["Il Titano", supplemento economico de "Il Galatino", anno XLVIII n. 12 del 26 giugno 2015, pp. 34-35]
Soprattutto nel Novecento i poeti hanno progressivamente abbandonato le strutture metriche, seguendo il verso libero. La conseguente minore difficoltà formale ha spinto a considerare poesia tante scritture a bandiera – alcuni esempi di questo modo d’organizzare le parole su carta sono raccolti nel seguito – e molti a cimentarsi nell’impresa. Non so se sia questo proliferare di produzione poetica una delle cause cui attribuire la riduzione progressiva dei lettori di poesia, diventati forse inferiori di numero ai poeti e a chi è presunto tale. In ogni caso la semplicità indotta dal non doversi attenere alle strutture metriche, con buona pace della costruzione di versi in base a piedi – gruppi di due o più sillabe distinti nella struttura sillabica e nell’accentazione – come il trochèo, il giambo, il dàttilo, lo spondèo, l'anapesto e l'anfìbraco, e di tante altre “figurazioni” sintattiche e fonetiche, è solo formale. Restano invariati, infatti, i problemi del ritmo, della musicalità della frase, della profondità dei concetti che chi voglia scrivere poesia necessariamente affronta, anche quando non ne è consapevole. Ogni volta che si pensa di aver risolto questi problemi al finire di una composizione, si deve avere l’umiltà di ricominciare da capo e l’orgoglio di credere di poter migliorare, e lo sforzo di farlo.
Quanto segue, non so se possa considerarsi poesia. Dovrebbe essere il lettore a giudicare. Il giudizio è determinato dalla propria sensibilità – qualcosa che non si acquisisce, si ha e si coltiva, sperando che gli eventi della vita non la inaridiscano –, dalla propria psicologia, dal vissuto, dalla cultura personale. Per questo il giudizio è mutevole, un’onda che si slancia sulla battigia per poi ritirarsi. Per questo un’opera deve essere vista nel tempo, per la sua capacità di parlare ai suoi fruitori attraverso il tempo, in condizioni sociali, politiche, psicologiche, culturali mutate, ma forse a un immutato grado di sensibilità. E ciò talvolta accade, come fosse un miracolo sottile, che deve sedimentare senza vuota alterigia, prima che arrivi lo strepito, prima che l’industria culturale se ne appropri, ove abbia qualche interesse a farlo, stravolgendone il senso talvolta, se non spesso, con ottusa pervicacia. Forse nessuna di queste condizioni si applica al resto di questo scritto, alle sue parti a bandiera, cioè. Non sono io a doverlo dire. In merito l’unica espressione che mi è concessa riguarda un malcelato e non finto pessimismo sulla qualità del tutto.
Si può scrivere anche per la gloria. Può darsi che, come tanti altri, Vladimir Nabokov lo facesse, come potrebbe forse emergere dalle lettere alla moglie Vera, ma perché questa tendenza non finisca per inzaccherare il risultato, è necessario essere almeno Nabokov e se lo si fosse non ci sarebbe forse neanche bisogno di bramare la fama, perché comunque si sarebbe destinati a rimanere nel tempo. Tutto questo dovrebbe sconsigliare di cercare la gloria. E semmai la tentazione venisse, forse bisognerebbe ricordare il Qoelet, l’Ecclesiaste cioè, “il cui genio”, ricorda Harold Bloom, “ci mostra come sotto ogni abisso si dischiuda un altro abisso più profondo”, e sta lì dal 200 a.C. a ricordare l’aspetto caduco della vanità.
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