamo e d’interessi a titolati di antica e recente nobiltà, ai nobiliter viventes per professione di legge e di medicina, a banchieri e mercanti veneziani, genovesi, fiorentini, bergamaschi, lucchesi, milanesi, giudei, greci, ragusei e albanesi e ad una schiera di artigiani, espresse nelle lettere e nelle arti la misura della sua civiltà, che è civiltà essenzialmente barocca, con quel grumo di Spagna e di Controriforma che il termine racchiude, ma, almeno quanto alle arti plastiche, col gusto amabile di una schietta variazione locale al noto sapore romano e napoletano.

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E le vele coprirono la volta del cielo PDF Stampa E-mail
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Venerdì 31 Agosto 2012 09:18

Otranto 1480 nella cronaca di Ibn Kemal


[in “Apulia”, giugno 2004]

 

Desidero, in limine a questa commemorazione, rinverdire con animo commosso il ricordo struggente di miei Maestri e amici che non sono più fra noi, ma che hanno dato a questa città e alla sua storia un inenarrabile contributo di studi, di passione filologica, di amore. Essi sono: Oreste Macrì, “signore delle pinete idruntine” in quel di Calamuri, ispanista insigne e interprete del Novecento letterario europeo; Maria Corti, impareggiabile “sirena” di questa città, per averne “cantato” con cifra ammaliatrice l’anima tragica, sollevandola dai gorghi della storia nelle serenatrici e universali plaghe del mito; Aldo Vallone, insigne dantista e storico della letteratura che tracciò un esemplare profilo di Otranto nella tradizione letteraria; Donato Moro, il più grande e autorevole studioso degli eventi che dettero vita all’epos idruntino, filologo e poeta; Wanni Scheiwiller, editore di aristocratica misura, che elesse Otranto a categoria esistenziale, ed infine Carmelo Bene, il solo di questa pleiade che non ebbi la ventura di frequentare, ma che pure appartiene alla mia esperienza intellettuale. Dedico loro questo contributo che ho scritto per invito del Sindaco di Otranto, invito che mi lusinga e che mi onora e del quale ringrazio con profonda e sincera emozione.
Ebbene, fonderò la mia relazione su un testo redatto da un testimone oculare dell’eccidio, un testo ancora malnoto e mai collazionato con la tradizione storiografica delle fonti in nostro possesso alle quali, invece, ampiamente hanno attinto gli storici della guerra idruntina.

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Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina PDF Stampa E-mail
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Giovedì 23 Agosto 2012 11:59

Schizzo di un minore letterato insofferente e geniale

 

[in “Apulia”, giugno 1992]

 

Quando Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina pubblicò, nel 1697, la sua prima opera, aveva già superato la quarantina, ed era quindi piuttosto avanti negli anni. S'intitolava: Miniera dell'argutezza scoperta dal sig. Silvio Arcudi ed illustrata dal P. Alessandro Tomaso Arcudi, suo pronipote, de' Predicatori ed era inserita nella Galleria di Minerva, Tomo II, presso Girolamo Albrizzi, in Venezia, MDCXCVII, alle pp. 297-306. Del suo bisavolo l'autore utilizzava "alcuni abozzi di questa vasta materia, quasi affatto logorati e consunti non so dagli anni o dalla trascuragine degli credi" (p. 297). E davvero c'è da credergli; perché, tra l'altro, verso la fine dell'opera, vengono citati, dei Tesauro, il Cannocchiale Aristotelico, che apparve nel 1654, ricordato qui come strumento già ampiamente divulgato; e anche le "Lettere missive", cioè Dell'arte e delle lettere missive, che videro la luce vent'anni dopo; né il bisavolo poteva esserne a conoscenza. Dunque, l'aggettivo illustrata del titolo non val quanto "annotata", perché in effetti "miniera" e "illustrazione" fan tutt'uno. La "vasta materia" è quella delle argutezze, cioè dei mille modi di manipolare (spostando, anagrammando, aggiungendo, togliendo ecc.) i nomi propri e le parole comuni, ricavandone impervii e sorprendenti significati.

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Macrì e il suo Salento fra simbolismo e storicismo PDF Stampa E-mail
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Sabato 28 Luglio 2012 18:35

[in "Apulia", settembre 1999]

 

"...habent sua fata libelli"; così alcuni dicono che pensasse Orazio, ma così invece certamente scriveva Terenziano Mauro nel suo De litteris del 286 dopo Cristo, volendo intendere che il destino di ogni libro è condizionato dalla varia disposizione del lettore. L'intero esametro infatti suona così: "Pro captu lectoris habent sua fata libelli"; la sorte del libro, quale che esso sia, risponde al captus lectoris: una sorprendente ipotesi di sociologia della lettura, formulata più di mille e settecento anni fa. Ma un libro tuttavia tanto più resiste al captus lectoris, quanto più è unitario, compatto, programmato, com'è questo di Albarosa Macrì-Tronci; un libro tutto teso a rilevare da varia direzione il senso, i modi, l'efficacia della componente salentina nell'opera del sempre caro e rimpianto Oreste Macrì, attraverso scritti, suoi e di altri, che si legano alla cultura operante nel Salento a partire dal secondo dopoguerra. Di qui il titolo del libro: Scritti Salentini (con tutte e due le esse maiuscole, probabilmente per enfasi di grafia), ovviamente di Oreste Macrì; il quale contiene anche cinque testimonianze (di Bo, di Bigongiari, di Marti, di Parronchi e di Valli), una introduzione, anche di Donato Valli, e una esaustiva "Nota ai testi" della solerte curatrice, nonché tante altre sue preziose annotazioni lungo tutto il volume su personaggi, avvenimenti e riferimenti bibliografici.

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Il punto sulla “B.S.S.” PDF Stampa E-mail
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Venerdì 20 Luglio 2012 06:42

[“Apulia” del marzo 2000]

 

Cominciamo col dire che la sigla “B.S.S.” sta per “Biblioteca degli Scrittori Salentini” dell’editore Congedo di Galatina, fondata e diretta da Mario Marti con la collaborazione di alcuni amici e colleghi di redazione. In realtà, la “Biblioteca degli Scrittori Salentini” costituisce la prosecuzione di una “Biblioteca salentina di cultura” pubblicata dall’editore Milella di Lecce, e a suo tempo fondata anch’essa e diretta da Mario Marti, assistito dagli amici della redazione. Ma si tratta, in sostanza, di un’unica iniziativa, ormai più che ventennale, e che sfiora anzi il quarto di secolo. Le cose andarono come ora si racconterà con la maggior precisione possibile, per l’interesse e la curiosità di tutti coloro che, sempre attenti, per dovere o per passione, allo svolgersi della fenomenologia della cultura, e in particolare di quella letteraria, non disdegnano di impattarsi, con serietà ed impegno, col difficile e rischioso problema dei rapporti dialettici tra l’operosità locale e quella, per l’appunto, nazionale, in una visuale integrale e policentrica della storia. Entro e fuori dell’«accademia» universitaria e non.

Ora mi si permetta di passare, senza scandalo alcuno, dalla terza persona alla prima, considerata la mia posizione nella questione specifica; e questo son sicuro che renderà anche il discorso più sciolto, amabile e dunque leggibile, se non godibile. Almeno, lo spero vivamente; anche perché mi atterrò alla nuda realtà dei fatti, senza alcuna spinta di protagonismo, di vano compiacimento, o, peggio, di narcisismo. E comincerò col ricordare quel dolce tardopomeriggio di settembre (era l’anno 1976), quando l’editore Antonio Milella, del quale ero diventato stretto collaboratore e amico fidato lungo i miei precedenti anni di docenza alla Facoltà di Lettere, venne a casa mia, per discutere e decidere, insieme con me, positivamente o negativamente che fosse, circa una iniziativa editoriale che gli avevo illustrata nelle sue linee generali, e forse ancora un po’ vaghe, e che però mi stava molto a cuore, e da molto tempo.

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